Il potere del rito

Giulia è una ragazza di 22 anni.

Nata in una famiglia molto instabile, ha sempre avuto la sensazione di “non appartenere a nessuno”. I legami familiari non sono mai stati fonte di sicurezza per lei. Non avere avuto un “contenitore” solido a cui fare riferimento – ne è consapevole – le ha fatto fare esperienze anche impulsive e incaute. Perché – in un contesto caotico – non ha mai imparato ad ascoltarsi e a conoscere veramente se stessa. Ha quindi spesso agito sull’onda del momento, trascinata da eventi da cui si sentiva travolta.

Solo oggi, che prova un malessere generale, un senso di tristezza senza una precisa ragione, ripensa con una diversa consapevolezza a tutti gli episodi che le sono accaduti.

Uno di questi risale a qualche anno prima, quando le accadde di scoprirsi incinta. Per lei fu un momento molto drammatico. Non tanto per il timore della reazione dei suoi genitori (a cui non lo ha mai detto). Ma perché sapeva che avrebbe voluto significare abortire. Non era certo pronta e nelle condizioni di prendersi cura di un bambino. Sentiva – almeno allora – che quella era la sola strada da percorrere. In qualche angolo del suo cuore, però, si nascondeva un dispiacere inascoltato. Almeno finora.

Per la prima volta nella sua vita Giulia tornava a pensare, e a parlare, di quell’episodio.

Ultimamente, a dire il vero, era diventato un chiodo fisso: l’accaduto la perseguitava, non la faceva sentire a posto con la coscienza.

Abbiamo lavorato molto su quanto avvenuto. Esplorando i suoi pensieri e dando spazio alle emozioni. Giulia, se non altro, ora era in grado di riaccedere a quel ricordo senza disperarsi. Ma qualche tassello dentro di lei ancora non era al suo posto.

È stato a quel punto che le ho parlato di come, talvolta, gli eventi tocchino tematiche universali, primordiali, archetipiche. In questi casi, in cui si condensano emozioni, significati profondi, che ci connettono con il  mistero della Vita, è a quel livello – oserei dire sacro – che dobbiamo entrare: in quel campo, dove la morale non è contemplata. Un campo di emozioni sublimi e tremende, di spiriti, di immagini epiche, di forze sovrastanti, di spaventosa bellezza e di innocente grandiosità. Quando qualcosa, a questo livello, è perturbato, può capitare che non basti fare pace con i nostri ricordi e le nostre emozioni. A volte dobbiamo “restituire” qualcosa che nutra e plachi quel campo enigmatico e potente, dove sembra che gli equilibri si siano turbati. In che modo? Parlando il linguaggio, simbolico ed evocativo, di quella terra misteriosa, che qualcuno chiamerebbe inconscio. Ecco allora che il rituale, il rito, rappresenta un ponte tra la dimensione cosciente e quella onirica, simbolica, trascendente.

Giulia lì per lì mi ha guardato un po’ perplessa. Il primo contatto con queste tematiche lascia sedotti o, più spesso, attoniti, smarriti.

Qualche settimana più tardi, però, Giulia mi ha riportato questo fatto: poco prima dell’aborto, caso vuole, le avevano regalato un uccellino. Le era sempre piaciuto molto, ma provava anche una gran pena per quella creaturina destinata a passare la vita in gabbia. Tuttavia non aveva mai avuto il coraggio di liberarlo. Fino a qualche giorno prima. Giulia ha raccontato di aver sentito una spinta fortissima ad avvicinarsi alla gabbia. Guardando il suo uccellino improvvisamente le è stato chiaro cosa fare: ha aperto la gabbia, ha preso delicatamente l’animaletto tra le sue mani. Lo ha ringraziato, gli ha chiesto perdono e gli ha detto che lo amava. In quel momento, mi confessa Giulia: “era come se stessi parlando alla creatura che non ho fatto nascere.”. Infine, ha liberato tra le lacrime l’uccellino. Quel gesto, denso di significato simbolico, ha rimesso “ogni tassello a posto”. Ora Giulia mi racconta di questo episodio con una voce e uno sguardo sereni. Ora, mi confessa, ha capito cosa volevo dire, con quello strano discorso…

Le porte della dimensione più intima e sacra si sono dischiuse e le hanno permesso di ristabilire un equilibrio, come – parole sue – “se rispondessi a una legge naturale”.

Il contatto con il bambino interiore

Mario è un giovane uomo di 23 anni.
Da subito mi è chiaro che il suo malessere (forti ansie, angoscia, attacchi di panico) è legato ad un iper-investimento della mente, dei pensieri, come probabile fuga da vissuti difficili da affrontare.
Durante un colloquio mi confida che uno dei “temi caldi” delle sue rimuginazioni è dirsi “Sono un incapace e gli altri se ne potrebbero accorgere”. Approfondendo meglio questo pensiero emerge come il vero timore di Mario sia quello di far trapelare la sua vulnerabilità. Mario comprende razionalmente quanto sia inutile e inappropriato giudicare negativamente le sue fragilità, ma non può fare a meno di odiarle. Quando si pensa come debole gli si chiude immediatamente lo stomaco, sente un nodo alla gola, una vampata di calore alla testa e le mani fredde.


Non potendo risolvere un problema di pensiero allo stesso livello in cui si è prodotto (quello mentale), decido di fargli fare un’esperienza emotiva. Gli chiedo di dare una forma a quella che percepisce come la sua parte vulnerabile.
A Mario viene spontaneo immaginarla come un bambino piagnucoloso che non è in grado di fare altro se non rimanere lì dov’è, immobile, incapace di fare qualsiasi cosa. Chiedo a Mario che cosa prova nel “vedere” quel bambino di fronte a sé.
Mario mi dice che guardandolo, dopo un primo momento di irritazione, gli fa pena. Gli verrebbe voglia di avvicinarsi e abbracciarlo. Gli propongo di farlo, sempre in quel campo magico dove tutto può accadere: la nostra immaginazione.
Mario si lascia andare ad una profonda tenerezza mentre, con l’occhio della mente, si concede questa esperienza.
Proiettando fuori di sé l’incarnazione delle sue vulnerabilità, Mario ha potuto avvicinarle. E contattarle in un modo che fosse diverso dal giudizio. Gli propongo di considerare – e cautamente di trasformare – quel bambino della visualizzazione in sé stesso, a quella medesima età.
Mario tentenna. Inizialmente, l’immagine di sé da bambino fatica a formarsi. Ma finalmente arriva. Insieme ad una grande commozione. Non si era mai “rivisto” in questi termini. Prova una stretta al cuore e un sentimento di compassione che non era mai riuscito a provare nei propri confronti, men che meno verso il bambino che è stato.
Invito Mario, anche stavolta, a comportarsi verso quel bambino nel modo che sente più spontaneo. Mario mi dice che anche con lui avverte il bisogno di avvicinarsi e di avere un contatto fisico. Mentre immagina tutto questo, porto la sua attenzione a focalizzarsi sulle sensazioni che gli derivano da questo abbraccio, identificandosi ora con il Mario adulto, ora con il Mario bambino. È un momento molto intenso, che lo tocca parecchio. Lo aiuto a farsi attraversare dalle sensazioni e dalle emozioni del momento. Non potrà dimenticare facilmente quest’esperienza e lo invito, ora che fa parte del suo bagaglio, a ricordarsene nel momento in cui il pensiero giudicante visto sopra si riaffacciasse alla sua mente. Gli suggerisco di tenere presente che quelle parti vulnerabili di sé chiedono solo un riconoscimento, un’accettazione, amore. E quanto più lo ricevono, tanto più si rinforzano. Invece che respingerle, addirittura odiarle, ora sa che hanno solo bisogno d’amore. Quel bambino è dentro di lui, e la parte adulta di sé, oggi, può prendersene cura.


La mente di Mario – come quella di tutti noi – può rappresentare un limite o una risorsa. Diventa vincolante nel momento in cui prende il sopravvento il bisogno di controllo, che porta a valutare, giudicare, ad analizzare. È la parte più razionale che, se non gestita, può portare a una deriva.
C’è poi una parte della psiche, quella legata all’immaginazione, ai simboli, alla creatività, che è un vero e proprio scrigno di tesori. Imparare ad aprirlo e a fruire dei suoi doni è quanto di più bello possiamo fare per noi stessi e per il mondo.

Uno, nessuno e centomila

Stefania è una donna di circa 25 anni. Nonostante la giovane età ha fatto un lavoro su di sé molto articolato, profondo, che ancora oggi, dopo un anno circa, prosegue.

Il motivo che l’ha portata da me è stato il vissuto di una devastante perdita di senso. Quando l’ho incontrata era estremamente disorientata, nulla le sembrava che valesse più la pena di essere vissuto.

L’angoscia e lo smarrimento la travolgevano. “Non so più chi sono” (nessuno) era la frase che più spesso ripeteva all’inizio del suo percorso. Io le rispondevo che quando arriva il bàratro, è l’Anima che butta all’aria le carte per farci cambiare gioco: per iniziare una caccia al tesoro in cui la conquista finale è l’Anima stessa.

Il lavoro con Stefania si è focalizzato quindi, per lungo tempo, sul darle gli strumenti per incontrare la parte più autentica di Sé: l’ascolto delle proprie sensazioni, la sospensione del giudizio, il rinforzo e il consolidamento della fiducia in se stessa. Ciò è stato possibile non tanto attraverso disquisizioni o ragionamenti mentali. Ma permettendole di attraversare, con il supporto della mia presenza, le sue emozioni e i suoi sentimenti più difficili e spaventosi. Stefania ha avuto il coraggio di scendere nel suo inferno, in modo molto concreto: lasciando fluire dentro di sé le emozioni progressivamente più temute e facendo l’esperienza di poterle tollerare. Il vissuto non ha bisogno di parole: una volta che accade, nessuno lo può smentire e resta testimonianza di una capacità, di una possibilità che rimane come bagaglio incontestabile dell’individuo.

Stefania è quindi arrivata, dopo diversi mesi, a percepirsi come una persona ricentrata, sufficientemente solida, integra (uno). Ha potuto individuare e riconoscere quel nucleo di sé su cui fare affidamento, a cui tornare in caso di smarrimento, da contattare per ritrovarsi e per recuperare un senso di pace e di fiducia.

A volte i percorsi terapeutici finiscono qui. Quando arriva la sensazione di “avercela fatta”, di aver esplorato e superato la propria “selva” interna, di aver fronteggiato i propri demoni interiori. A volte vanno ancora oltre.

E il lavoro terapeutico diventa, più che un viaggio infero, un’esplorazione che ha anche le sfumature della sperimentazione divertente e divertita.

Succede quando, certi di poter tornare nel nostro “centro”, ci permettiamo di percorrere terreni insoliti, nuovi, che magari mai avremmo creduto di poter attraversare. Non si tratta semplicemente di mettere in atto atteggiamenti o comportamenti diversi da quelli automatici e consolidati: questo è qualcosa che in ogni fase della terapia è oggetto di attenzione.

Ma di riuscire a non identificarsi con rigide immagini di sé, con ruoli, con quella che si ritiene la propria “personalità”. Potrebbe sembrare un obiettivo contraddittorio rispetto a quello di riconnettersi con la propria essenza. Eppure non lo è: il nostro Sé sta “dietro” e al di là di tutte le possibili identificazioni che l’Io mette in scena (centomila). Allenarsi ad andare oltre e al di là di quello che riteniamo essere il nostro “vero Io” è qualcosa che apre a nuove consapevolezze e amplia la coscienza.

Costruire e decostruire è il moto stesso della vita, che per sua natura “pulsa”. Far fluire questa possibilità dentro di noi ci riconnette con una legge dell’universo, dove tutto è onda.

Ecco allora che diventa possibile, in sessione, avere uno scambio del genere:

Stefania: “…Ho capito dottoressa, mi risuona…Ce la posso fare”.

Io: “Certo Stefania, ce la puoi fare, ma anche no…”.

E ridere insieme, consapevoli del fatto che, se anche le esplorazioni di Stefania non ottenessero il risultato che lei spera, andrebbe bene lo stesso.

Il percorso è la mèta.

Porsi le giuste domande

Serena è una ragazza sulla trentina. Visibilmente timida, “posata”, mi racconta della sua situazione familiare (vive ancora con sua mamma, che adora), e mi spiega come ogni cosa, per lei, sia fonte di ansia e inquietudine. Soffre di attacchi di panico, motivo per il quale ha chiesto il mio aiuto.

Di recente il tema che la angoscia di più riguarda come dire a sua madre che sta valutando di chiudere la relazione con il suo fidanzato storico, Daniele. Mi spiega infatti che Daniele è amatissimo dalla sua famiglia e non saprebbe come giustificarsi, cosa raccontare per spiegare la sua decisione.

Candidamente, lì per lì le chiedo: “Ma perché dovresti spiegare la situazione o giustificarti?”

Serena si paralizza, mi guarda sgomenta e balbetta qualche parola. È spiazzata, dice che lo ha sempre fatto e di non aver mai considerato di poterlo evitare.

Verrò a sapere da lei stessa, più avanti nel corso del nostro lavoro, che quella mia domanda ha rappresentato per lei uno squarcio nel suo modo di vedere le cose.

Serena, infatti, non aveva mai messo in discussione il fatto di dover rendere conto di TUTTO a sua madre. E questo, il rapporto simbiotico tra lei e la mamma, si sarebbe poi rivelato il nodo centrale di tutto il suo lavoro, focalizzato sulla sua possibilità (e diritto) di essere se stessa, distinta dai suoi familiari, senza che questo volesse dire tradirli o voler loro meno bene.

Serena da quel mio primo interrogativo ha sentito una scossa che ha messo in discussione il suo consolidato sistema di credenze.

Saper porre le giuste domande, più che avere le risposte, è ciò che smuove di più il terreno del nostro mondo interno. L’arte del porre le domande è uno degli strumenti a mio avviso più importanti nelle mani di ciascuno di noi. Entrare in una prospettiva di cambiamento del punto di vista da cui guardare e approcciare il problema è ciò che ne permette la risoluzione. Per questo da soli, da dentro il problema, è difficile assumere un angolo di osservazione diversa.

Una domanda efficace è quella che mette luce su aspetti fino ad allora rimasti in penombra se non al buio. Come dice anche un noto aneddoto, è facile cercare qualcosa alla luce di un lampione. Ma se non la si trova, è probabile che sia nell’oscurità circostante. Solo un folle o un ubriaco si ostinerebbe a cercarla solo laddove è illuminato.

Una buona domanda accende un faro su una porzione di realtà non ancora considerata. Apparentemente può sembrare una divagazione, ma il più delle volte porta a nuove scoperte. Che poi emergono spontaneamente.

In alcune occasioni, infine, le persone si pongono delle domande addirittura fuorvianti. Chiedersi “che nome abbia il proprio disturbo” o “perché si provi così tanto dolore” non porta alcun vantaggio né alcuna consapevolezza aggiuntiva. In questi casi sarebbe più interessante mettere a tacere la parte razionale e imparare a stare a contatto con il proprio sentire.

Farsi le domande giuste, o smettere di farsi troppe domande razionali o guidate dal bisogno di controllo, è dunque un lavoro centrale in un percorso di crescita personale. Ancora più importante del darsi risposte. Poiché le risposte, spesso, sono tentativi di “sedare” inquietudini che andrebbero solo ascoltate, più che etichettate.

La difficoltà di scegliere

Miriam è in un’impasse. Non sa cosa rispondere a Dario, che le ha chiesto di andare a convivere con lui.

Non ha dubbi sui sentimenti che prova nei suoi confronti, ma teme che le cose tra loro si rovinerebbero. Sebbene si conoscano da diversi anni, infatti, Miriam e Dario hanno sempre mantenuto i loro spazi privati e, agli occhi di Miriam, un passo di questo genere metterebbe alla prova il suo bisogno di indipendenza.

Ma non si sente nemmeno di negare che l’idea la alletterebbe molto.

Un chiaro vissuto di ambivalenza nei confronti di qualcosa che è desiderato ma anche temuto.

Miriam non è nuova a questo genere di conflitti: motivo per cui per lei le scelte sono un vero e proprio strazio. Amante delle routine e refrattaria ai cambiamenti, Miriam è serena quando ha la situazione sotto controllo. E il fatto di sviscerare i pro e i contro di ogni possibilità non la tranquillizza né la fa uscire dall’immobilità. Le domando cosa le impedisce di osare.

“Sono bloccata dalla paura” risponde Miriam.

“Paura di cosa?” chiedo io.

“Ma di fare la scelta sbagliata, ovvio”.

 Io: “Credo si tratti piuttosto della paura di morire”.

Lei: “Addirittura?! Ma cosa c’entra, mica andrei al patibolo!”.

“Eh no – le spiego – ma ogni scelta implica la capacità di lasciar andare qualcosa (quel qualcosa che non scegliamo). E, in fondo è come veder morire un pezzetto di noi. Detto in altri termini: ti fa paura rinunciare al senso di sicurezza che ti dà il mantenere le tue abitudini, le tue routine e il tuo senso di dominio sulla realtà che conosci. Una scelta non è tanto, almeno per le questioni affettive o emotive, un fatto di costi e benefici, un bilancio ragionato dei pro e dei contro. È un atto di fiducia. In se stessi e nella vita. E per vivere appieno bisogna far pace con la paura della morte, delle varie morti: i dolori, gli abbandoni, le lontananze, le trasformazioni. Perché fanno parte inevitabile della vita. La vita esiste in copresenza alla morte”.

“E quindi? Cosa devo fare?” ribatte attonita Miriam, che vuole andare dritta al sodo.

“Non devi fare niente. Devi stare. Stare con quello che provi senza farti sopraffare. Hai paura? Sentila nel corpo, lasciati attraversare dal senso di debolezza, dal tremore, magari dalle lacrime. Non cercare di negarla o di “farci” qualcosa, di allontanarla o di giudicarla. Semplicemente vivila. Fallo adesso. Immagina di aver risposto positivamente a Dario: andrai a vivere con lui. Cosa provi?”

Miriam: “Mi sento agitata, un nodo alla gola, mille pensieri…”

“Lascia andare i pensieri e stai solo con le sensazioni: il nodo alla gola…”

“Sì…mi si stringono anche le budella…”. Dopo qualche istante Miriam aggiunge “Però ora meno, se non seguo i pensieri le sensazioni spiacevoli se ne vanno…”.

“Ecco – dico io – adesso prova a immaginare di avergli detto di no. Cosa senti?”

“Un po’ di tristezza, come se avessi perso un’occasione…mi viene da piangere quasi. Sì però se poi le cose vanno male rimpiangerò per sempre di aver fatto questo errore!”.

“Ma quale errore? – le chiedo – Se prendiamo una decisione sulla base del nostro sentire, in un preciso momento della nostra vita, come potrebbe essere un errore? Quello che proviamo non è sbagliato, e se agiamo in coerenza col nostro sentire non potrà mai essere un errore. Perché avremo seguito una parte autentica di noi. Se poi questa parte evolverà in modi cosiddetti positivi o negativi non lo possiamo sapere. Ma almeno sapremo di aver agito in totale sintonia con la nostra essenza.

Non stiamo parlando di gesti impulsivi, ma di una scelta basata su un sentire accolto, ascoltato.”

Ciò che ci blocca è il vano tentativo di controllare qualcosa che non possiamo controllare. Fare delle scelte, cambiare, implica sempre saper lasciare andare qualcosa, parti di noi. Non possiamo rimanere immutabili nel tempo e nelle circostanze. Vivere è anche un po’ morire, ogni giorno, dal giorno in cui nasciamo. Per questo dico sempre che quando abbiamo paura di fare delle scelte, in quel frangente oppone resistenza la parte di noi che vorrebbe l’immutabilità. Ma l’immutabilità non esiste, neanche nella morte. Tutto si trasforma. Accettarlo è accettare il fluire e la pienezza della vita.

Il pronking: quando ce l’abbiamo fatta!

Il lavoro su un incubo ricorrente

Renata è una donna sulla cinquantina, con un passato estremamente duro ma una capacità di ascolto e di elaborazione notevoli.
Viene da me con la richiesta esplicita di lavorare sui suoi traumi passati attraverso Somatic Experiencing®, un approccio corporeo e neurofisiologico per il superamento dei blocchi emotivi.
Dopo numerose sessioni in cui abbiamo affrontato diversi aspetti del suo vissuto pregresso di abusi, decidiamo di fare qualcosa di insolito: provare a lavorare su un sogno ricorrente, un incubo, che ancora oggi turba il suo riposo notturno. Pur trattandosi di materiale onirico, infatti, si tratta pur sempre di un’esperienza che lascia in lei un profondo vissuto di impotenza e terrore.


La scena dell’incubo la vede chiusa in una stanza buia, incapace di muoversi o di proferire parola. Il vissuto penoso aumenta via via con la sua immobilità. Anche nel raccontare il sogno Renata prova una sensazione di crescente angoscia. Si sente bloccata, in tutto il corpo, e non riesce ad immaginare (né a concretizzare, in seduta) l’idea di poter muovere alcun muscolo. È sopraffatta dalla paura.
Non essendo immediatamente accessibile per lei il movimento le chiedo che cosa, di quello scenario, vorrebbe cambiare se potesse farlo.
Renata immediatamente risponde: “accenderei la luce”.
Le chiedo di agire in tal senso nella sua immaginazione: visualizzare quella scena che si trasforma, illuminandosi.
Renata sembra trasalire: non ci aveva mai pensato e poterlo fare, ora, cambia tutto. Le compare la stanza di quando era piccola. La conosce bene, anche se non ha bei ricordi di quel luogo. Ma nella stanza c’è una porta. Invito Renata, ora più in contatto con le sue potenzialità, ad assecondare ciò che il corpo vorrebbe.
Renata non ha esitazioni: immagina di alzarsi e di uscire da quella porta, per ritrovarsi magicamente in uno scenario naturale con prati, fiori, farfalle e cielo azzurro.
Il cambiamento del suo volto e del suo tono sono evidenti mentre mi racconta questo “finale” modificato.
Sento che la sua energia aumenta e Renata mi conferma, con un certo stupore, che si sente euforica, piena di vita. Vorrebbe correre, saltare, gridare. La invito a farlo, se desidera. Comincia poi a tremare.


Cosa è accaduto a Renata nel giro di pochi minuti?
Ha sperimentato quello che in termini tecnici si chiama “pronking”, ovvero la percezione di avercela fatta. Il rilascio di un potente quantitativo di energia prima bloccata. È un fenomeno che si può anche osservare in natura, quando certe prede sfuggono ai predatori. Si tratta di un vissuto di pura gioia e vitalità.
Arriva quando superiamo un’esperienza traumatica, quando riusciamo ad uscire da una situazione vissuta come estremamente minacciosa per la nostra incolumità, quando facciamo fisicamente l’esperienza di essere fuori da una situazione di pericolo.
L’energia fisiologica attivata dall’organismo per far fronte alla minaccia viene liberata e quello che si percepisce è una vera e propria “scarica” adrenalinica, di euforia.


Cosa ha permesso a Renata di “farcela”?
Renata ha sempre percepito il suo incubo ricorrente come immutabile, incombente, inevitabile. Non lo ha mai “trattato” come uno scenario che potesse trasformare, avendo sempre subito il vissuto profondamente angosciante e paralizzante che esso le trasmetteva. Accedere a una soluzione percepita come concretizzabile (“accendere” – con l’immaginazione – la luce nella stanza) ha rappresentato per lei una via d’uscita risolutiva, a cui non aveva mai pensato. Una soluzione banale ma “mai vista” e considerata, essendo Renata completamente sopraffatta dalle sensazioni – anche fisiche – di impotenza e paralisi.
La semplicità della soluzione e il fatto che l’avesse trovata Renata stessa, dopo essersi defocalizzata dal suo senso di impotenza, le hanno restituito il suo potere personale e un senso di vitalità incontenibile.
Renata mi ha poi raccontato di non aver più fatto quell’incubo notturno. Ciò a dimostrazione del fatto che, siano più o meno “reali” le esperienze che facciamo, ciò che conta è come noi le viviamo, e anche l’esperienza di attraversamento e superamento che ne facciamo. Sia essa “vera” o immaginata. Si tratta pur sempre di esperienza vissuta nel corpo, e quindi di un passo verso una maggiore resilienza.

Al di là della ragione

Vorrei utilizzare questo spazio per portare l’attenzione su un meccanismo tanto diffuso quanto preoccupante, che si gioca nelle questioni umane ad ogni livello: intrapsichico, interpersonale, familiare e sociale. Si tratta di un funzionamento per lo più inconsapevole che ci riguarda tutti in quanto esseri umani.

Sto parlando del bisogno di controllo. E delle strategie che ne conseguono.

La mente umana – almeno nella sua parte razionale – è programmata per avere il maggior controllo possibile sulla realtà, per poterla prevedere, dominare, direzionare a proprio vantaggio.

Cosa c’è di male in questo? Nulla, se non fosse che troppo spesso dimentichiamo che “la mappa non è il territorio”, ovvero che la nostra interpretazione del reale rimane una semplice possibilità, che nulla ha a che fare con la realtà “vera”. Cosa che ormai la fisica quantistica sta ampiamente divulgando.

In che modo questo impatta sulle nostre esistenze? In un modo drammatico, se non si rimane consapevoli di quanto appena affermato. Perché il rischio, come ben si osserva di questi tempi, è quello di convincersi che la propria interpretazione della realtà (bianca o nera che sia, poco cambia) sia quella oggettiva, quella vera, quella comprovata da queste o quelle prove, quella inconfutabile, perché basata su ragionamenti validi e inattaccabili. Perdendo di vista il fatto che trattasi, in ogni caso, di un nostro tentativo di incasellare in categorie accettabili, gestibili, un flusso complesso e spesso imprevedibile di elementi.

Da dove arriva questo bisogno di controllo?

Dalla paura. Dal timore di non conoscere, di non saper dare spiegazione, di non poter tollerare l’emozione che deriverebbe dal semplice esporsi alla vita senza bisogno di etichettarla, di manipolarla, di piegarla ai nostri bisogni.

Ecco allora che, a livello individuale, ci rifugiamo nell’iper-razionalità per non sentire il dolore o il vuoto o la tristezza. E magari proiettiamo sul “fuori” ciò che non riusciamo a tollerare “dentro”.

A livello interpersonale e familiare sono note a tutti le strategie di controllo. Per fare un esempio: il/la partner deve essere monitorato a stretto giro perché non sarebbe sopportabile confrontarsi con l’incertezza del legame e con l’imprevedibilità dell’altro.

O, più sottilmente, si accusa l’altro di qualcosa che non si riesce ad accettare di sé stessi. Si tratta del meccanismo della proiezione. Che cosa ha a che fare questo con il controllo? Per dirla semplicemente: è una strategia di salvataggio rispetto a contenuti personali inaccettabili, che quindi – venendo espulsi e rigettati sull’altro – garantiscono l’incolumità del nostro sistema. Obiettivo di (auto)controllo riuscito.

A livello familiare, i tentativi di autonomia, sperimentazione e desiderio di espressione personale dei figli possono essere letti come minacce sovversive di infrangere le regole del buon vivere parentale. Ogni comportamento “non previsto” rischia di essere biasimato o additato come anomalia dal quadro precostituito che la mente dei genitori aveva partorito.

E a livello sociale? Si ricrea in grande ciò che accade nel piccolo. Sono evidenti oggi più che mai i tentativi dell’essere umano di avere pieno controllo della realtà esterna. Senza che ci sia la consapevolezza dei numerosi bias cognitivi (ovvero errori inconsapevoli di ragionamento e valutazione) cui la mente razionale va incontro: si tratta di “scorciatoie mentali” che altro scopo non hanno se non quello di rendere ancora più facile e veloce l’elaborazione della realtà. Senza che si consideri come anche – direi soprattutto – le nostre emozioni giochino un ruolo fondamentale nei nostri processi interpretativi.

Il nostro cervello ha bisogno di prevedere e controllare la realtà e si illude di poterlo fare. Si illude? Eh sì, perché con la ragione si può – ed è sotto gli occhi di tutti – argomentare tutto e il contrario di tutto. Andare avanti all’infinito. Basterebbe accettare il fatto che ognuno ha una visione SOGGETTIVA delle cose, e che esistono tante realtà quanti sono gli esseri umani. Basterebbe – si fa per dire – riuscire a tollerare il diverso punto di vista, e la propria incertezza. Basterebbe, e oggi sembra fantascienza, riuscire a stare con il proprio sentire più che rifugiarsi in convinzioni e argomentazioni cerebrali. Ché pure la tanto osannata scienza dà per scontato oggi che le caratteristiche del sistema siano strettamente correlate all’osservatore che guarda.

Cosa assai rara, oggi, è riuscire a stare in contatto con la propria vulnerabilità, con le proprie paure, con l’imprevedibilità della vita e delle emozioni con cui la vita stessa ci mette in contatto.

Se si rinunciasse ad avere RAGIONE e si imparasse a navigare nel proprio SENTIRE staremmo tutti meglio: individui, coppie, famiglie e società.

La sospensione del giudizio

Che cosa ha a che fare un concetto che può sembrare squisitamente filosofico – la sospensione del giudizio, per i greci “epoché” – con il benessere emotivo? Tutto.

Mai come oggi osservo quanto le categorie del mentale (il giusto e lo sbagliato, il bene e il male, il senso del dovere, il buono e il cattivo, ecc.) portino a saturazione e condizionino il sentire e la condotta delle persone. Arrivando, inevitabilmente, a produrre sofferenza. Una sofferenza dettata dal fatto che, nell’estremo tentativo di controllare una realtà complessa, caotica, contraddittoria, a tratti incomprensibile e spaventosa, l’essere umano si appella allo strumento che, per eccellenza, è vocato al controllo: la mente razionale. Perdendo completamente di vista che il bisogno di analizzare e di governare il mondo interno ed esterno sposta l’attenzione da ciò che, in verità, rappresenta la nostra opportunità di vivere in armonia con noi stessi e con tutto il resto: la presenza attenta, consapevole, l’ascolto non giudicante di ciò che ci accade, istante per istante. L’amplificazione del mentale è qualcosa che, nel nostro tempo, ha acquisito maggiore intensità forse, come dicevo, per un crescente bisogno di controllo a fronte di una realtà via via più complessa; forse perché l’essere umano ha perso, parallelamente, sempre di più il contatto con il suo sentire e con i misteri della vita. Un mentale ipertrofico e ingestibile, a fronte della difficoltà a stare con il proprio mondo sensoriale ed emotivo, ha portato all’esacerbazione di molti disturbi (di tipo ansioso o volti alla ricerca di un’anestesia del proprio malessere).

Le persone che lavorano con me sanno quanto io insista sull’importanza di non identificarsi con (ovvero non credere ciecamente a) i contenuti mentali che hanno come obiettivo quello di classificare e dominare la realtà. Ma gli ambiti in cui si manifesta un tentativo di controllo, di categorizzazione della mente razionale sono più sottili di quanto si possa immaginare.

Elisabetta, che da un anno lavora con me sull’elaborazione di un passato fortemente traumatico, ha ormai imparato a dare ascolto al suo sentire. Ciclicamente, tuttavia, a fronte di episodi particolarmente “stressanti”, le capita di provare un disturbo, sempre uguale: quando avverte un rumore che lei giudica eccessivo, le scoppia un mal di testa debilitante, che la costringe a letto. Elisabetta è consapevole che, probabilmente, se arriva a quel punto è perché non riesce a mettere i suoi bisogni prima di tutto il resto e si forza a vivere situazioni che preferirebbe evitare. Il mal di testa la “autorizza” a prendersi il suo tempo e il suo spazio. Ma, come nell’ultima occasione, ci sono circostanze in cui non può sottrarsi a certi eventi, per varie ragioni. Mi chiede, in questi casi, come possa fare.

La invito a tornare al momento in cui, l’ultima volta, ha percepito il rumore che ha “dato il via” al suo mal di testa. Le chiedo di osservare cosa fa il suo corpo al ricordo di quel momento.

Elisabetta nota che si irrigidisce, si contrae. Come a voler opporre una resistenza al disturbo che arriva dall’esterno. Le propongo quindi di stare in contatto con quel rumore e di sospendere, per un attimo, il suo giudizio. Di non valutarlo come troppo, come eccessivo, come disturbante, ma come una semplice vibrazione, neutra.

Elisabetta si accorge che, se lascia andare il suo giudizio, la vibrazione può attraversarla senza provocare in lei un dolore. Per lei fare l’esperienza di poter tollerare qualcosa che sembrava impossibile accettare è illuminante.

Le rimando che anche nell’atto percettivo c’è una componente cognitiva, valutativa: ciò che i nostri sensi filtrano della realtà esterna è sottoposto in modo implicito, immediato, ad un’analisi, a una valutazione. Se riusciamo ad accogliere ciò che riceviamo il più possibile senza pre-giudizio, possiamo abbattere le nostre resistenze e rendere l’esperienza meno dolorosa, almeno in parte.

Consideriamo insieme che, in effetti, quando non abbiamo alternative e dobbiamo far fronte a un evento che non possiamo modificare, è più utile affrontarlo senza chiusure o con le minori resistenze possibili.

Una vera sfida in un’epoca in cui ciò che va per la maggiore è l’idea di dover prendere “di petto” le situazioni, reagire, combattere, imporre la propria volontà.

Ma, come recita un detto, bisogna aver la saggezza di distinguere tra ciò che possiamo cambiare e ciò che non possiamo cambiare. In quest’ultimo caso, se affrontiamo l’esperienza con accettazione, rinunciando alla nostra mania di controllo, ne trarremo soltanto giovamento.

Il tradimento: un atto che richiede ascolto

Eleonora e Stefano mi contattano in un momento di grande conflittualità coniugale. Sono sposati da più di 15 anni, hanno una bella bambina e sono andati tutto sommato d’accordo fino a che, qualche anno fa, lei lo ha tradito. Con un collega di lavoro. Da allora il loro rapporto si è incrinato e sono arrivati a un punto di grande sofferenza e confusione, tanto da chiedere il mio aiuto.

Quando li incontro, Eleonora mi appare subito come “l’anima trainante” della coppia, così come del colloquio. Estroversa, emotiva, passionale, mi racconta di come lei sia arrivata a cercare in un’altra persona qualcosa che da tempo non sentiva più con suo marito: l’essere desiderata, cercata, il sentirsi al centro dell’attenzione e dell’interesse di un uomo. “In effetti è sempre stato così, lui”, mi confessa Eleonora: “poco affettuoso, poco espansivo. Ma prima ero io a prendermi quello di cui avevo bisogno: una coccola, un bacio…poi a un certo punto ho smesso, forse mi sono stancata, e ogni tenerezza tra noi è svanita”.

Stefano ammette che sia andata proprio così. Lui non è tipo da “troppe smancerie”, dice. È pratico e dimostra il suo amore più con i fatti che con le parole. Non sa perdonare davvero la moglie, da cui oggi si sente molto distante, ma non sa nemmeno se la separazione sia la soluzione giusta. Di certo, rispetto a questo, è fortemente condizionato dai sensi di colpa che avrebbe verso sua figlia e da un senso del dovere che lo tiene inchiodato in quella casa.

Mi chiedono aiuto rispetto al cosa fare, a che decisione prendere.

Da subito rimando loro che non potrò certo sostituirmi a loro in questa decisione o condizionarli in un senso o nell’altro. Ma potrò aiutarli a comprendere meglio quanto è successo, a capire il significato che per ciascuno di loro ciò ha rappresentato e, di conseguenza, a metterli maggiormente in contatto con se stessi e con ciò che desiderano profondamente.

Definisco il tradimento un “atto della coppia” più che un’azione individuale e, in quanto manifestazione finale di una “rappresentazione” messa in scena da entrambi i partner, come tale coinvolgerà, nel tentativo di comprensione profonda e di eventuale superamento dell’accaduto, sia lui che lei.

Il tema del tradimento è antico come il mondo. Le narrazioni mitologiche e bibliche, infatti, sono intrise di tradimenti, inganni, atti sleali e infedeltà. Come superare il dolore, la ferita che un adulterio, o un più generico voltafaccia o imbroglio può generare in quella che viene definita vittima? Forse proprio dall’immaginario archetipico possiamo trarre qualche suggerimento.

I personaggi mitologici che ci possono arrivare in aiuto sono, da una parte, Apate (figlia di Notte), personificazione dell’inganno, uno degli spiriti contenuti nel vaso di Pandora, che racchiudeva tutti i mali; dall’altra Mercurio, nella tradizione romana – o Hermes, in quella greca – dio dell’inganno oltre che messaggero degli dei e accompagnatore delle anime negli inferi.

Entrambi hanno a che fare con le forze oscure, hanno una connessione con aspetti celati, misteriosi e per certi versi inquietanti della vita. Ci ricordano che, per superare – o forse sarebbe meglio dire integrare – il tradimento, è necessario entrare in contatto con il mondo ctonio, degli inferi.

Cosa significa tutto questo? Vuol dire contemplare nella nostra visione delle cose, della vita, delle relazioni, che c’è una parte – di noi stessi e dell’altro – mossa da impulsi irrazionali, dirompenti, che si possono manifestare al di là del nostro controllo razionale.

Per Stefano questo vorrà dire reintegrare in se stesso le parti emotive che, da sempre, ha demandato a Eleonora, portatrice dell’affettività e della vitalità della coppia. Veicolo di istanze di tenerezza e di accudimento. Quelle istanze che, con la nascita della figlia, ella ha comprensibilmente reindirizzato a quest’ultima, contattando però, da quel momento, un silenzio affettivo, una mancanza di presenza da parte del marito.

Eleonora, a propria volta, sarà chiamata a comprendere meglio il suo bisogno simbiotico di amore. Che l’ha portata a scegliere un uomo non tanto per la sua capacità di essere un adulto alla pari con lei, ma per la sua predisposizione ad offrirsi come “la metà” che lei da sempre cercava per sentirsi intera, e senza il quale intera non si sente.

Sarà un lavoro che farà scendere negli inferi entrambi, ma del resto non è possibile ricucire i lembi di una ferita tanto grande senza fare prima un lavoro, seppur doloroso, di pulizia. Non c’è una vittima e non c’è un carnefice; ci sono due anime che hanno perso il contatto con se stesse. E la pulizia, nella sua accezione di far tornare a risplendere, è ciò che è necessario perseguire con ciascuno dei due.

Abbiamo tutti (anche) un lato oscuro

Spesso ci indigniamo quando qualcuno ci fa un torto o nel vedere i comportamenti di certe persone. A tutti sarà capitato di commentare, rispetto a qualche individuo: “Quello lì non lo posso proprio sopportare!”.

In questi casi agisce la nostra mente, che da una parte ci porta ad identificarci con alcune caratteristiche di personalità; dall’altra giudica gli altri e il mondo in base a certi criteri, acquisiti magari dalla nostra cultura, educazione o morale. È inevitabile, è il lavoro del nostro cervello, nella sua parte razionale, che serve ad analizzare, distinguere, discernere e possibilmente controllare la realtà esterna e interna. Ma l’attività mentale non è finalizzata primariamente al benessere della persona, o almeno non ha questo fine tale tipo di attività mentale. Essa ha lo scopo di mantenere il controllo, possibilmente con il minimo sforzo (da cui la facilità con cui si rischia di cadere in stereotipi, generalizzazioni o errori cognitivi).

Pertanto, quando la mente, il giudizio si impone alla nostra coscienza, abbiamo due possibilità: credergli – vale a dire ritenere che ciò che si esprime nel pensiero sia vero, sia la VERITA’ – o semplicemente osservarlo come un prodotto della nostra mente. Se riusciamo a disidentificarci dal contenuto dei nostri pensieri, essi cominciano ad assumere un valore relativo. Allora, forse, possiamo via via renderci conto che, con gli strumenti della mente, possiamo credere – e argomentare! – tutto e il contrario di tutto. Che l’oggettività è una chimera, più di quanto siamo disposti a riconoscere.

Proseguendo in questo viaggio ai confini della realtà (la nostra realtà mentale), potremmo anche arrivare a mettere in discussione la nostra identificazione con certe qualità che noi riteniamo ci appartengano inequivocabilmente. Potremmo anche chiederci se, a questo punto, persino le caratteristiche che noi detestiamo di più al mondo siano davvero così lontane da noi. In breve, il cammino virtuale partito con il relativizzare il ruolo dei nostri pensieri potrebbe inaspettatamente portarci a considerare che anche ciò con cui più strenuamente ci identifichiamo (e che chiamiamo personalità – da persona, la cui etimologia, guarda un po’, fa riferimento alle MASCHERE con cui gli attori teatrali un tempo calcavano le scene), possa essere più mutevole o complesso di quanto crediamo.

Potremmo scoprire che, forse, le riflessioni degli antichi in merito alla copresenza degli opposti, all’illusorietà della separazione, e alla manifestazione dell’unicità nel molteplice e del molteplice nell’uno forse non sono solo voli pindarici di qualche filosofo farneticante ma hanno un fondamento più che legittimo e di valore.

E quindi? Non è forse anche tutto questo discorso un prodotto mentale?

Potrebbe esserlo, se non avesse un risvolto pratico estremamente importante. E quale sarebbe la ricaduta pratica nelle nostre esistenze? Quella di non considerare come realtà vera e inconfutabile ciò che dicono i nostri pensieri, né in merito al mondo esterno, né in merito al nostro mondo interno.

Cioè?

Per dirla fuori dai denti: siamo proprio sicuri che quando ci identifichiamo con delle qualità che riteniamo ci appartengano, sia proprio così? E se invece quelle fossero solo delle possibilità del nostro modo di essere? Non è invece che in noi ci siano anche delle qualità che rifiutiamo categoricamente di vedere, di accettare, di riconoscerci?

Si dice che gli altri siano il nostro specchio. Ebbene, e se le caratteristiche che non possiamo sopportare nell’altro ci stessero solo rimandando qualcosa di noi? Se la rabbia, l’insofferenza per i tratti di qualcuno fossero così poco tollerabili proprio perché vanno a mettere il dito nella piaga (ovvero nel fatto che quegli stessi tratti facciano parte anche di noi, sebbene non vogliamo ammetterlo)?

Ecco allora un’indicazione pratica che deriva da questa riflessione: ogni volta che ci sentiamo irritati da un comportamento o da una persona, domandiamoci quanto quell’aspetto che critichiamo o che francamente biasimiamo ci possa in realtà appartenere, anche se in forma potenziale. In forma potenziale vuol dire che, a certe condizioni e in certe circostanze, forse anche noi potremmo esprimerlo. Anche se finora magari non è (ancora) successo. E a che scopo fare queste considerazioni?

Per uno scopo importantissimo: relativizzare le nostre credenze e cominciare a renderci conto che davvero le categorie mentali, seppur in tanti casi utili, possono diventare delle gabbie in cui chiudiamo noi stessi. E per iniziare a familiarizzare, sempre di più,  con la consapevolezza che il mondo, la vita, le creature, sono meno separate di quanto pensiamo e avere maggiore compassione per noi stessi e per gli altri, poiché in ognuno di noi è racchiusa la complessità dell’esistenza, nei suoi aspetti più piacevoli e più dolorosi.