La funzione “specchio” dell’Altro

Simona è un ragazza sulla trentina con cui ho fatto un importante percorso che l’ha condotta, da una struttura profondamente ossessiva, ad una possibilità di espressione di sé e di esplorazione sufficientemente sicura e curiosa del mondo. Tanto che, dopo un lungo periodo di “congelamento” affettivo, si è innamorata di un uomo. Simona è consapevole che non si tratta della cosiddetta “persona giusta” per lei: si tratta di un uomo che si potrebbe facilmente descrivere come un narcisista. Fortemente centrato su di sé, bisognoso di continue conferme della propria presunta eccezionalità, poco stabile emotivamente, in grado di farla oscillare tra abisso ed estasi. Eppure è successo, ne è caduta vittima. Non sa spiegarsi come sia stato possibile, ma è proprio ciò che è avvenuto.

 “Anni di lavoro personale sembra che non siano bastati – mi dice affranta un giorno – a farmi capire cosa è giusto e cosa è sbagliato per me”.

Mi fermo, la fermo.

“Non è questo il nostro scopo, Simona. L’obiettivo di un lavoro personale non è evitare le vicende della vita, ma viverle con sempre maggiore consapevolezza e affrontare le proprie paure, i propri demoni. Ascoltare ciò che le emozioni ci dicono e farne tesoro per entrare in contatto con la nostra Anima. Se ti sei innamorata, non lo hai scelto: è successo. E se è successo puoi imparare qualcosa.”

Simona di fronte a queste mie parole sembra un po’ confusa.

“Tutto quello che ho capito di me, delle relazioni, però, non mi ha impedito di cadere in questo pasticcio. Allora a cosa è servito?”.

Rimando a Simona che la cosa più importante che lei abbia fatto, in questo suo percorso, non è tanto “capire”. Certo, questo è stato qualcosa che ha placato dubbi e domande mentali. Ma la cosa più preziosa che lei abbia fatto è stato imparare a NON vivere solo attraverso le categorie mentali, che la imprigionavano in un labirinto senza fine. Ma a riscoprire il valore delle emozioni, il modo di ascoltarle e di lasciarsi attraversare da esse. Evidentemente questa esperienza le serve per affrontare qualche altro aspetto di Sé, per far evolvere ulteriormente la sua consapevolezza, per liberare sempre di più la sua Anima. La invito quindi a vivere questa vicenda con gli occhi della coscienza ben aperti, con attitudine di ascolto più che di comprensione.

Passa qualche settimana, durante la quale Simona mi racconta le difficili vicissitudini della relazione con quest’uomo.

Un giorno, Simona arriva in seduta visibilmente provata ma quieta, serena.

“Ho visto”. Mi dice. “Qualche giorno fa è successa una cosa incredibile. Ero con lui. Stava facendo sfoggio, come suo solito, delle sue qualità, della sua bravura in campo lavorativo. Ma, ad un tratto, i suoi occhi si sono quasi intristiti. Come se anche la parte più profonda di lui sapesse che quello di cui mi stava parlando, di cui si vantava, non contasse realmente molto. Come se non bastasse. Come se non fosse sufficiente a colmare quel suo senso di vuoto interiore, quel bisogno incommensurabile di amore, di riconoscimento.

Era come se, nella connessione con quel suo vissuto, potessi sentire tutta la sua emozione. E a un certo punto tutto mi è stato chiaro: il suo dolore, il suo bisogno, era il mio. Identico, ugualmente divorante, disperato. Lui lo aveva “coperto”, nella sua vita, con quella maschera da superuomo. Io ingabbiandomi per anni nei miei pensieri, nelle mie distorte convinzioni e nei miei autosabotaggi. Lui aveva messo sopra la sua ferita uno schermo fittizio di grandiosità. Io invece, in quella ferita, ci ero caduta dentro trovando dei “persecutori” esterni a cui dare la responsabilità della mia infelicità. E facendo di tutto per non sentire quell’abisso interno. Ma sia io che lui abbiamo, dentro, quell’abisso. Siamo due facce della stessa medaglia. Ecco il senso che ha il suo ingresso nella mia vita. Dovevo contattare questo. E ora mi trovo a sentire la mia ferita. In parte è cicatrizzata, ma in parte no. Dovevo tornare lì e lasciare che tutta l’emozione che questa esperienza mi “bruciasse” dentro. Per darmi l’energia di andare oltre.”.

Simona usa ormai, nella stanza dei colloqui, un linguaggio condiviso. Ha compreso appieno il senso del suo lavoro e del processo di cambiamento. Il suo lavoro personale non le risparmierà i dolori e le difficoltà, ma sempre di più andrà nella direzione di ricontattare la sua vera essenza, di sanare gli antichi dolori, per poter liberare la sua Anima, lasciarle lo spazio di esprimersi e di riconnettersi con il senso ultimo, sacro della vita.

La relazione con un narcisista

Ilenia è una donna sulla trentina, con alle spalle diverse relazioni finite male. Non essendo nuova al lavoro personale ed essendo appassionata di temi di psicologia, ha una certa cultura e una certa consapevolezza rispetto al fatto che nelle relazioni si giochi una parte importante di noi, di quello che abbiamo interiorizzato rispetto a noi stessi, agli altri e al rapporto con il mondo. In breve, Ilenia conosce i concetti fondamentali della teoria dell’attaccamento e quindi non si scompone all’idea che, nei rapporti affettivi, lei si avvicini a uomini che, per qualche aspetto, corrispondono a propri bisogni più o meno consapevoli e con i quali lei rimette in gioco vecchi schemi, appresi con le sue figure affettive originarie, ovvero con i suoi genitori.

Non si spiega, tuttavia, come sia possibile che lei, sensibile, altruista, anche un po’ timida, sia cascata, ultimamente, nella rete di quello che riconosce essere un narcisista, pieno di sé, spavaldo, autocentrato e assolutamente contraddittorio nella relazione con lei. Ammette che quest’uomo ha un aspetto carismatico, affascinante, di persona sicura di sé, a cui lei non è stata insensibile. Ma conoscendolo meglio ha potuto entrare in contatto anche con tutto il resto: i cambi repentini di atteggiamento nei suoi confronti, la freddezza e il distanziamento improvvisi, apparentemente immotivati, la sottile manipolazione, la svalutazione, la colpevolizzazione e molto altro ancora. Poco per volta Ilenia ha capito con che soggetto avesse a che fare: un narcisista fatto e finito!

Pur comprendendo razionalmente le dinamiche in cui si è trovata invischiata, Ilenia non riesce a capacitarsi del coinvolgimento emotivo che, tuttora, prova nei confronti di questa persona. C’è una parte di lui, quella più fragile, bisognosa, che emerge ogni tanto, e che ogni volta la fa capitolare.

Propongo a Ilenia di riflettere su questo punto: se è vero che in ogni persona possiamo riconoscere parti di noi stessi, e proprio quelle più intollerabili dell’altro dicono di parti inaccettabili di noi, cosa le racconta di sé la parte narcisistica di quest’uomo? La invito a partire, in questa esplorazione, dal sentire. Ovvero di focalizzarsi sull’aspetto di questa persona che è più difficile da accettare per lei e notare che cosa provoca in lei, a livello corporeo.

Ilenia sceglie l’aspetto di rifiuto, di arroganza e di freddezza che ciclicamente vede in quest’uomo e che per lei è inspiegabile, inconcepibile. Si pone in ascolto. Contatta, immediatamente, una sensazione di pugno allo stomaco, che poi diviene, più distintamente, una sorta di voragine che le inghiotte i visceri. Un buco nero, angosciante, mortifero. Improvvisamente, un insight, una consapevolezza: lui e lei provano la stessa cosa, una ferita profondissima, indicibile, un vuoto smisurato, intollerabile, a cui hanno solo dato delle forme esteriori diverse, un abito apparentemente differente ma, nella sostanza, fatto dello stesso tessuto, di un analogo intreccio di trame e orditi antichi, persi nella memoria, fatti di mancanze, di paure, di bisogni viscerali mai appagati, di rabbie furibonde e di atmosfere ghiaccianti, desolanti, senza speranza…

Il viaggio di Ilenia dentro il suo sentire è così toccante che non può fare a meno di scivolare in un’angoscia e in un dolore senza parole, senza tempo, senza confini. Ma per fortuna Ilenia dei confini ce li ha: ha un corpo, che vive nel presente, che respira, che è attraversato da una vita piena e pulsante. La aiuto a riconnettersi a questo, per riemergere dall’abisso della sua pena più profonda. E piano piano Ilenia riemerge, grata di poterlo fare, di essere qui, ora, con tutto il resto della sua esperienza, con tutto il resto di sé. E si rende conto di come, accanto ad uno sguardo più compassionevole verso quello che poco prima vedeva come una sorta di persecutore, l’uomo di cui è innamorata, sia affiorata in lei anche la consapevolezza che lui, questa esperienza di “riemersione” dal buco nero, forse non l’ha mai fatta, non è in grado di farla, perché teme troppo quel luogo angoscioso dentro di sé da cui fugge, continuamente, rifugiandosi in mille maschere.

Una profonda tristezza la attraversa, ma è una tristezza benevola, figlia di una presa di coscienza sulla realtà. Una realtà che non può cambiare, ma che può scegliere se tenere nella sua vita o meno.

Un approccio integrato: dalla teoria alla pratica

Nel corso del mio percorso professionale ho sempre avuto la curiosità di esplorare nuovi approcci, di integrare nella mia pratica strumenti, modalità e letture che potessero rispecchiare e supportare un orientamento complesso e integrato all’essere umano, inteso come unità di mente, corpo e spirito. La cornice teorica può sembrare chiara e definita. Ma cosa significa esattamente, nella pratica, lavorare con un approccio integrato? Credo che nulla possa essere più chiarificatore di un piccolo esempio clinico.

Marta arriva da me con una storia di abusi infantili. Traumi così profondi richiedono inevitabilmente uno sguardo complesso, attento, integrale alla persona. Nessun dettaglio può essere lasciato al caso o trascurato.

Il lavoro con Marta è stato molto intenso e proficuo fin da subito, avvantaggiato da una sua attitudine alla meditazione, derivata da anni di pratica yoga.

Nel corso di una delle nostre sedute Marta mi racconta del suo disagio quando deve dormire in un hotel o in una casa diversa dalla sua. Esplorando le sensazioni fisiche legate a questo disagio emerge sempre più chiaramente che si tratta di uno stato di allerta, di paura. Ascoltando questo timore Marta riesce a individuare che è legato all’idea che qualcuno possa entrare mentre dorme dalle finestre o dalla porta, cosa che ha sperimentato da bambina. Con Marta quindi siamo partire  da un lavoro di ascolto corporeo per recuperare una cognizione (pensiero), a sua volta legato a un ricordo. Entrambi gli emisferi cerebrali sono coinvolti, così come le aree preposte all’elaborazione delle emozioni (allerta, paura), quelle connesse al processamento più razionale delle informazioni  (il pensiero di un’intrusione) e alla memoria (il rimando all’esperienza infantile). L’attivazione di più circuiti neuronali è un’ottima premessa per la possibilità di riprocessamento dell’esperienza e la creazione di nuovi significati. Marta già realizzando la connessione tra passato e presente riesce a trovare un po’ di sollievo. Ma non basta. Bisogna porre le basi per una nuova risposta, per una nuova gestione della situazione critica. Così chiedo a Marta di connettersi alla sua emozione di paura e di darle una forma, di immaginarla. Marta visualizza una sorta di guscio attorno a sé: un guscio che – dice Marta – rappresenta come lei si sentiva da bambina. Bloccata, impotente, sconnessa dal mondo esterno.

La invito a tenere presente che ora è adulta e che ha molte più risorse, quindi le chiedo di immaginare se c’è qualcosa di diverso che vorrebbe cambiare in quella sua visualizzazione. Marta via via mi descrive un processo che fa accadere nella sua mente: di rompere, con sforzo ma con determinazione, quel guscio. La sua emozione è visibile mentre lei, a occhi chiusi, procede nello scenario immaginario in questa impresa. Riesce finalmente a liberarsi dal guscio, può sentire la luce e il calore sulla sua pelle, può alzarsi, muoversi liberamente. Ma non è ancora terminato il suo processo. Un po’ alla volta vede il guscio sgretolarsi, diventare polvere. Lo scenario improvvisamente e spontaneamente si trasforma: da questo mucchio di polvere, che è il guscio sgretolato, divampa un fuoco, che via via diventa sempre più vigoroso, imponente. Le fiamme ora sono alte e lei, adulta, danza in modo selvaggio e primordiale attorno a questo rogo.

La visualizzazione di una scena così potente e arcaica, quella di una danza ancestrale attorno a un fuoco, il fuoco della vita, mi fa capire che si è attivato un contenuto archetipico, che il suo Sé, o in altre parole la sua Anima, sta parlando, è riemersa, si sta consolidando. Ne avrò conferma da Marta stessa quando, terminata l’esperienza, mi dirà di non aver mai provato nulla di simile, di aver contattato un senso di potenza e di pienezza straordinari, di essersi sentita tutt’uno con la madre terra, col fuoco, con la vita. La sua coscienza ha avuto accesso a un livello diverso, si è aperta ad uno stato di trascendenza che andava al di là di passato e del tempo, in una condizione senza tempo e senza paura.

Questo esempio di lavoro con Marta a mio avviso ben rappresenta cosa significhi lavorare con corpo, mente e anche spirito, in un tutt’uno che apre le porte a uno stato dell’essere nuovo, potente e creativo.

Esistono emozioni “sbagliate”?

Molto spesso mi capita di confrontarmi, con le persone che fanno dei percorsi con me, sul tema delle emozioni “giuste” o “sbagliate”. Ricordo, tra le tante esperienze cliniche, una donna che, pur essendo molto infelice all’interno della relazione con il marito, mi chiedeva di “aggiustarla”, ritenendo che ci fosse qualcosa di sbagliato in lei, per permetterle di cambiare il suo sentire e continuare a vivere, però felicemente, con il marito. La sua convinzione circa la difettosità delle sue emozioni, e il desiderio di “sistemare” quel qualcosa che non andava in lei erano così radicati  che mi ci volle molto tempo per farle capire che la sua era una richiesta impossibile.

Perché? Perché non si possono pretendere le emozioni. O i sentimenti. Né da se stessi, né dagli altri.

L’emozione, o ancora prima una sensazione che ci arriva dal corpo, è un messaggio. Su noi stessi. È la saggezza della nostra Anima che, attraverso il linguaggio involontario e incontrollabile del corpo, vuole inviarci un segnale, un messaggio su ciò che è buono o meno buono per noi. Pretendere che non sia così sarebbe come arrabbiarsi per il fatto di provare caldo, freddo, fame, o non accettare che ci scappi la pipì. Possiamo certamente indispettirci, ma ciò non farà sparire quella sensazione, e con essa il messaggio che porta, il bisogno che esprime.

Ma se qualcosa ci fa stare male, che fare dunque? Ascoltare. E provare ad accogliere il messaggio che ci arriva; non scappare, prenderci la responsabilità di quello che siamo, non forzandoci ad essere qualcosa di diverso, perché prima o poi i nodi arriveranno al pettine…

Nel caso di Lorena, la donna che ho citato in precedenza, la “resa” fu tutt’altro che semplice. E parlo di resa, non di rinuncia. La resa ha a che fare con l’accettazione di quello che c’è. Non significa rassegnazione, ma disponibilità a stare nel flusso che la vita ci offre e, stando in quel flusso, trovare il nostro modo migliore per starci, per lasciarlo scorrere dentro di noi e andare avanti, andare oltre, verso ciò cui la nostra Anima è chiamata per esprimere al meglio se stessa.

Lorena era mortificata per il fatto di non provare più niente per il marito, una persona buona, generosa, amabile. Eppure lei, che lo aveva sposato proprio apprezzando le qualità di integrità e onestà che vedeva in lui, non poteva fare a meno di notare che, nel tempo, in quella relazione si era spenta sempre di più, fino a non provare più niente, né per lui né per nient’altro.

Sposarlo aveva voluto dire trasferirsi con lui dalla sua città natale, in campagna, alla periferia di Milano, tra palazzoni di cemento e rumore. Aveva voluto dire forzarsi a fare un lavoro che detestava, rinunciare ai suoi sogni. Aveva accettato tutto questo per quello che credeva fosse l’amore. Ma nel tempo ha realizzato che il rapporto con il marito non le bastava. Nel tempo ha sperimentato che il legame con quest’uomo, a cui voleva sicuramente bene, si era trasformato da un iniziale entusiasmo a una tiepida convivenza. Ogni elemento vitale si era spento. E la ricerca di Lorena di voler tornare ad amare il marito si trasformò, poco a poco, nel tentativo di tornare ad amare se stessa, di riprendere il contatto con il suo sentire, con i suoi desideri, con la sua essenza.

Questo percorso, partì proprio da un indispensabile cambiamento di atteggiamento: l’abbandono del giudizio rispetto a ciò che provava e il recupero di un’attitudine curiosa e benevola verso ciò che il corpo tentava di esprimere.

Ogni emozione è “giusta”. O meglio, abbandonando il registro morale, sarebbe più utile dire che ogni emozione è significativa, ci parla di noi. Abbiamo imparato a ignorare, reprimere o addirittura distorcere le nostre emozioni, ma il nostro corpo, il nostro migliore alleato, non si arrende, e – se non viene ascoltato – alza la voce, grida…

Viaggiare nel tempo per portare risorse nel presente

Matteo: “Dottoressa glielo dico subito…non voglio perdere tempo con l’analisi della mia infanzia! Quel che è stato è stato, non si possono cambiare le cose, e tutto sommato non mi è andata poi così male. Voglio focalizzarmi sul presente, perché ci sono situazioni in cui mi sento bloccato, e non riesco a uscirne”


Io: “Ho capito Matteo, allora partiamo da quello che c’è oggi, nel presente. Mi può fare un esempio di cosa la mette in difficoltà?”


Matteo: “Ecco, ad esempio, ieri è successo al lavoro: un mio collega davanti al capo ha fatto in modo di scaricare la colpa di un problema lavorativo su di me. Si trattava di qualcosa di cui, in realtà, era responsabile lui, ma ha rigirato la frittata in modo che lo sbaglio sembrasse il mio. Io non ho saputo ribattere niente, zitto, muto come un pesce. Ma dentro di me bollivo dalla rabbia. Ero talmente arrabbiato che quasi quasi mi veniva da piangere. Ci mancava solo quello! Mi capita spesso che, di fronte a un’ingiustizia, a un torto che mi fanno, non riesco a spiccicare una parola, vado in confusione, mi ammutolisco. E poi mi porto dietro la cosa per giorni, ci rimugino, ci ripenso. Mi sento uno smidollato, mi avvilisco per la mia mancanza di reazione, di coraggio. Non so come mai, ma in quei momenti mi sento proprio bloccato, come paralizzato”


Io: “Matteo le chiedo di re-immedesimarsi in quel momento, quando si è sentito sopraffatto dalla rabbia ma quasi congelato, immobilizzato. Vorrei che portasse tutta la sua attenzione alle sensazioni che nota ricordando quel preciso istante. Non mi interessano al momento pensieri o ragionamenti, ma solo le sensazioni che prova nel corpo”


Matteo: “Uhm…difficile…allora se ci penso mi viene subito un nodo alla gola, mi si chiude lo stomaco, è come se una voragine mi inghiottisse, mi va in confusione anche la testa, quasi vedessi tutto nero…” – Matteo si irrigidisce


Io: “Le chiedo lo sforzo di rimanere per qualche istante con quello che prova, senza cercare spiegazioni, ma solo ascoltando cosa accade”


Matteo: “Mi si infuoca la faccia, sento che sto sudando, mi fa anche male la parte destra della faccia…”


Io: “Le fa male la parte destra del viso…ha qualche senso per lei?”


Matteo: “è strano, non so cosa c’entri, ma mi è venuto in mente che è come quando mio fratello, dopo avermi atterrato nel fare la lotta, mi metteva il piede sulla testa e mi teneva giù, dicendomi che ero un pappamolla, così mi chiamava, un pappamolla”


Io: “Bene, se immagina di tornare per un attimo a quel momento, quando lei e suo fratello facevate la lotta, e finiva come mi ha descritto, cosa prova?”


Matteo: “Mi viene un nervoso anche oggi a ripensarci che lo riempirei di botte se fosse qui”


Io: “Provi a immaginare di assistere a quella scena del passato, a visualizzare lei sopraffatto da suo fratello. Quindi nella sua mente risponda a suo fratello coerentemente con quello che sente. Cosa le viene da fare? Può anche immaginarsi di avere dei superpoteri per fronteggiare suo fratello come desidera. E si immedesimi talmente tanto in quello che fa da sentire quasi i muscoli del suo corpo che si attivano e si organizzano nei movimenti che immagina. Se se la sente, le chiedo di agire proprio adesso, a occhi chiusi, i movimenti che immagina, al rallentatore, percependo distintamente ogni gesto e ogni parte del suo corpo coinvolta nel movimento”


Matteo si concede, prima cautamente, poi con sempre più sicurezza, di muovere il corpo in quelli che sembrano spintoni, pugni, calci. Il suo coinvolgimento cresce e gli esce una vocalizzazione che lo invito a ripetere, se ne sente il bisogno. Matteo procede con crescente intensità fino a che, quasi esausto, non si quieta. Gli chiedo come si senta adesso.
Matteo: “è incredibile ma mi sento liberato, forte. Anche se sento le mie gambe tremare. Ma ho un senso di leggerezza e di soddisfazione pazzeschi”


Io: “Bene, Matteo, pare che lei finalmente si sia concesso di mettere in scena e portare a compimento quella risposta che non ha mai potuto mettere in atto nel passato”


Matteo, perplesso: “E meno male che non volevo parlare della mia infanzia!”. Scoppia in una risata.


Gli spiego che, se per diverse ragioni non abbiamo “digerito” qualcosa del passato, quel boccone indigesto rimane dentro di noi, condizionando il nostro libero fluire nel presente. Oggi abbiamo molte più risorse rispetto a quando eravamo bambini e questo ci consente di rispondere agli eventi con maggiori possibilità. Quel ragazzino sopraffatto dalla forza del fratello è rimasto soggiogato dall’idea di non poter reagire. Ma contattando, da adulto, la rabbia di allora, e con le risorse attuali, ha potuto finalmente ribellarsi. Invito Matteo a restare collegato con il senso di potere personale e di leggerezza che sta sperimentando e di tornare al confronto con il collega.


“Cosa prova adesso?”


Matteo: “Sento che potrei dire la mia. Almeno dare la mia versione. Sì, questo lo potrei fare. In questo momento mi pare la cosa più banale del mondo”.


Rifletto e non posso che essere d’accordo con Matteo: parlare tanto del passato non serve un granché, ma riparare, attraverso l’esperienza, a dei vissuti rimasti bloccati, può fare davvero la differenza.

Essere Anima-li: riscoprire il corpo richiama l’Anima

Ho conosciuto Alba in un momento buio della sua vita: una depressione ormai pluriennale “curata” con farmaci, un disturbo di attacchi di panico con cui ormai conviveva da una vita, dolori diffusi, invalidanti e a detta dei medici inspiegabili, che la costringevano a letto per la gran parte della giornata. Ogni cosa di lei, a partire dal suo aspetto diafano, esile, raccontava di un “non esserci”, di una presenza evanescente, tutt’altro che incarnata.

Alba era molto cerebrale: amava la filosofia, la cultura, la lettura e provava una sorta di disprezzo e disgusto per tutto ciò che riguardava la dimensione più terrena, “bassa” dell’esistenza. Facile immaginare come certi aspetti della più cruda umanità la inorridissero: gli istinti, le pulsioni, gli umori e gli odori corporali, le più naturali funzioni fisiologiche, tra cui anche il mangiare, rappresentavano per lei delle oscenità. “Osceno”: fu proprio questa la parola da cui cominciammo ad esplorare il suo sentire. Emerse in riferimento all’opposta attitudine del padre di godersi la vita. Andando un po’ più a fondo della faccenda, emerse che Alba condivideva questa lettura della paterna trivialità con la madre, che da sempre biasimava e deprecava la crudezza e la bassezza del marito. Alba ricordava vividamente un episodio in cui il padre, quando lei era una bambina dell’età di 4/5 anni, le fece così tanto il solletico che lei, per le risate, si fece la pipì addosso. La mamma intervenne rimproverando aspramente e disapprovando il marito davanti a lei, alludendo all’accaduto (aver sollecitato così tanto la bambina) come a qualcosa di indecente e inaccettabile. Alba provò un senso di vergogna così profondo che da allora evitò qualsiasi contatto col padre e cominciò a guardarlo con occhi sprezzanti.

Chiesi ad Alba di provare a sospendere, per qualche istante, il suo giudizio, e di tornare ai primi attimi di quel gioco con il padre. L’emergere di un sorriso fu istantaneo. Questo fu l’inizio di un lavoro in cui, sforzandosi di non cedere ai condizionamenti ricevuti, Alba riscoprì piano piano la legittimità e la piacevolezza delle sue esperienze sensoriali. Il dischiudersi dei vissuti e delle percezioni alla sua coscienza acquisì via via sempre più spazio e intensità. E Alba imparò progressivamente a trovare, in questa nuova attitudine, un’irrinunciabile fonte di vitalità e di serenità. Un giorno, durante uno dei nostri consueti lavori corporei, Alba ebbe una visualizzazione: di avere una membrana, attorno a sé, quasi a formare un guscio, che lei rompeva permettendo alla luce di entrare. Sperimentò una connessione profonda e intensissima con tutto il resto del creato, con la terra, con la natura, con gli altri esseri viventi. Confessò poi di non aver mai contattato nulla di simile prima. Questa sensazione le riempiva in modo incontenibile il petto, le provocava una gioia, una commozione profonde. Le pareva di aver contattato un’altra dimensione, di essere in pace con tutto e tutti. La sua coscienza aveva sperimentato, per la prima volta, uno stato a cui mai prima aveva avuto accesso: una dimensione di profonda serenità, di amore, di apertura.

Il lavoro di riconnessione alla sua corporeità le aveva permesso di reimmergersi nel flusso energetico e vitale dell’esistenza, arrivando perfino a risvegliare una dimensione spirituale della sua vita. Il miracolo che accade quando ci si “incarna” davvero nella dimensione fisica e corporea è che, trovando un profondo radicamento, si apre paradossalmente la possibilità di un’espansione della coscienza, che ci porta a contattare dimensioni anche spirituali. Come se l’espansione di una parte più trascendente traesse giovamento dal contrappeso offerto dal radicamento corporeo. Mi piace pensare che, tornando ad essere più “animali”, recuperiamo di noi non solo la componente più istintiva e corporea a cui la parola allude, ma ci prendiamo cura anche del “nido” in cui poter accogliere, con rinnovata consapevolezza, la parte animica di noi, da cui etimologicamente la parola “anima-le” deriva.

“Non posso lasciarlo andare…”

Storia di un lutto difficile

La prima volta che incontro Franca vedo una donna sulla sessantina molto provata, trascurata, visibilmente schiacciata da un dolore sopraffacente.

Mi racconta la sua storia, o meglio quella del figlio Enzo, morto di infarto più di un anno e mezzo fa. Franca mi narra, con dovizia di particolari, la sera di quel drammatico giorno in cui il figlio è stato male, mentre erano a casa del secondogenito, Luca. Ripercorre, istante per istante, quel tragico evento, come se lo stesse rivivendo davanti ai miei occhi. Accolgo le sue parole e il suo dolore e cerco di avere ulteriori informazioni su Enzo, la sua vita, il rapporto tra loro.

Franca mi racconta una storia di sofferenza psichica, di depressione e di abuso di sostanze da parte di Enzo, che viveva ancora con loro. Mi dice del proprio amore sconfinato per il figlio, dei rimpianti per non aver saputo fare di più per lui, del dolore straziante che, da un anno e mezzo a questa parte, le impedisce di dedicarsi ad altro, di riprendere in mano la propria vita, di godersi gli affetti del marito e del secondogenito, da poco sposatosi.

I nostri colloqui, per diversi incontri, si ripetono più o meno allo stesso modo: con Franca che ripercorre, ossessivamente e drammaticamente, quella sera “maledetta”. Non riesce a farsene una ragione: torna e ritorna in modo rigido e angoscioso a “rivedere” quello che è successo, e a rimuginare su che cosa lei e i suoi familiari avrebbero potuto fare di diverso. I suoi sensi di colpa sono opprimenti, e a nulla valgono i miei tentativi di farla defocalizzare dai pensieri giudicanti su di sé e sul resto dei suoi cari, colpevoli quanto lei di non aver potuto prevedere né gestire diversamente il terribile evento.

Decido quindi in parte di assecondare la sua attitudine a voler stare su quel momento e in parte di spostare il focus sulle emozioni. Le domando quale sia stato il momento peggiore per lei, l’immagine più intollerabile. Franca confessa che l’istante più doloroso da ricordare, oltre al momento in cui i soccorritori hanno dichiarato il decesso, è stato un momento precedente in cui Enzo, alzatosi dalla poltrona, ha barcollato. Cogliendo tutta l’emozione che arriva a Franca, decido di approfondire la cosa e le chiedo che cosa stia sentendo Franca in questo momento, mentre mi racconta questo particolare.

Franca scoppia in un pianto disperato e mi confessa di essere sopraffatta dalla vergogna e dai sensi di colpa perché ricorda che, in quell’istante, lei aveva provato rabbia per Enzo. Perché credeva che avesse di nuovo bevuto troppo, perché per l’ennesima volta avrebbe rovinato quella riunione familiare, perché non era in grado di prendersi cura di sé…Parole che non aveva mai confessato a nessuno, non potendo lei per prima accettarle. Invito Franca a dar voce, con tutta se stessa, a questa rabbia, a dire le cose che non ha mai detto, e valido le sue emozioni, riconnotandole come legittimi messaggi del suo sentire, che nulla hanno a che vedere con l’amore – indiscusso – per il figlio.

L’emozione indicibile di rabbia è uno degli elementi che ha impedito a Franca di elaborare il lutto e che l’ha “bloccata” nella sofferenza e nella prostrazione. Un training per sviluppare un’attitudine non giudicante e compassionevole verso di sé e un percorso di elaborazione del lutto hanno permesso a Franca di iniziare a far pace con i propri sensi di colpa e di lasciare andare, finalmente, il figlio, incominciando ad accettare l’accaduto.

Il silenzio nei colloqui

La relazione tra operatore e cliente è caratterizzata da un bagaglio di emozioni, sguardi, gesti, parole, pensieri, fantasie, immagini, racconti, speranze e sentimenti che creano e disvelano, via via, un mondo sempre più condiviso.

I silenzi, le pause, le attese, punteggiano questi scambi con un significato e una intensità, di volta in volta, diversi e carichi di valore.

Come in ogni altro ambito, il silenzio in colloquio può avere molti significati ma – a differenza dei consueti scambi interpersonali – diventa esso stesso oggetto di attenzione, di cura, e strumento di lavoro. Intuire ciò che non viene detto, rispettare un momento di emozione o di riflessione, concedersi e concedere una pausa al sentire o un tempo per una chiarificazione interna possono diventare perle preziose all’interno del processo di lavoro.

Un silenzio che emerge dal cliente è sempre denso di senso: può rappresentare un momento di riflessione, di emozione. Ci sono silenzi di impotenza, di rassegnazione, di prostrazione dolorosa. Oppure silenzi di imbarazzo, di incertezza, di timidezza o di paura.

Ci sono silenzi manipolatori e silenzi autentici. Silenzi intimoriti e silenzi sfrontati. Silenzi disperati o furenti. Silenzi perpetrati con ostinata determinazione e silenzi di annichilimento.

E ogni volta la comprensione e l’ascolto del senso che esprime un’assenza di parole è qualcosa di prezioso, che diviene oggetto di osservazione e, spesso, di condivisione in colloquio. A volte a un silenzio non occorre nessuna parola di chiarificazione. Esige solo rispetto.

Succede che anche l’operatore, nel corso di un colloquio, decida di tacere.

Quando un grande dolore viene condiviso, o quando è in atto una profonda elaborazione emotiva, le parole non servono. La presenza, il contatto visivo e umano con l’altro, sono tutto ciò che serve.

Dare spazio e saper stare, insieme all’altro, in un’esperienza emotiva intensa, senza bisogno di “razionalizzare”, è qualcosa di estremamente significativo. Riconosce all’altro la legittimità e la preziosità della propria esperienza umana, ridotta all’essenza, in quella forma nucleare e pre-verbale che, per certi versi, rimanda alla prima connessione tra mamma e bambino; una sintonizzazione che, spesso, è stata difficile o problematica.

A volte un silenzio dell’operatore può rappresentare un’esperienza frustrante, ma non necessariamente negativa. Imparare a tollerare la frustrazione e riassumersi la responsabilità del proprio vissuto, senza cercare l’approvazione di quest’ultimo può rappresentare un grande passo evolutivo, soprattutto per chi è particolarmente dipendente dal giudizio e dal consenso altrui.

Un silenzio può diventare anche uno strumento di amplificazione per un messaggio che l’operatore sceglie di dare attraverso un canale non verbale: uno sguardo, un gesto, un’espressione del volto.

Oppure può essere usato come un potente fattore motivante per spingere l’altro fuori dalla sua zona di confort: affinché la persona, infrangendo finalmente il silenzio, riesca a superare la sua chiusura, ad attivarsi, a fare un passo verso l’altro.

Una pausa più o meno prolungata può anche essere utilizzata per introdurre con maggiore enfasi una considerazione, una riflessione, un feedback su cui l’operatore desidera che il paziente riponga tutta la sua attenzione.

L’assenza di parole è, in conclusione, una parte integrante ed estremamente preziosa della relazione di cura. Come accade spesso, pieno e vuoto si alternano in una continua danza: senza momenti di sospensione non ci sarebbero quei passi che rendono possibile la magia.

Voglio raccontare un paio esperienze, che rispecchiano dei possibili livelli di intervento – tra i mille possibili- aventi come obiettivo il supporto e la stimolazione, nella persona che chiede aiuto, delle sue risorse, il superamento dei suoi limiti e dei suoi blocchi emotivi, spesso legati ad esperienze traumatiche che agiscono a livello inconsapevole. Si tratta di due interventi che si avvalgono proprio del potere del silenzio.

Il primo esempio che voglio portare è quello di Marta, una professionista molto in gamba, con un Io sufficientemente strutturato, molte risorse, e un percorso pregresso di analisi classica che le ha dato tante consapevolezze ma non l’ha aiutata fino in fondo a gestire le crisi di ansia che, spesso, la attanagliano. Ha chiesto il mio aiuto sapendo che utilizzo Somatic Experiencing. Il lavoro con lei è stato intenso e molto efficace. L’ansia è stata finalmente superata ma un giorno, durante uno dei nostri colloqui, emerge un dolore profondo al petto. Esplorando questa sensazione, Marta rievoca immediatamente un evento luttuoso e ancora doloroso per lei: la morte – a pochi giorni dalla nascita – del primogenito tanto desiderato e amato. La accompagno ad attraversare questo dolore. Il suo corpo si scuote per i singhiozzi, si ripiega su se stesso, dalla gola esce un lamento strozzato. Sono lunghi minuti di disperazione, di strazio, in cui il suo corpo è piegato e sopraffatto dal dolore. Non c’è nulla da dire. Le chiedo solo il permesso di avvicinarmi, di appoggiarle delicatamente la mano tra le scapole, a sostegno della zona del cuore. Mentre lei cavalca l’onda del suo dolore, lasciandosi attraversare completamente da quest’ultimo, io sono con lei. Accolgo il suo vissuto, gli do un contenimento (rappresentato dalla mia mano a contatto della sua schiena), “scarico” a terra tutta l’energia che si muove in quel campo, sono silenziosa ma testimone partecipe della sua discesa negli abissi. Non una parola, non ce n’è bisogno, sarebbe un’interferenza. Il sentire profondo trova altri canali di espressione, e di comunicazione. Io sono con lei, nel suo inferno, le tengo la mano facendo, per lei, quel lavoro di radicamento e di ancoraggio al presente che impregna il campo e le permette di non lasciarsi inghiottire dal dolore. Fintanto che, cavalcata l’onda, Marta piano piano riemerge, si riassesta lentamente, torna nel qui e ora, e mi ringrazia con un lungo, silenzioso abbraccio. Mi dirà, poi, di non aver mai potuto vivere in questo modo il suo dolore: senza tentativi di consolazione o futili commenti.

Il secondo caso di cui voglio raccontare è quello di Fabio, un ragazzo con una storia difficile di abusi infantili. Fabio ha sviluppato una modalità di funzionamento per cui, a fronte di qualcosa che lo mette a disagio o lo fa stare male, si dissocia dal proprio corpo e inizia a rimuginare in  modo ossessivo e distruttivo. Il nostro lavoro sul recupero del suo sentire è stato lungo e delicato. Tenere Fabio presente a se stesso, anche all’emergere di emozioni spiacevoli, è stato impegnativo e ha richiesto tutta la mia attenzione per evitare di riattivare in lui dei vissuti di intrusione ma, contemporaneamente, stimolarlo a rimanere in ascolto e consapevole del suo sentire. Non dimenticherò mai la prima volta che – dopo molto “allenamento” –  Fabio, contattando un tema doloroso, si è permesso di far scendere delle lacrime dal suo viso. In quel momento abbiamo passato lunghi istanti di silenzio assieme in cui io, lì per lì, non ho fatto altro che posare su di lui in modo discreto il mio sguardo amorevole. In questo caso non c’era né una “sfida” alle sue resistenze, né un contatto (sarebbe stato fuori luogo ed eccessivo per la storia di questo ragazzo). Solo un semplice e rispettoso silenzio di accoglienza, di compartecipazione, di estremo rispetto per ciò che si stava dispiegando. Fabio, commentando poi quei momenti, mi ha confessato che, se avessi parlato, sarebbe “svanito l’incantesimo” e sarebbe scappato – com’era solito fare – nella sua mente.

Il silenzio che parla

Oggi spesso si parla – ad esempio nelle pratiche meditative – del valore di “porre a tacere” la mente. Ciò avviene – non a caso – in un momento storico e culturale in cui, in Occidente, c’è un movimento di rivalorizzazione della de-crescita, della semplificazione; in cui c’è una rivalutazione del “meno”, del vuoto, inteso non come mancanza ma come spazio che possa incontrare e accogliere ciò che arriva.

A fronte della iper-stimolazione a cui siamo quotidianamente sottoposti, non stupisce che nasca un’esigenza di “epurazione”, di ritorno all’essenziale, di quiete, di alternativa al frastuono e all’attività convulsa.

Interrogandomi in questo periodo storico di grandi contraddizioni sul valore del vuoto, sul senso dell’assenza, ho focalizzato la mia attenzione su quanto, anche nella comunicazione verbale – una delle peculiarità dell’essere umano – la mancanza di parole, il silenzio, possa in realtà essere significativo e denso. Ecco, di seguito, alcuni dei significati che il silenzio può assumere.

Nel dubbio…meglio tacere

La mancanza di parole in una conversazione, in risposta a una verbalizzazione o a un comportamento altrui, spesso è percepita come una debolezza, come un’incapacità nel “tener botta” allo scambio con l’altro. Il prendere tempo, per ascoltare se stessi e far chiarezza rispetto a ciò che si desidera o meno, è invece un atto di grande forza, di grande rispetto di sé (perché consente di ritagliarsi uno spazio di ascolto) e dell’altro (perché può impedirci di re-agire, sull’onda dell’emozione, e di rimandare una risposta più centrata ed efficace).

Il silenzio come resistenza passiva

A volte un silenzio ostinato, imperterrito, inesorabile, può diventare una grande arma di provocazione o di svalutazione dell’altro. Il trincerarsi dietro a un imperturbabile mutismo può trasformarsi in un attacco passivo aggressivo, che annulla l’altro e lo rende invisibile, trasparente, inconsistente.

Silenzio come chiusura impotente

Una qualità diversa, ma non meno difficile da gestire, è quella del silenzio derivante da un senso di impotenza, da una sorta di “congelamento” che toglie ogni energia ad azioni e parole. Il rumore del silenzio può diventare assordante, sovrastare ogni altra possibilità e far cadere chi lo prova in un profondo senso di sconfitta e prostrazione.

Il silenzio come spauracchio della morte

Qualcuno non tollera l’assenza di parole, di suoni, di rumori, tanto da vivere con estremo disagio il silenzio. Quello che si potrebbe definire come un “horror vacui” acustico, in realtà, tradisce un terrore ben più profondo: quello del vuoto interno, dell’angoscia, del senso di morte.

Silenzio come ascolto, di sé e dell’altro

Tacere, per dare uno spazio di ascolto a sé o all’altro, rappresenta uno dei valori più preziosi del silenzio. Solo in un tempo di sospensione del dire e del fare, e in un momento di attenzione e percezione di quanto accade dentro e fuori di sé è possibile davvero sentire se stessi e gli altri. Un sentire che non ha bisogno di dichiarazioni o fatti. Un esserci, con la nostra presenza, la nostra consapevolezza e il nostro vissuto.

Un silenzio carico di emozione

A volte le parole non arrivano quando c’è una grande emozione. Non solo un’emozione negativa, ma anche positiva. Essere inondati da un’emozione può essere estremamente sopraffacente o esaltante, e quando si toccano questi estremi dell’esperienza emotiva spesso la voce ci manca, le parole si bloccano, il pensiero stesso sembra svanire. Diventiamo puro sentire. In qualche occasione questa esperienza può essere difficile da sostenere. Ecco perché è importante avere gli strumenti per riuscire ad autoregolarsi.

Silenzio contemplativo

Un’esperienza del tutto particolare è quella in cui percepiamo una sorta di stato “di grazia”, di quiete e di serenità profondi, in cui ci sentiamo connessi con tutto il resto dell’universo. In questo caso il silenzio, sacro e contemplativo, sembra la condizione naturale dell’essere. Non servono parole, e anche descrivere verbalmente questo vissuto diventa riduttivo.

Silenzio in terapia…ma questa è un’altra storia

Un significato del tutto particolare assume il silenzio in terapia, ma questo sarà tema di riflessione in un prossimo articolo.

“Se fai un passo lontano da me, sto male”

Contattare il proprio senso di vuoto e di solitudine

Christian arriva da me in seguito a una crisi coniugale che lo ha fatto entrare in uno stato depressivo e di grande ansia. A 50 anni, dopo una vita dedicata al lavoro e alla famiglia, sembra crollargli il mondo addosso: ha scoperto che la moglie, poco più giovane di lui, devota casalinga e madre di famiglia, ha iniziato a investire gran parte del suo tempo libero in un gruppo di teatro. Non che lui abbia niente in contrario con l’attività teatrale in sé, o almeno questo è quello che riesce a dirsi razionalmente. Ma sapere che la moglie frequenta assiduamente un gruppo di persone con cui probabilmente si è creata una certa complicità, vedere che spesso la sera è fuori casa e che, addirittura, talvolta investa i suoi weekend con la compagnia teatrale lo fa letteralmente “friggere”. Si rende perfettamente conto di non poter vietare nulla alla consorte. Riesce anche ad ammettere che, dall’esterno, la cosa possa sembrare addirittura positiva. Dopo tanti anni di dedizione alla famiglia, finalmente, Sabrina ha la possibilità di dedicarsi ad un suo hobby, a un’attività che, a suo stesso dire, le sta insegnando tanto. Come potrebbe lui lamentarsi di qualcosa di tanto costruttivo? Eppure la cosa sta diventando intollerabile. Ogni volta che lei va al corso sente una fitta al petto, proprio come se la moglie lo stesse pugnalando al cuore. Non riesce a capire che cosa gli stia accadendo. Eppure in quelle sere in cui i figli, ormai grandicelli, escono coi rispettivi amici e fidanzate e Sabrina è in teatro, sente la morte nel cuore e un senso di rabbia che fatica a trattenere.

Cosa sta accadendo a Christian?

Christian arriva da una famiglia d’origine molto rigida dal punto di vista educativo. I professati valori di unità e amore familiare sono stati portati avanti in un clima di freddo moralismo più che di calda condivisione. Christian non ricorda un’occasione in cui i genitori lo abbiano accarezzato o abbracciato. Anzi, il focus sul senso del dovere e sulla riuscita sociale lo hanno sempre messo in difficoltà. Erano all’ordine del giorno rimproveri basati su confronti con successi altrui. Christian ha sempre anelato all’approvazione genitoriale e, nella sua vita, ha fatto di tutto per ottenerla: ha terminato con successo gli studi, si è trovato una buona posizione lavorativa, e non da ultimo ha sposato una brava giovane, di modesta ma rispettabilissima famiglia, con cui ha messo su famiglia. Ha insomma inanellato uno dietro l’altro dei ragguardevoli e onesti obiettivi. Nella sua nuova famiglia ha riposto le speranze più profonde: di poter finalmente dar vita a un “nido” sereno e appagante dal punto di vista affettivo. Con la moglie ha sempre avuto un rapporto incentrato sul reciproco rispetto e sul sincero affetto. Mai, prima d’ora, c’erano stati motivi di tensione tra loro: Sabrina è sempre stata molto tranquilla, senza pretese, accondiscendente e accomodante in ogni circostanza. Ha sempre messo i bisogni della famiglia davanti a tutto. Ma ora, per la prima volta, prende degli spazi per se stessa. Si dedica a qualcosa che le piace, e che non ha a che fare con la famiglia. Christian è come se si sentisse tradito, pur sapendo di non esserlo. La simbiosi, la fusionalità che aveva con Sabrina, infatti, è venuta meno, riaprendo una sua antica ferita. Quella di un amore totalizzante, assoluto, perfetto…da sempre desiderato e mai avuto da bambino. Un amore ideale che Christian ha cercato e trovato con la moglie: ogni decisione era presa insieme, ogni momento libero trascorso con lei, ogni aspetto della vita condiviso. Ora lei ha un “suo”, personalissimo spazio, da cui Christian è tagliato fuori, e questo è intollerabile.

Christian, per superare questa fase della sua vita personale e di coppia, dovrà imparare a rielaborare l’antica ferita vissuta rispetto ai propri genitori. Potrà finalmente guardarli con occhi disincantati e riconoscere i loro limiti. Senza giudicarli, ma facendoli uscire dall’idealizzazione in cui li ha sempre avvolti. Dentro di lui compariranno sentimenti di rabbia, di tristezza, di disillusione, indicatori di un processo evolutivo di effettiva differenziazione dalle figure genitoriali. Solo “facendo pace” con il suo passato potrà re-incontrare, da uomo affettivamente adulto, la sua compagna. Che, finalmente, si permette oggi di vivere degli spazi di autonomia dalla coppia. Che non dovrà più assolvere alle funzioni di un oggetto buono sempre presente e disponibile, da cui non staccarsi mai, pena il vissuto straziante di essere lasciato solo, con le proprie angosce. Una compagna che acquisterà, al pari delle sue figure genitoriali, sembianze più umane e più realistiche, con la quale includerà nella coppia momenti fisiologici di separazione, di distanziamento, alternati a momenti di maggiore vicinanza e intimità.