“Non lo sopporto!”

Imparare a tollerare le frustrazioni

Marco è un uomo sulla cinquantina, sposato con due figli.

È da un paio d’anni che lavoro con lui, per problemi di alcolismo. La sua tendenza a bere è rientrata, dopo aver esplorato insieme il bisogno più profondo che lo spingeva a stordirsi. Marco ha preso consapevolezza delle sue emozioni, dell’impatto che la sua storia familiare ha avuto su di lui, dell’importanza che ha, oggi, la sua nuova famiglia, a lungo trascurata per stare al bar con gli amici.

Il suo ruolo di marito e di padre sono molto cambiati nel corso di questi due anni, ma non è tutto rose e fiori. Il maggiore dei suoi figli – che oggi si affaccia alla preadolescenza –  ha ricevuto qualche anno fa una diagnosi di ADHD (disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività). La gestione del figlio è sempre stata estremamente problematica per i genitori, che all’inizio erano esasperati. Ora le cose vanno molto meglio, ma ci sono periodi in cui il comportamento difficile del ragazzo li mette ancora a dura prova.

L’ultimo mese è stato davvero stressante per Marco: al lavoro ha dovuto fare turni snervanti, la madre ha avuto grossi problemi di salute, hanno cambiato casa e, se non bastasse, pure il figlio è tornato a dare problemi, mostrandosi molto scontroso e oppositivo tanto a scuola quanto a casa.

Marco mi confessa di avere avuto più volte la tentazione di bere ultimamente. Ma non lo ha fatto per non buttare al vento due anni di duro lavoro su di sé.

“A tratti – mi dice – è come se non riuscissi ad accettare che le cose stiano andando così male. Dopo tutti gli sforzi e il percorso fatti. Soprattutto quando Matteo (il figlio maggiore), fa una delle sue scenate e tira su un putiferio per qualche sciocchezza, magari perché gli vietiamo di giocare per ore ai videogiochi. Sembra che non ci sia nulla in grado di calmarlo. In quei momenti mi assale lo sconforto e la tentazione di bere si riaffaccia nella mia mente.”.

“Marco – gli dico io – ti rispondo ora in un modo che potresti riproporre anche tu con Matteo: come puoi aiutarti a rendere più sopportabile quel preciso momento? Che cosa potrebbe esserti utile per riuscire a tollerare soltanto un po’ di più quell’attimo di frustrazione?”.

Marco ci pensa un po’ su e poi i tratti del suo viso si distendono: “pensare alla mia montagna…”, mi dice “mi dà un immediato sollievo”. Dopo qualche istante di riflessione aggiunge: “Ho capito: si tratta di spostare l’attenzione dall’aspetto esclusivamente negativo di quel momento. E trovare qualcosa DENTRO DI ME che possa aiutarmi a superarlo. La stessa cosa potrei proporla, in effetti, a Matteo; potrebbe anche diventare un gioco: confrontarci su come riusciamo a superare i momenti più difficili da accettare, scambiarci i consigli”.

Marco ha colto perfettamente la mia proposta. Quella di non arrovellarsi tentando di cambiare una realtà che non dipende totalmente da lui, ma cercando dentro di sé le risorse per imparare a tollerare ciò che gli accade. È un’attitudine, questa, che può sollecitare anche nei propri figli, evitando triti ragionamenti “di testa” che tentino di convincerli a farsi una ragione di alcune cose, ma spostando l’attenzione sugli aspetti di risorsa; virando il focus da un piano di pensiero a quello delle sensazioni.

Un detto cita “Quando possiamo cambiare la realtà, facciamo di tutto per cambiarla. Quando non possiamo fare nulla, non ci resta che accettarla”. Ed è in quel momento che il focus diventa il nostro mondo interno, con le potenzialità e le capacità che custodisce.

Marco, la volta dopo, mi riferisce di aver sperimentato questa strategia con Matteo. In un primo momento Matteo non ha voluto ascoltare la proposta di Marco. Che però non si è dato per vinto ed è rimasto accanto al figlio. Dopo qualche istante Matteo ha borbottato che la sola cosa che avrebbe voluto fare sarebbe stata tirare dei pugni. Marco si è prestato al gioco e sono finiti a “fare la lotta”, cosa che non succedeva da tanto, tanto tempo. E tra spintoni e risate hanno ritrovato una complicità che mancava da molto.

“Imboccare un’uscita dall’autostrada”

Una metafora per uscire dagli automatismi disfunzionali

Febbraio 2020

Quando affrontiamo delle esperienze difficili mettiamo in atto delle strategie di gestione che abbiamo a disposizione al momento, in funzione di tanti fattori: la nostra maturità, le risorse che possediamo in quel preciso istante, i supporti di cui disponiamo, ecc. La modalità in cui affrontiamo una situazione che ha avuto un importante impatto su di noi – soprattutto se si tratta di situazioni relazionali, che si ripetono nel tempo – è come se venisse “memorizzata” e diventasse lo schema automatico con cui affrontiamo eventi simili. Questo perché il nostro sistema tende a “risparmiare” tempo ed energie e ad individuare vere e proprie “autostrade” comportamentali: percorsi ben conosciuti, preferenziali, di risposta a certi stimoli.

Nel momento in cui un evento simile a quello originario si manifesta, ecco che il nostro “pilota automatico”, per ottimizzare le energie, prende il comando e ci porta a reagire come allora: anche se la strategia non è stata la più efficace, ci ha comunque permesso di sopravvivere, dunque dal punto di vista biologico è stata un successo.

Facciamo un esempio: Paola è in crisi con il fidanzato. Ogni volta che discutono, lei si chiude a riccio, non riesce più a parlare, si sente sopraffatta. Vorrebbe dire tante cose al compagno, ma non le escono le parole, è come se una morsa le chiudesse la gola, si sente incapace di reagire, è come se collassasse su se stessa. Ovviamente questo comporta una serie di incomprensioni, di non detti e di vissuti di frustrazione nella relazione di coppia.

Con Paola abbiamo individuato l’origine di questa sua risposta: quando il fidanzato si infervora in una discussione, alza la voce. È proprio questo l’aspetto che la destabilizza di più. Nella sua famiglia di origine il padre aveva imprevedibili scoppi d’ira, accompagnati da grida e dal lancio degli oggetti che trovava intorno a sé. Paola ne era terrorizzata. Ricorda che accadeva già quando lei era molto piccola, a 4/5 anni. Sua madre reagiva con altrettanta rabbia, innescando un’escalation che, non di rado, portava a degli scontri fisici tra i suoi genitori. Lei era paralizzata dal panico, temeva che potessero uccidersi.

In quel frangente, congelata dal terrore, Paola imparò a farsi invisibile, a non muoversi, a non attirare l’attenzione per non peggiorare la situazione. La risposta di freezing (congelamento) e di impotenza divenne per lei una strategia automatica di gestione di quel tipo di esperienza.

Ancora oggi i toni di voce elevati del fidanzato le attivano una risposta di allarme e di paura che la porta a ripercorrere, inesorabilmente, quell’autostrada. Essere consapevole, razionalmente, di ciò che le accade, tuttavia, non basta a far scomparire il problema. Nel momento in cui sente di stare per entrare nella solita autostrada, Paola deve imparare a imboccare una strada diversa.  E si tratta di un allenamento pratico, continuo, per riuscire a delineare percorsi di risposta alternativi. Come fare, concretamente?

Paola ha individuato il momento preciso in cui comincia a sentirsi sopraffatta: la gola le si chiude, sente una vampata nelle viscere e la forza alle gambe le viene meno.

Con Paola lavoriamo su come ritrovare un maggiore radicamento, un maggiore senso di sicurezza e di presenza in quell’istante. Lei trova efficace riportare l’attenzione da ciò che sta accadendo col fidanzato a se stessa, al suo respiro, alla percezione dei suoi piedi, appoggiati a terra. Questo le consente di non essere “trascinata” altrove (al tempo della sua infanzia) e di rimanere presente e più efficace in quel momento. Per ora Paola ha imparato a chiedere uno stop al fidanzato nel momento in cui, durante una discussione, i toni si scaldano. È qualcosa che le permette di non farsi travolgere dalla discussione e di riprendere, ad animi più sereni, le questioni in sospeso. Paola si è posta come obiettivo, tuttavia, quello di riuscire progressivamente a stare nella discussione senza il bisogno di dare subito degli stop. Sa che alzare la voce non è mai una soluzione, e le dispiace che il compagno arrivi a tanto, ma si rende anche conto che in un confronto animato può accadere, e vuole riuscire a gestire da adulta questa eventualità. Paola è in viaggio e sta facendo tutto il possibile per esplorare percorsi diversi da quelli che, in passato, seppur hanno rappresentato dei tentativi di gestione di situazioni difficili, hanno limitato le sue potenzialità.

“Intrappolata nella tela”

Un caso di aracnofobia

Monica ha lavorato con me (quando ancora ero psicoterapeuta) per diverso tempo, e la tematica per cui è arrivata l’ha portata a numerose consapevolezze e a un cambiamento sostanziale della sua vita e del suo modo di affrontarla.

Proprio sull’onda delle nuove pieghe che ha preso la sua esistenza, a un certo punto si è decisa ad affrontare un’avventura che rappresentava per lei il sogno di una vita: addentrarsi nella foresta amazzonica con un gruppo di viaggiatori. Aveva sempre rimandato la realizzazione di questo sogno per quello che viveva come un vero e proprio handicap: un terrore incontenibile per i ragni. Al solo pensiero provava un disgusto e una paura tali da iniziare a sudare e sentirsi svenire. Di fatto, quando ne vedeva uno, spesso perdeva i sensi.

Monica sapeva che, tra gli strumenti di lavoro che utilizzavo, rientrava anche l’EMDR (Eye Movement and Desensitization Reprocessing), e mi chiese di lavorare con questa tecnica sulla sua fobia.

Monica accettò di lavorare sull’episodio più antico che ricordava in proposito: quando, a soli 8 anni, in campeggio coi genitori, ebbe la disavventura di posare lo sguardo su un ragno grande quanto una pallina da ping pong, peloso, al centro di una ragnatela. In quell’occasione Monica svenne e da quel momento rifiutò di rimanere oltre in campeggio, provocando grande scompiglio in famiglia.

Durante il lavoro, mentre Monica manteneva il focus sull’immagine di quel ragno, che ricordava come se lo avesse visto ieri, faticava a non sentirsi male.  

Le tornavano alla mente le sensazioni che aveva provato in quel momento, il senso di mancamento, la voce e poi il viso dei genitori al suo risveglio…sua madre…improvvisamente ebbe un sussulto.

Monica è un’appassionata d’arte e le venne in mente l’opera di Louise Bourgeois, un’enorme scultura rappresentante proprio un ragno, intitolata “maman” (mamma, in francese). D’un tratto qualcosa scattò dentro di lei, trasalì. Appena riuscì a trovare le parole mi riferì di aver colto, per la prima volta, un’associazione tra la sua paura per i ragni e la sensazione di essere in trappola che lei provava con la madre, donna estremamente forte, severa ed esigente nei suoi confronti. Le tornò alla mente quando, alle elementari, tornando a casa con una nota della maestra – per essere stata troppo chiacchierona a lezione – al pensiero di dover confessare la cosa alla madre le prese un terrore tale da farle venire un mal di pancia che la costrinse due giorni a letto, in preda a terribili crampi.

Monica rimase sconcertata nel constatare che, da qualche parte nella sua mente, il suo vissuto di essere costantemente sotto minaccia, tra le “grinfie” intransigenti e spaventose della madre (che aveva scoppi di ira terribili) si era sovrapposto all’immagine delle zampe di un ragno, all’idea di essere intrappolata in una tela mortale, di non poter avere scampo e di poter essere avvinghiata e avvelenata da una creatura (la parte persecutoria della madre) che sbuca silenziosa da qualche angolo, quando meno te lo aspetti.

Monica era sconcertata, mai avrebbe pensato ad una cosa simile. Improvvisamente l’idea dei ragni non la ripugnava più…scoppiò in un pianto liberatorio, che la scosse per diversi minuti. Poi, dai singhiozzi, una risata:

“Certo che se avessi realizzato questa cosa prima, quel ragno lo avrei schiacciato!”.

Al di là della battuta, Monica ora poteva rispondere con le risorse che sapeva di avere a quell’antico senso di sopraffazione e di morte. Per lei sarebbe stato più facile addentrarsi nel mezzo della foresta…

“Il persecutore dentro di noi”

Una storia di impotenza appresa

Renata è una bella donna di 36 anni. Da 4 anni ha una relazione estremamente conflittuale con un uomo che la prevarica e la svaluta quotidianamente. È un rapporto non molto diverso, dice lei, da quelli precedenti. Succede ogni volta la stessa cosa: dopo un’iniziale reticenza, Renata finisce per coinvolgersi molto nella relazione di coppia e, proprio quando lei si abbandona ai suoi sentimenti, il partner comincia a maltrattarla psicologicamente, a offenderla, a sminuirla, a farla sentire come un’incapace e una stupida.

Renata sostiene di essere molto sfortunata in amore, e comincia a pensare di meritare questo tipo di uomini, evidentemente perché non è abbastanza interessante.

Mentre Renata mi racconta delle sue pene amorose, le chiedo di individuare un episodio recente in cui è avvenuto uno scambio, col compagno, che l’ha ferita.

Renata non fatica a individuarne uno, accaduto proprio il giorno prima: il suo compagno le ha chiesto di partecipare ad una importante cena di lavoro, proprio nel giorno in cui lei avrebbe dovuto partecipare al compleanno della sorella, con la quale ha un rapporto molto stretto. Lui sapeva di questa ricorrenza ma, al solito, ha messo i propri bisogni davanti a tutto. Quando Renata glielo ha fatto presente, lui ha cominciato ad alzare la voce e ad accusarla di pensare solo a se stessa, di non curarsi di lui, di volerlo umiliare di fronte ai colleghi per invidia rispetto al suo successo lavorativo. Ha dato sfogo ad un monologo durato mezz’ora al termine del quale l’ha fatta sentire talmente in colpa da decidere di rinunciare alla festa della sorella per accompagnarlo alla cena. Renata mi racconta di essersi sentita talmente mortificata per le parole del compagno, di aver provato una confusione tale da non aver saputo ribattere ad una sola parola del fidanzato. Si è sentita piccola, smarrita, una vera idiota che non ne combina una giusta.

Le chiedo di dirmi se questa è una sensazione che le è familiare, che ha incontrato spesso nella sua vita.

Renata mi dice che “sei un’idiota” potrebbe essere il titolo della sua storia.

Le vengono le lacrime agli occhi. Ricorda di quando, da piccola, sua mamma le ripeteva “non sei una principessa, non mi interessa…”. La madre si mostrava affettuosa con lei solo nel momento in cui Renata si comportava esattamente secondo le sue aspettative. Ogni richiesta, ogni movimento che si discostasse dal volere o dal desiderio materno era accompagnato da un commento simile a quello sopra citato.

Faccio notare a Renata come abbia interiorizzato l’immagine svalutante e oppressiva della madre.

Avendo imparato molto presto ad accondiscendere alle richieste altrui per ottenere approvazione, accettazione e amore, ha smesso anche di ascoltare le proprie risposte emotive, i propri bisogni e desideri.

Ecco perché, di fronte alle irragionevoli pretese del compagno, Renata non riesce a contattare le sensazioni che queste ultime scatenano in lei, ma si attiva in automatico un vecchio copione che la vuole “sbagliata”, pretenziosa e inopportuna. Subito compare il senso di impotenza, di inadeguatezza, e di colpa. Renata reagisce come quando, da bambina, la mamma la mortificava. Ma ora è una donna, e può rispondere diversamente al compagno.

Le chiedo di “riavvolgere il nastro” della scena accaduta la sera prima con il fidanzato e di procedere al rallentatore, “mettendo in pausa” subito dopo aver ascoltato la sua richiesta di presenziare alla cena di lavoro, ignorando la sua obiezione legata all’impegno preso con la sorella.

Invito Renata a chiudere gli occhi, a immedesimarsi in quell’istante, e a portare poi l’attenzione dentro di sé, al suo corpo, alle sue sensazioni. Non serve che le chieda cosa provi perché il suo vissuto le si legge letteralmente in faccia: il suo volto viene arrossato da una vampata di calore, le mascelle si serrano e l’espressione che compare in viso è quella della rabbia. Le domando se sia consapevole di quello che le sta accadendo. Renata, presa da un tremito alle braccia, dopo un sussulto, mi confessa: “se fosse qui gli tirerei un pugno in faccia…oddio…sono orribile…come ho potuto dire una cosa simile?”.

Rassicuro Renata rispetto al fatto che non è un mostro: quello che sente, e che probabilmente non è abituata a contattare, è una legittima risposta di rabbia. La rabbia non va giudicata da un punto di vista morale, è soltanto un segnale fisiologico che ci dice che ciò che sta accadendo non ci piace, non va bene per noi. Per questo si manifesta attraverso un flusso di energia che, spesso, “sale”: è il nostro corpo che si prepara a reagire con forza a qualcosa che respingiamo, per evitare che ci ferisca. Renata dovrà imparare, un po’ alla volta, ad ascoltare e a gestire questa emozione, che come un leale messaggero le porta un’informazione su di sé.

Cos’è quello che sento? Alfabetizzazione emotiva

Spesso succede che le persone non abbiano chiaro il proprio vissuto, che viene spesso identificato con un generale senso di malessere o di stress. Eppure, al di là del mero esercizio intellettuale di etichettare le nostre emozioni, capire ciò che ci accade è fondamentale per capire chi siamo, cosa vogliamo, e che cosa è meglio per noi. Ecco un esempio.

Tiziana mi racconta che, rispetto alle modalità educative di sua madre, quello che prova e che ha sempre provato, è rabbia. Ma me lo dice in un modo poco convincente, quasi rassegnato. Una qualità del sentire che ha poco a che fare con l’energia della rabbia. Ecco allora che decido di esplorare, col suo consenso, questa emozione.

“Esattamente, Tiziana, cosa senti nel corpo quando pensi a certi modi di porsi di tua madre?”

“Qualcosa nelle braccia…ma più che altro un peso al petto. È come se mi si stringesse qualcosa, nella zona del cuore, fa male…”

Chiedo a Tiziana di rimanere in ascolto di quella sensazione, tenendo l’attenzione su di essa e notando ciò che accade.

Tiziana, a un certo punto, mi dice che sta salendo qualcosa, e prima che possa finire la frase scoppia in un pianto violento, disperato, dirompente. La accompagno e la sostengo mentre si lascia attraversare da questa onda emotiva che, piano piano, si quieta, e la lascia spossata, incredula.

Mi guarda, con aria interrogativa.

“Direi che questo non ha molto a che fare con la rabbia, che dici?”

Tiziana ride e si rende conto: non si era mai permessa di ascoltare davvero quell’emozione e, men che meno, di esprimerla.

Rimando a Tiziana che, a volte, riconoscere e ascoltare la tristezza è molto penoso. A volte ne abbiamo anche paura. Ecco allora che “raccontarci” che quel malessere che sentiamo è “rabbia” è più tollerabile, perché la rabbia è un’emozione più attiva, anche culturalmente più valorizzata nel nostro contesto.

Il vero vissuto di Tiziana ce lo ha potuto raccontare il corpo più che la testa: un profondo senso di dolore, collegato alle ferite ricevute, che Tiziana non si è mai concessa di ascoltare, di legittimare. Tiziana si diceva, “di testa”, di soffrire per il rapporto conflittuale con la madre, ma non ha mai attraversato quel dolore.

Poterlo sperimentare oggi le ha permesso, finalmente, di riconoscere e reintegrare una parte di sé negata. E questo le ha fatto sperimentare un profondo senso di interezza, di libertà. In secondo luogo, l’aver attraversato la sua sofferenza, le ha restituito un senso di potere personale: non ne è stata sopraffatta, come implicitamente temeva, ma ha potuto contenerla.

La difficoltà di Tiziana di ascoltare e accogliere il suo sentire è qualcosa di molto comune oggi. E rimanda a una carenza di “alfabetizzazione emotiva”: un vero e proprio mancato apprendimento del linguaggio del nostro corpo. Ma come e quando dovremmo apprendere questo linguaggio?

Fin dai nostri primi giorni di vita, e per tutta l’infanzia, quando gli adulti di riferimento hanno il ruolo, fondamentale e delicatissimo, di cogliere, dare significato e rispecchiare al bambino i suoi vissuti, fisici e mentali. Se questa funzione è carente, perché magari a loro volta i genitori non ne hanno fatto adeguata esperienza, viene meno la sintonizzazione emotiva tra genitori e bambini. E i figli non potranno che crescere ignorando e fraintendendo un linguaggio, quello del loro corpo, delle sensazioni, che è in realtà la bussola del nostro benessere.

Un’esperienza da registi: ri-creare la propria realtà

Sandra lavora con me da qualche mese su alcune esperienze traumatiche vissute nella sua infanzia. Un giorno mi porta un sogno ricorrente, che fa da quando era ragazza, e che per diverso tempo l’ha perseguitata, ogni notte. Anche oggi, di tanto in tanto, la sveglia nel cuore del sonno e ci vuole parecchio prima che, con l’aiuto di suo marito, lei possa calmarsi. La narrazione è semplice e chiara: Sandra è in casa, sente dei rumori ma, improvvisamente, tutto diventa buio e lei non riesce a capire cosa stia accadendo, se ci sia qualcuno, si sente paralizzata e terrorizzata.

A livello conscio stiamo lavorando sulle sue risorse per ripristinare il suo senso di sicurezza e di potere personali. Ma poiché in questo caso si tratta di un sogno, decido di accedere a un livello di lavoro più implicito e simbolico. Le chiedo quindi di chiudere gli occhi, immergersi nel sogno, che conosce così bene, e descrivermi che cosa sente.

Sandra impiega qualche minuto per “rientrare” in quella scena e mi accorgo subito quando è “dentro”: si irrigidisce, la respirazione diventa più superficiale, appare un’espressione di angoscia sul suo viso.

Le chiedo di raccontarmi qual è la sensazione più disturbante che sta provando in questo momento, a livello corporeo. Mi dice che è la sensazione di immobilità, per via della paura e del fatto che tutto, attorno a lei, è buio.

“Ascolta bene, Sandra: in questo momento, all’interno della scena che stai vivendo, che cosa cambieresti? Proprio come se tu fossi la regista di un cortometraggio e potessi decidere come far procedere le inquadrature…”.

Sandra: “Sicuramente accenderei la luce, mi guarderei attorno, e mi muoverei..”.

Io: “Puoi farlo? Intendo puoi farlo accadere nella tua mente, viverlo nella tua immaginazione, ora? Fai tutto ciò che ti farebbe sentire meglio in quella scena”.

Sandra annuisce. Posso osservare il suo cambiamento: il corpo di ammorbidisce, il volto si rilassa, appare perfino un sorriso sulle sue labbra.

“Sì! – esclama – accenderei la luce e andrei verso la porta di casa…e potrei vedere il mondo, là fuori, e respirare…”. Il suo torace si gonfia d’aria, sembra euforica, l’euforia che arriva dopo il terrore, quando sentiamo che ce l’abbiamo fatta.

Io: “Ottimo Sandra, ora ti chiedo di individuare una parola che possa descrivere tutto questo, che racchiuda il senso di ciò che hai provato, del processo che hai vissuto, con gli occhi della mente”.

“Libertà! Direi che la parola più adatta è proprio libertà”.

Io: “Vorrei che tu raccontassi a tuo marito l’esperienza che hai fatto oggi, con me, e che gli chiedessi, se ti dovesse capitare ancora di fare quest’incubo, di aiutarti, ricordandoti in quel frangente la parola libertà”.

Sandra sembra sbalordita e meravigliata dalla semplicità e allo stesso tempo dall’intensità dell’esperienza che ha fatto in seduta. Ha potuto modificare l’esito del suo incubo e ne è rimasta incredibilmente sorpresa: l’ha invasa un senso di forza, di speranza e di euforia che non credeva possibili.

Le spiego che, quando riusciamo a immaginare intensamente qualcosa, immedesimandoci profondamente in essa, nel nostro cervello si attivano le aree pressoché identiche a quelle che si attiverebbero se facessimo davvero l’esperienza. È il principio che ha reso tanto di successo i film o le animazioni in 3D.

La sua mente, quindi, ha potuto per la prima volta individuare e vivere un esito diverso di quella scena angosciante.

Ciò ha accresciuto il suo senso di potere personale e di successo, arrivando a farle sperimentare il “pronking”, ovvero la percezione di avercela fatta. Il rilascio di un potente quantitativo di energia prima bloccata. È un fenomeno che si può anche osservare in natura, quando certe prede sfuggono ai predatori. Si tratta di un vissuto di pura gioia e vitalità.

Arriva quando superiamo un’esperienza traumatica, quando riusciamo ad uscire da una situazione vissuta come estremamente minacciosa per la nostra incolumità, quando facciamo fisicamente l’esperienza di essere fuori da una situazione di pericolo.

L’energia fisiologica attivata dall’organismo per far fronte alla minaccia viene liberata e quello che si percepisce è una vera e propria “scarica” adrenalinica, di euforia.

Cosa ha permesso a Renata di “farcela”?

Renata ha sempre percepito il suo incubo ricorrente come immutabile, incombente, inevitabile. Non lo ha mai “trattato” come uno scenario che potesse trasformare, avendo sempre subito il vissuto profondamente angosciante e paralizzante che esso le trasmetteva. Accedere a una soluzione percepita come concretizzabile (“accendere” – con l’immaginazione – la luce nella stanza) ha rappresentato per lei una via d’uscita risolutiva, a cui non aveva mai pensato. Una soluzione banale ma “mai vista” e considerata, essendo Renata completamente sopraffatta dalle sensazioni – anche fisiche – di impotenza e paralisi.

La semplicità della soluzione e il fatto che l’avesse trovata Renata stessa, dopo essersi defocalizzata dal suo senso di impotenza, le hanno restituito il suo potere personale e un senso di vitalità incontenibile.

Renata mi ha poi raccontato di non aver più fatto quell’incubo notturno. Ciò a dimostrazione del fatto che, siano più o meno “reali” le esperienze che facciamo, ciò che conta è come noi le viviamo, e anche l’esperienza di attraversamento e superamento che ne facciamo. Sia essa “vera” o immaginata. Si tratta pur sempre di esperienza vissuta nel corpo, e quindi di un passo verso una maggiore resilienza.

Il senso di vuoto dietro una facciata di spensieratezza

Carlo, un uomo di mezza età, arriva da me perché ultimamente soffre di una forma di ansia che, a suo dire, è inspiegabile. Non c’è niente che non vada, apparentemente: ha una carriera brillante, successo sociale, e non gli mancano le donne. Non sa cosa possa essere successo, ma da qualche mese sente un’irrequietezza che lo disturba, che gli fa temere di stare solo, cosa che per lui è sempre stata fondamentale, rigenerante.

Chiedo a Carlo che cosa sia accaduto di significativo, nella sua vita, da qualche mese a questa parte.

Lui risponde di averci pensato, ma che nulla davvero è cambiato nelle sue routine. Solo, mi dice, due delle donne più importanti che stava frequentando, hanno deciso di “fare le preziose” (queste le sue parole).

Mi chiedo e gli chiedo quante donne stesse frequentando.

Carlo: “Non vorrei sembrarle un maschilista ma io non riesco ad avere una sola relazione. Frequento 3/4 donne contemporaneamente perché altrimenti mi annoio. Sono un po’ in imbarazzo perché lei è una donna e dirle queste cose mi sembra scortese…ma non ho mai trovato una donna che mi bastasse, che mi facesse innamorare…”

Io: “Certo Carlo, capisco, non ha mai investito completamente su una sola relazione, ha sempre sentito il bisogno di diluire, per così dire, il suo impegno tra partner diverse. Ma sembra che una paio di queste, di recente, le abbiano dato del filo da torcere. Come la fa sentire questo?”

C: “Niente, come mi deve far sentire? Mi dispiace un po’, ma sono sicuro che sono bizze passeggere, è sempre stato così. Non è davvero un problema, peggio per loro…”

Io: “Eppure ho la sensazione che questa lontananza c’entri con il problema. Sembra che lei tema di riconoscere che una questione sentimentale, o se non altro emotiva, possa toccarla. Forse è per questo che, invece di investire profondamente in un’unica relazione, passa da una donna all’altra? Per investire – e rischiare – il meno possibile dal punto di vista emotivo? Cosa succederebbe se invece lo facesse?”

C: “Ma niente, cosa vuole che succeda? Le ho detto che non ho mai trovato una donna per cui valesse davvero la pena impegnarmi…”

Io: “Forse una donna di questo tipo nella sua vita c’è stata, ma non è andata molto bene? Cosa le viene in mente se le chiedo in che altri momenti della sua vita ha sentito l’angoscia, il senso di vuoto che sta provando in questo periodo?”

Carlo si irrigidisce. I suoi occhi si inumidiscono. Mi guarda, e per un attimo lo vedo piccolo, bambino…

Poi la sua corazza si richiude, velocemente. “Beh…certo…mi viene in mente quando passavo ore da solo dopo la scuola. Mia madre non aveva tempo per me…ma non vedo cosa c’entri questo ora”.

L’armatura di Carlo si è dischiusa per un attimo, in cui ho letto nei suoi occhi la sua fragilità, e si è subito rinsaldata. Ci vorrà un lavoro lungo e paziente per aprire una breccia nelle sue difese e nel suo cuore.

Carlo ha una personalità narcisistica o meglio, se facciamo riferimento al suo stile relazionale, una personalità “briciola”, come la definisce Umberta Telfener in un suo libro. Un uomo che non si concede mai troppo nelle relazioni affettive, che investe in esse il minimo indispensabile per preservare il proprio mondo personale, la propria libertà, i propri equilibri interni. Un reale incontro e confronto con l’altro sarebbero troppo rischiosi. Potrebbero metterlo eccessivamente in discussione: Carlo potrebbe deludere o ricevere dei rifiuti, cosa per lui intollerabile. È un’esperienza che ha fatto precocemente nel suo contesto relazionale di origine (con la madre) e che ha imparato a mascherare, a evitare, a non sentire…nascondendola sotto un’immagine grandiosa e invincibile di sé. Ma quando dal mondo esterno arrivano segnali che disconfermano questa sua onnipotenza – l’allontanamento di due “favorite dell’harem” – il suo fittizio senso di sicurezza comincia a crollare, e Carlo rientra in contatto con un’angoscia originaria e intollerabile. L’accesso a quel mondo interno deve essere rispettoso e cauto.

“È solo un’ipotesi, Carlo, ma teniamo presente che questo senso di angoscia non le è nuovo, forse è più antico di quanto pensi. Ne riparleremo ancora…”.

Dolorosamente insieme…

Quando le storie familiari influiscono sulle relazioni di coppia

Riccardo e Martina arrivano da me perché, dopo anni di relazione, sentono di essere arrivati ad un nodo cruciale: Martina, sulla quarantina, vorrebbe tanto un figlio. Le sembra che il tempo a sua disposizione ormai sia poco e si sente pronta ad affrontare questo passo.

Riccardo invece è molto frenato: è impaurito, non si sente in grado di far fronte ad un’eventualità del genere. Durante delle sessioni individuali approfondiamo le rispettive storie familiari.

Martina è rimasta orfana di madre molto presto, da bambina, e ha un rapporto strettissimo col padre. Il suo sogno è sempre stato quello di metter su famiglia e ora la reticenza di Riccardo, che ama molto e che, a suo dire, ha scelto proprio perché “tutto d’un pezzo” e poiché le dà sicurezza, la ferisce terribilmente: si sente non realmente voluta, tradita. Il rifiuto di Riccardo riattiva in lei un profondo dolore e un senso di vuoto, che assomigliano molto a quelli che lei ha vissuto in seguito alla prematura scomparsa della mamma. Martina teme che lui non la ami davvero e che possa perderlo da un giorno all’altro, cosa che le risulterebbe intollerabile: non potrebbe sopportare un altro abbandono…Questo timore la rende insicura e, nei confronti del partner, continuamente richiedente e controllante. A volte perde le staffe e la cosa che la manda più in bestia, quando discutono, è che lui sembra impassibile, impenetrabile…questo apparentemente conferma i suoi timori rispetto al fatto che lui non sia veramente interessato alla loro relazione.

Riccardo, da parte sua, ha una storia di bambino maltrattato. Il padre, alcolizzato, spesso lo picchiava selvaggiamente e in modo imprevedibile, sfogando su di lui le proprie frustrazioni personali, e nella convinzione che lui non fosse realmente suo figlio. Riccardo è sopravvissuto a un’infanzia durissima, ma ne porta ancora i segni. È estremamente ansioso, rigido, sembra che faccia uno sforzo immane per mantenere tutto sotto controllo, emozioni comprese. Durante gli incontri individuali emerge che il suo timore rispetto ad un’eventuale paternità è legato al terrore di poter perdere il senno e di diventare come suo padre.

È anche per questo che, nella sua vita, Riccardo si è chiuso dietro un’armatura impassibile e, almeno all’apparenza, inespugnabile. La sua reazione alla rabbia, propria e altrui, è una sorta di congelamento, che lo immobilizza. Il suo più grande incubo  è poter diventare, a propria volta, maltrattante e violento.

Martina non conosce la sua storia, che Riccardo ha sempre taciuto e cercato di dimenticare.

Riccardo e Martina sono due chiari esempi di come le rispettive storie di vita, e familiari, abbiano creato delle “vulnerabilità” che si sono giocate, successivamente, nella loro relazione di coppia.

Martina, in cerca di un partner rassicurante e affettuoso per colmare il vuoto mai elaborato lasciatole dalla morte della madre, fraintende la rigidità di Riccardo, vivendola come solidità. Ma non tarda ad accorgersi che, proprio questo aspetto, è quello che più la sollecita, facendola sentire insicura e incerta rispetto a quanto lui la ami e desideri un futuro con lei.

Riccardo, barricato dietro le sue difese, risponde alle richieste emotive e alle esplosioni di Martina come ha imparato a fare: congelandosi, ma nel terrore di perdere il controllo.

Quanto più lei diventa richiedente e intrusiva, tanto più lui si ritira. E il comportamento di ognuno dei due sollecita sempre di più i temi affettivi cruciali dell’altro.

Il lavoro con Martina e Riccardo è proseguito con incontri congiunti, di coppia. Le riflessioni sulle rispettive storie sono state condivise, anche attraverso l’uso di strumenti specifici, come il genogramma (rappresentazione grafica della famiglia di origine e delle relazioni tra i membri). Ognuno dei due ha potuto conoscere e comprendere meglio la storia e il vissuto profondo dell’altro. Entrambi hanno inoltre potuto differenziare ciò che ciascuno portava – dal proprio passato – nella coppia e ciò che invece emergeva nel presente, nell’incontro più consapevole e autentico con l’altro. Per Martina e Riccardo si è aperta la possibilità di una diversa narrazione, che li vede protagonisti di una nuova storia: la loro storia come coppia di adulti e non più – soltanto – come figli feriti.

I paradossi che curano

Quando ho visto per la prima volta Renato sono rimasta colpita dalla sua rigidità: camminava quasi come un robot e non aveva alcuna espressione facciale.

Il racconto di sé e dei suoi problemi è andato nella stessa direzione delle mie impressioni. Renato è un giovane uomo in carriera, sposato, con una bimba. Ha sempre “fatto il suo dovere”, dice, cercando di mettere il massimo dell’impegno nel raggiungimento dei suoi obiettivi. Mi conferma che il livello di prestazione e il controllo su ogni aspetto della sua esperienza sono fattori di primaria importanza per lui.

“Sono sempre stato un tipo un po’ ansioso, ma da qualche mese la situazione è peggiorata: per lavoro devo a volte parlare in pubblico e la cosa sta diventando insopportabile. Non faccio altro che pensare al disagio che proverò la prossima volta e al fatto che i presenti potrebbero accorgersi del mio nervosismo. Immagino di cominciare a balbettare, di non esporre in modo chiaro le mie argomentazioni, di andare nel panico e di finire per abbandonare la sala onde evitare il peggio oppure, vera catastrofe, di sentirmi male davanti a tutti.”

Renato al solo pensiero si agita, comincia a sudare, sente il battito del cuore aumentare.

Ogni tentativo che faccio per iniziare con lui un lavoro di tipo corporeo fallisce:  mi rendo conto che Renato è molto “di testa” e prima di familiarizzare con un lavoro più fisico ci vorrà molto tempo. Ma Renato è arrivato all’esasperazione: quando sa di dover parlare in pubblico – e questo succede mediamente una volta al mese – comincia a entrare in fermento già settimane prima. Tanto che è arrivato a perdere il sonno. E più ci pensa, più si agita. Conveniamo che il pensiero, l’anticipazione degli eventi, è la causa più superficiale del suo star male. Ma interrompere quei pensieri sembra impossibile.

Come porre fine a questo circolo vizioso?

Poiché Renato ha una forte e apparentemente incrollabile componente razionale, decido di sfidare le sue premesse. Non riesce a non pensarci perché, dice, è più forte di lui? Benissimo, gli chiedo di farlo intensamente e dettagliatamente, per venti minuti, 3 volte al giorno, anche quando non ha in programma conferenze.

Renato mi guarda un po’ perplesso, ma poi commenta: “Sarà facilissimo, lo faccio ogni giorno molto più a lungo dei 20 minuti! Non credo che servirà a molto…ma lo farò”.

Ci siamo rivisti dopo 15 giorni. Renato per la prima volta mi ha sorriso. Mi ha detto che, non sa cosa sia successo, ma il pensiero ossessivo sul parlare in pubblico lo ha abbandonato. Certo, è rimasto in lui il timore di fare brutta figura, ma quel rimuginìo che gli toglieva  il sonno è sparito, come per magia.

Cosa è accaduto?

La mia scelta di prescrivere a Renato il sintomo lo ha messo in una situazione paradossale: seguendo la prescrizione, infatti, egli ha messo in atto volontariamente il sintomo, rendendosi implicitamente conto di non subirlo ma di poter agire attivamente su di esso…e il sintomo ha perso la sua efficacia, è diventato solo un compito fastidioso e intollerabile. Il circolo vizioso del pensiero intrusivo e ricorrente è stato spezzato.

Questa manovra strategica ha inoltre fatto breccia nella facciata rigida e apparentemente inattaccabile di Renato: qualcosa che non ha esattamente compreso – e quindi controllato – ha avuto un effetto benefico su di lui. Ora sembra che Renato sia più fiducioso nei miei confronti e disponibile a esplorare anche aree che inizialmente, a suo modo di vedere, non erano rilevanti.

Ma, come si sa, il sintomo non è che la punta di un iceberg e la prescrizione del sintomo ci ha permesso di smettere di girare continuamente attorno a questa punta, come se fosse l’unica realtà esistente, e cominciare a guardare sotto…

Una violenza invisibile: il gaslighting, una sottile manipolazione mentale

Giusy arriva da me in profondo stato di prostrazione e depressione. Sta uscendo, a fatica, da una relazione fortemente destabilizzante e patologica. Una relazione durata 4 anni con Matteo, un professionista di poco più grande di lei. Quattro anni di incubo, a suo dire, che l’hanno portata sull’orlo della pazzia.

Giusy è originaria della Romania, fu adottata da piccola e ora i suoi genitori sono morti. È sola al mondo, senza contatti significativi con la rete parentale e senza amici. “Lui mi faceva sentire una stupida, inutile, una persona di cui a nessuno, all’infuori di lui, sarebbe importato”. Così comincia il racconto straziante di Giusy. Una storia fatta di sottili ma continui, costanti attacchi al suo senso di fiducia e valore personali. Una sorta di inesorabile ma velato “terrorismo psicologico”. Matteo non ha mai alzato le mani su di lei, non ce n’era bisogno. Tanto lei era succube e dipendente da lui, dai suoi giudizi, dal suo modo di vedere e interpretare le cose. Giusy, piangendo, mi racconta di quanto si sia annullata, messa in dubbio, accusata, svalutata, per rimanere con lui. E non era neanche consapevole di quanto stesse accadendo.

Dagli episodi, dalle parole, dalle atmosfere che Giusy via via mi racconta di aver vissuto nella relazione con Matteo si delinea sempre più netta un’ipotesi, una parola che racchiude il senso di ciò che è accaduto a Giusy: Gaslighting.

Il termine fa riferimento a un’opera teatrale statunitense e ai successivi adattamenti cinematografici, degli anni ’40, nei quali si descrivono le modalità subdole e manipolatorie con cui un marito cerca di portare la moglie a dubitare di se stessa, delle proprie percezioni e della propria memoria (ad esempio negando fatti realmente accaduti o distorcendo questi ultimi) per disorientarla e averne il totale controllo.

Si tratta di una forma d’abuso che, avvenendo tra le mura domestiche e non lasciando “segni” percettibili, come potrebbero essere quelli di percosse fisiche, è estremamente difficile da riconoscere. Anche perché chi ne è vittima, per prima, non riconosce da subito il lento ma infido processo di manipolazione a cui è sottoposta. Ciò che succede, infatti, è che gli “attacchi” del gaslighter sono graduali, somministrati a piccole dosi, ma inesorabili. È quello che accade nella famosa metafora della “rana in pentola”: il calore dell’acqua si alza lentamente e la rana non si rende conto di ciò che le accade, arrivando a morirne.

Inoltre, spesso, l’atteggiamento generale del gaslighter è a tratti di grande apprezzamento, di dichiarata vicinanza e valorizzazione della vittima. La quale, alla ricerca di un’approvazione e di una sicurezza che non trova dentro di sé, arriva a vacillare, a provare un grande stato di confusione, a dubitare di se stessa e ad accettare la visione e la lettura della realtà dichiarate dal proprio manipolatore, spesso oggetto di forte idealizzazione.

Ecco allora che alcuni fatti vengono distorti, altri negati, vengono rivolte alla vittima accuse per cose irrisorie o inesistenti. Vengono messi in dubbio i suoi ricordi, la sua lettura dei fatti, addirittura le sue percezioni (“non è come dici, sei tu che ti immagini le cose”). Il tutto alternato a dichiarazioni di solidarietà, di vicinanza emotiva e di affetto (“lo dico per te, tesoro, ti vedo un po’ esaurita, lascia che mi occupi io di te”). Il vissuto della vittima passa da stati di confusione, a incredulità, a rabbia, per arrivare, quando la persona infine depone le armi e arriva a dubitare completamente di se stessa, alla depressione. La sua autostima e capacità decisionale sono state definitivamente compromesse e schiacciate.

Giusy è caduta in una trappola pericolosa, che ha trovato terreno nel suo disperato bisogno di affetto, di approvazione, e nella scarsa fiducia in sé, nella mancanza di ascolto e di legittimazione delle sue sensazioni e impressioni personali.

“Giusy, anche io potrei rischiare di rappresentare, per te, un’altra persona che ti dice cosa è giusto e cosa è sbagliato. Per questo lavoreremo molto, all’inizio, sull’ascolto e la decifrazione del tuo sentire. Quello, appartiene solo a te, ti aiuta a capire cosa ti fa stare bene e cosa no, cosa vuoi per te stessa e da cosa preferisci prendere le distanze. Il nostro lavoro di ricostruzione partirà, paradossalmente, da un piano molto diverso da quello che è stato attaccato, ovvero il piano mentale. Partiremo dal tuo corpo e dalle sue risposte…ogni casa solida si costruisce dalle fondamenta.”