Giusy arriva da me in profondo stato di prostrazione e depressione. Sta uscendo, a fatica, da una relazione fortemente destabilizzante e patologica. Una relazione durata 4 anni con Matteo, un professionista di poco più grande di lei. Quattro anni di incubo, a suo dire, che l’hanno portata sull’orlo della pazzia.
Giusy è originaria della Romania, fu adottata da piccola e ora i suoi genitori sono morti. È sola al mondo, senza contatti significativi con la rete parentale e senza amici. “Lui mi faceva sentire una stupida, inutile, una persona di cui a nessuno, all’infuori di lui, sarebbe importato”. Così comincia il racconto straziante di Giusy. Una storia fatta di sottili ma continui, costanti attacchi al suo senso di fiducia e valore personali. Una sorta di inesorabile ma velato “terrorismo psicologico”. Matteo non ha mai alzato le mani su di lei, non ce n’era bisogno. Tanto lei era succube e dipendente da lui, dai suoi giudizi, dal suo modo di vedere e interpretare le cose. Giusy, piangendo, mi racconta di quanto si sia annullata, messa in dubbio, accusata, svalutata, per rimanere con lui. E non era neanche consapevole di quanto stesse accadendo.
Dagli episodi, dalle parole, dalle atmosfere che Giusy via via mi racconta di aver vissuto nella relazione con Matteo si delinea sempre più netta un’ipotesi, una parola che racchiude il senso di ciò che è accaduto a Giusy: Gaslighting.
Il termine fa riferimento a un’opera teatrale statunitense e ai successivi adattamenti cinematografici, degli anni ’40, nei quali si descrivono le modalità subdole e manipolatorie con cui un marito cerca di portare la moglie a dubitare di se stessa, delle proprie percezioni e della propria memoria (ad esempio negando fatti realmente accaduti o distorcendo questi ultimi) per disorientarla e averne il totale controllo.
Si tratta di una forma d’abuso che, avvenendo tra le mura domestiche e non lasciando “segni” percettibili, come potrebbero essere quelli di percosse fisiche, è estremamente difficile da riconoscere. Anche perché chi ne è vittima, per prima, non riconosce da subito il lento ma infido processo di manipolazione a cui è sottoposta. Ciò che succede, infatti, è che gli “attacchi” del gaslighter sono graduali, somministrati a piccole dosi, ma inesorabili. È quello che accade nella famosa metafora della “rana in pentola”: il calore dell’acqua si alza lentamente e la rana non si rende conto di ciò che le accade, arrivando a morirne.
Inoltre, spesso, l’atteggiamento generale del gaslighter è a tratti di grande apprezzamento, di dichiarata vicinanza e valorizzazione della vittima. La quale, alla ricerca di un’approvazione e di una sicurezza che non trova dentro di sé, arriva a vacillare, a provare un grande stato di confusione, a dubitare di se stessa e ad accettare la visione e la lettura della realtà dichiarate dal proprio manipolatore, spesso oggetto di forte idealizzazione.
Ecco allora che alcuni fatti vengono distorti, altri negati, vengono rivolte alla vittima accuse per cose irrisorie o inesistenti. Vengono messi in dubbio i suoi ricordi, la sua lettura dei fatti, addirittura le sue percezioni (“non è come dici, sei tu che ti immagini le cose”). Il tutto alternato a dichiarazioni di solidarietà, di vicinanza emotiva e di affetto (“lo dico per te, tesoro, ti vedo un po’ esaurita, lascia che mi occupi io di te”). Il vissuto della vittima passa da stati di confusione, a incredulità, a rabbia, per arrivare, quando la persona infine depone le armi e arriva a dubitare completamente di se stessa, alla depressione. La sua autostima e capacità decisionale sono state definitivamente compromesse e schiacciate.
Giusy è caduta in una trappola pericolosa, che ha trovato terreno nel suo disperato bisogno di affetto, di approvazione, e nella scarsa fiducia in sé, nella mancanza di ascolto e di legittimazione delle sue sensazioni e impressioni personali.
“Giusy, anche io potrei rischiare di rappresentare, per te, un’altra persona che ti dice cosa è giusto e cosa è sbagliato. Per questo lavoreremo molto, all’inizio, sull’ascolto e la decifrazione del tuo sentire. Quello, appartiene solo a te, ti aiuta a capire cosa ti fa stare bene e cosa no, cosa vuoi per te stessa e da cosa preferisci prendere le distanze. Il nostro lavoro di ricostruzione partirà, paradossalmente, da un piano molto diverso da quello che è stato attaccato, ovvero il piano mentale. Partiremo dal tuo corpo e dalle sue risposte…ogni casa solida si costruisce dalle fondamenta.”