Divorzio: quando la separazione danneggia i figli

Arianna è una donna combattiva, passionale, e lo sa bene il marito, o meglio l’ex marito, Daniele, dal quale si è separata dopo 8 anni di matrimonio. La fine del loro rapporto è stata burrascosa e molto sofferta: Arianna ha scoperto che il marito la tradiva, da 2 anni, con una collega di lavoro. Il dolore è stato tanto ma non ha avuto dubbi: una cosa del genere non l’avrebbe mai perdonata e non le sarebbe stato possibile continuare la storia con lui, come se niente fosse accaduto. Dopo liti furibonde, alle quali, mi racconta, purtroppo a volte ha anche assistito la figlia di 8 anni, Martina, ora lei e Daniele si sentono solo per “informazioni di servizio”, come le chiama lei, ovvero per questioni legate alla gestione e all’educazione della figlia. Ma qui sorge un problema: Martina da qualche tempo non vuole più vedere il padre, è arrabbiata con lui, e Arianna – che da una parte sembra compiaciuta di avere la figlia “dalla sua parte” – dall’altra si dice contrariata dalla cosa, anche perché il rifiuto di Martina di relazionarsi con l’altro genitore le crea non poche discussioni con l’ex marito. Arianna mi chiede come poter gestire questo comportamento, a suo dire “capriccioso”, della bambina, che oltretutto è diventata scontrosa e chiusa anche con lei.

“Immagini di essere su un aereo” ribatto io . “Ad un certo punto sente provenire dalla cabina di pilotaggio delle urla e degli improperi: ne deduce che pilota e copilota stiano avendo una discussione accesa. Immagino che comincerebbe a preoccuparsi, a dir poco”.

“Beh…certo…” risponde Arianna.

 “Come si sentirebbe se, di lì a poco, uno dei due uscisse furibondo dalla cabina di pilotaggio e cominciasse a inveire contro l’altro cercando la solidarietà dei passeggeri?”

Arianna: “Credo che sarei sgomenta, impaurita, e farei di tutto per non alimentare ulteriormente la rabbia del personaggio infuriato, ne andrebbe della mia vita e di quella di tutti gli altri…”. Arianna ha un improvviso insight, un’illuminazione: “Ho capito cosa vuole dirmi, dottoressa…sto mettendo Martina in una condizione analoga a quella della metafora…”

“Proprio così: consideri poi che Martina ha 8 anni, e non ha gli strumenti che può avere un adulto per spiegarsi ciò che succede e gestire il turbinio di emozioni che prova. Percependo una situazione di estremo pericolo – pericolo emotivo, s’intende – non ha trovato altra soluzione che schierarsi con il copilota a cui è affidata. Al costo di una profonda angoscia, di sensi di colpa, di rabbia. E deve tenersi tutto dentro: dare espressione alle sue emozioni sa che non farebbe che alimentare i conflitti già esistenti. Ma non può fare a meno di provare sentimenti contrastanti sia verso suo padre sia verso di lei.”

Esporre i figli ai conflitti coniugali, cercare l’alleanza o la complicità del bambino contro l’altro genitore, o addirittura istigarlo contro l’altro, usarlo come arbitro o spia (o anche messaggero) contro l’ex coniuge sono comportamenti estremamente deleteri per il figlio. Ciò che è più doloroso e potenzialmente patologico per il bambino di genitori che stanno divorziando, infatti, non è tanto la loro separazione, ma l’essere coinvolto e “usato” nei loro conflitti.

“Mi rendo conto solo ora di aver messo Martina in grosse difficoltà, forse le ho chiesto troppo…”.

“Proprio così: la sua rabbia e le sue sofferenze verso Daniele possiamo elaborarle qui, nel lavoro insieme, ma deve fare di tutto per non trasmetterle a Martina: sarebbe come inveire contro il pilota rimasto in cabina. Genererebbe solo angoscia e terrore, e non è questo che lei realmente vuole. Può cominciare a recuperare una posizione più neutra verso Daniele quando parla di lui e con lui, e cercare di preservare la figura del padre agli occhi di sua figlia, invece che demolirla. Martina avrà tempo per farsi una sua idea su come siano andate le cose, ma adesso, che ha 8 anni, non può fare a meno della figura del suo papà, con i suoi pregi e difetti”.

Una sofferenza senza parole

Il lavoro sui blocchi emotivi al di là delle parole

Simona mi interpella via mail, raccontandomi brevemente il motivo della sua richiesta di aiuto e cercando in me e nel mio modo di lavorare (chiede delle sessioni di Somatic Experiencing) una rassicurazione rispetto alle sue paure: dover affrontare i suoi fantasmi più spaventosi e il terrore di non uscire dal vortice di sofferenza in cui si sente risucchiata.


La modalità di contatto scelta da Simona, un’email, mi dice già molto di lei e dei suoi timori: percepisco il suo primo incerto tentativo di avvicinamento come una sorta di “test”. Simone desidera disperatamente stare meglio, lavorare su di sé, ma teme di essere sopraffatta dai suoi vissuti emotivi. Mi sta implicitamente ma chiaramente chiedendo, attraverso la sua richiesta, di “andarci piano”, di aver bisogno di accostarsi in modo graduale alla sua sofferenza, e anche a me.


Io e Simona ci incontriamo dopo un paio di settimane: è una donna minuta, dall’aria spaventata. Quando si siede, in poltrona, non si appoggia allo schienale, ma rimane seduta “a metà”. Sebbene il suo corpo sia rivolto verso di me, quando mi parla ruota il capo verso destra, costringendola a guardarmi “di traverso”, quasi con la coda dell’occhio. Mi viene in mente l’espressione latina “obtorto collo”, a indicare un vissuto di costrizione, un’imposizione. Sembra che Simona sia lì con me ma che, per qualche verso, si stia forzando ad esserci.


Le mie impressioni non tardano ad avere conferma: Simona mi spiega di aver cercato me proprio per il metodo di lavoro in cui sono formata: Somatic Experiencing. Sa che questo approccio è corporeo, non necessariamente narrativo, e la cosa la rassicura molto. Mi spiega che, al momento, per lei sarebbe sopraffacente raccontare alcuni episodi della sua infanzia che stanno emergendo, per la prima volta, come flashback. Non potrebbe nemmeno farlo, per la verità, perché ha solo dei frammenti di memoria confusi, annebbiati, che però sono stati sufficienti a gettarla in un profondo stato di angoscia.
Ciò che mi chiede, e che per qualche altro terapeuta che ha precedentemente contattato ha rappresentato un limite insuperabile, è di lavorare sul suo passato senza verbalizzarlo, almeno per il momento.
La dimensione della narrazione, della parola, sono per ora troppo attivanti per lei. Non potrebbe tollerarle.
Comprendo profondamente la sua richiesta disperata di aiuto, un aiuto sensibile, delicato, che abbia cura dei suoi abissi interiori e che le consenta di avvicinarli in modo graduale. La rassicuro sul fatto che, se per il momento non vorrà, non avrà bisogno di dare parola ai suoi ricordi, ancora confusi e troppo angoscianti.


Ciò che potremo fare assieme, in una prima fase, sarà lavorare sulle sue risorse e sulle sue capacità di autoregolazione e di contenimento, per poi accedere alle emozioni più penose, che a quel punto sarà maggiormente in grado di contattare ed elaborare. Somatic Experiencing ci permetterà, attraverso un lavoro gentile di tipo corporeo, di rimettere mano ai suoi vissuti senza forzature e ri-traumatizzazioni.


Simona accoglie le mie parole con grande sollievo: per la prima volta si appoggia completamente alla sedia, vi si abbandona e scoppia in un pianto irrefrenabile. Mi avvicino cautamente con la mia poltrona alla sua, rassicurandola, e accosto i miei piedi ai lati dei suoi. Dopo un singhiozzare liberatorio, una volta calmatasi, mi guarda e mi dice: “Finalmente non mi sento più sola nel gestire questa cosa…”. “Non sei sola, Simona, io sono qui con te, al di là delle parole…”.

I calzini della discordia – storie di battaglie coniugali

“Dottoressa, mi fa imbestialire: non lo sopporto più, sembra che lo faccia apposta a farmi saltare i nervi. Come ieri: gli avrò detto milioni di volte che non tollero quando lui, tornando a casa, si cambia e mi lascia i vestiti in giro. E lui ieri che ha fatto? Tornato dal lavoro ha lasciato i suoi calzini puzzolenti sul divano. Sono andata talmente in bestia che mi è venuto da piangere. Appena è uscito dalla doccia lo ho aggredito insultandolo e gridandogli di andarsene di casa se non è in grado nemmeno di rispettare una mia richiesta”.

Sento puzza di bruciato. Possibile che il tema “calzini in giro”, per quanto fastidioso, sia così attivante per lei? Decido di esplorare più a fondo questa faccenda.

“Senta, Clara, mi ha detto che quando ha visto i calzini sul divano le è montata una rabbia irrefrenabile…”.

 “Sì, guardi, dottoressa, se ci ripenso anche adesso mi viene un nervoso che se avessi mio marito per le mani lo smonterei!”.

“Allora, prima che lei smonti suo marito, proviamo ad ascoltare un po’ meglio questa emozione: dove la sente? Che cosa sente?”.

“Sento un nodo fortissimo alla gola, mi si chiude lo stomaco, vorrei urlare con tutte le forze ma allo stesso tempo mi sento senza forze…”.

“Sembra che ci sia quindi anche un senso di impotenza…se rimane connessa con questa sensazione e va indietro nel tempo, cosa le ricorda? Qual è la prima occasione in cui ha memoria di aver provato qualcosa di simile?”

“Se vado indietro mi viene in mente con i miei figli piccoli…o ancora prima con un mio fidanzatino, ero adolescente: pure lui mi faceva imbestialire, non capiva un accidente! Andando ancora a ritroso…- fa una pausa, i suoi occhi si rattristano – …a casa con mia mamma e mio papà. Quando lui rientrava ubriaco e la maltrattava. Io avrei voluto cacciarlo via, difendere mia mamma, ma ero troppo piccola, non potevo fare niente…”. Inizia a piangere.

“Sì, Clara, era troppo piccola, non avrebbe potuto fare niente. Ma le è rimasto ben impresso il senso di ingiustizia e di impotenza legati al comportamento irrispettoso e aggressivo di suo padre.

Sembra quindi che il comportamento di suo marito riattivi in lei quel vissuto: non si tratta solo di un calzino fuori posto, ma di come lei si senta non rispettata, non considerata, non vista da suo marito. Proprio come vedeva accadere tra papà e mamma”.

Clara, in lacrime, annuisce.

“Clara, crede che suo marito si renda conto di ciò che si scatena, ogni volta, dentro di lei, quando lascia i calzini in giro?”

Riprendendo fiato: “No, non può saperlo, non ne ha idea”.

“Proprio così. Lei in realtà lei non glielo ha mai detto. Noi lavoreremo sul vissuto di impotenza che ha provato da bambina, ma lei, d’ora in poi, potrà cominciare a comunicare le sue vere emozioni a suo marito, i suoi vissuti più profondi. Solo così la comunicazione tra voi potrà diventare autentica, ed efficace”.

Separarsi e continuare a essere genitori

Una separazione coniugale rappresenta sempre, almeno all’inizio, una tappa critica per tutti i familiari coinvolti. E ciò vale anche per chi ha preso una decisione tanto importante, magari senza il consenso dell’altro. Spesso, tra i partner delle coppie che si dividono, ci sono vissuti di rancore, di colpa, di delusione e di tristezza. Tutte emozioni che possono condizionare il processo di separazione e impattare sul benessere dei membri del nucleo familiare.

Non esiste, di fatto, un modo univoco di separarsi, e le domande che spesso emergono nel lavoro con familiari che vivono questo processo sono quesiti del tipo: come si può continuare a essere bravi genitori pur non essendo più coppia? Come gestire il rapporto con l’altro genitore? Quali sono i comportamenti da evitare? Ciò che inevitabilmente rimane in comune, nella coppia, è infatti la genitorialità. Si può smettere di essere marito e moglie o compagni di vita ma, necessariamente, non si può smettere di essere padri o madri.

Il timore dei genitori è sempre quello di provocare sofferenze irreparabili nei figli, di non riuscire a gestire in modo adeguato le diversità di approccio educativo, le assenze, le mancanze, i cambiamenti di vita che questo evento di vita implica.

I dati dei numerosi studi ormai accumulatisi sull’argomento indicano chiaramente che, sebbene la separazione comporti dei disagi pratici ed emotivi per tutti i membri della famiglia, solitamente le principali problematiche vengono superate nel giro di un anno e mezzo o due anni. Ciò vuol dire che di norma entro due anni dalla separazione si riesce a trovare un nuovo equilibrio, sia negli adulti che nei bambini. Solo una ridotta percentuale di figli con genitori separati manifesta problemi durevoli. Ma ciò che di più significativo arriva dalle ricerche sull’argomento è che, nei casi in cui si sono riscontrate difficoltà persistenti, si è osservata una problematica irrisolta a carico della coppia genitoriale. I genitori, in altri termini, si sono separati “male”, ed è questo che ha inciso sul malessere dei figli.

Cosa significa separarsi male? Vuol dire affrontare questo evento con alti livelli di conflittualità, espressa o anche repressa, ma comunque percepita.

La conflittualità, di fatto, rappresenta il vero fattore discriminante per l’equilibrio emotivo e psicologico dei figli. E ciò – come dimostrato dai più recenti studi – indipendentemente dal fatto che i genitori siano separati o uniti.

L’elemento che fa la differenza, quindi, per il benessere dei figli, è l’alta conflittualità espressa dalla coppia coniugale e circolata in famiglia. Sia che la famiglia sia unita sia che sia “separata”.

Il disaccordo tra i genitori diventa la principale causa di sofferenza dei bambini. E la capacità di questi ultimi di adattarsi alla separazione dei genitori dipenderà quindi dal grado di maturazione di mamma e papà e dalla loro capacità di collaborare.

Il conflitto tra i genitori è dunque il fattore fondamentale che danneggia lo sviluppo dei figli e genera in loro problemi di emotivi e di comportamento. In molti casi, tale conflitto può precedere di anni la separazione. Ecco allora che, per le coppie che si sentono in fatica rispetto alla possibilità di affrontare la loro separazione con modalità il più possibile distese e collaborative, è di fondamentale importanza ricorrere a un aiuto esterno, a un supporto specialistico che li possa accompagnare nella gestione delle situazioni conflittuali e nell’elaborazione dei rispettivi vissuti emotivi, affinché questi ultimi non coinvolgano i figli e non si riversino su di loro.

Come un cavallo nell’arena: il corpo che parla

Stefano è un omone: alto, muscoloso, statuario.
Quello che fin dal nostro primo incontro mi colpisce è che, sul divano di fronte a me, si siede “di tre quarti”. Come se fosse in posa per un ritratto. Non mi guarda mai frontalmente ma sempre “di sbieco”, perché il suo corpo è parzialmente ruotato sulla sua sinistra. L’immagine che mi arriva è quella di un cavallo spagnolo – che ho realmente conosciuto – abituato a entrare nell’arena, che reagiva all’avvicinamento fisico mettendosi “di traverso”, pronto a scartare di lato in caso di attacco.


Mi interrogo sul significato di questa postura: sarà, anche nel caso di Stefano, un atteggiamento difensivo? Non vuole relazionarsi “apertamente” con me? Sarà diffidenza o timidezza? Lascio queste domande in sospeso finché, un giorno, arriva il momento opportuno per condividere questa informazione. Stefano, infatti, parlandomi delle sue difficoltà relazionali, mi spiega che ha la sensazione di trasmettere agli altri un’immagine sbagliata di sé. Non sa come mai, ma crede di passare qualcosa che di cui non è consapevole e che condiziona l’interazione con gli altri.


Mi sembra il momento opportuno per comunicargli l’impressione che ha fatto a me, il suo “stare di traverso”.
Stefano ne rimane stupito, pare non essersi mai reso conto di quanto gli rimando. Si rende conto che questo modo di porsi, fin dalle prime battute di un’interazione sociale, potrebbe indisporre l’altro, a maggior ragione a fronte della sua stazza, di per sé importante, comunicando più chiusura che disponibilità.


Gli chiedo che cosa succederebbe se provasse, gradualmente, a raddrizzarsi.
Stefano è stupito ma curioso. Comincia a ruotare il suo corpo verso di me, frontalmente, e subito si blocca. Mi riferisce di provare, improvvisamente, una profonda angoscia. L’entità delle sue sensazioni mi suggerisce che ci sia un’esperienza traumatica di mezzo.
Gli chiedo se, per caso, non sia successo qualcosa di importante che abbia coinvolto la parte sinistra del suo corpo.
Stefano dopo qualche istante di riflessione sbianca: gli viene alla mente che – lo scorso anno – ha fatto un incidente quasi mortale in moto: un’auto, non rispettando uno stop, gli è arrivata addosso proprio dal lato sinistro. Le cure e la convalescenza sono state durissime.
Spiego a Stefano che, in quell’occasione, ha vissuto la rottura traumatica di un confine corporeo, proprio dal lato che ora, istintivamente, cerca di proteggere, non esponendolo apertamente al mondo.
Stefano è sconvolto: non credeva che quell’incidente fosse ancora così presente nella sua vita, che lo condizionasse a tal punto…senza che neanche lui ne fosse cosciente!


Il lavoro corporeo su quell’episodio permetterà successivamente a Stefano di reintegrare i suoi confini e il suo – intimo e implicito – senso di sicurezza personale.
Di certo questo aspetto non esaurisce la totalità delle fatiche relazionali di Stefano, ma si sa: la prima impressione conta, e Stefano ora può comunicare più liberamente, anche con la postura, il suo desiderio di entrare in relazione.

La “tecnica dell’ignorante”: strategie di comunicazione di coppia

“Come è andata, nei dettagli? Cosa vi siete detti?” chiedo alla coppia che, di fronte a me, mi racconta di un recente litigio.

Lei: “Come avevamo concordato con lei, dottoressa, ho chiesto a mio marito se volesse accompagnarmi a fare un giro in bici. Per creare dei momenti di condivisione, per fare qualcosa assieme…Avrei chiamato mia sorella per badare ai bambini, l’avevo già preavvisata. Lui mi ha risposto, come un cane bastonato – per farmi sentire in colpa – che potevo andare da sola se lo desideravo perché lui non se la sentiva. Alla fine ci è riuscito a farmi sentire in colpa e non sono uscita nemmeno io! Mi ha fatto fare pure una figuraccia con mia sorella…”

La interrompo: “Scusi, perché dice che suo marito le ha risposto in quel modo per farla sentire in colpa? Cosa glielo fa pensare?”

“Perché lo conosco!”, incalza lei, “fa sempre così quando vuole farmi sentire in colpa: fa la vittima, l’anima sofferente, come se dovesse farmela pagare…”.

“Ecco, signora, questo è un esempio lampante di quella che, tecnicamente, si chiama “lettura della mente”: si tratta di un errore cognitivo, ovvero di una modalità, errata, con cui la nostra mente interpreta la realtà. Anche se lei crede di conoscere suo marito come le sue tasche, in effetti, non può avere la certezza di quello che realmente gli passi per la mente. Attribuire a suo marito l’intenzione di volerla far sentire in colpa è roba sua, una sua interpretazione.

Potrebbe essere azzeccata ma potrebbe anche non esserlo.”

Il marito, prontamente: “Ma infatti, chi glielo dice a lei che volevo farla sentire in colpa, non c’entra niente: stavo male, se proprio lo devo dire, mi è tornato quel dolore alla schiena che ogni tanto mi blocca, ma non volevo farglielo sapere per non sentire ancora, per l’ennesima volta, i suoi rimproveri sulla mia sedentarietà, sul fatto che mi muovo poco e non mi curo, su quanto mi farebbe bene fare yoga o pilates!”

“Se aveste la possibilità di girare, per la seconda volta, quella scena, stavolta comunicando l’un l’altra solo ciò che REALMENTE vi muove, ciò che provate e desiderate, senza fare presupposizioni o omissioni, cosa direste?”

Lui: “Le direi subito il vero motivo del mio rifiuto…”

Lei: “Beh…credo che gli chiederei il perché della sua risposta…e probabilmente andrei lo stesso a fare il giro in bici, perché non mi sentirei in colpa…”

Dopo una breve pausa:

“Certo che accorgermi dei preconcetti che ho nei suoi confronti non è facile…dovrei fare finta di essere ignorante…sì…usare la tecnica dell’ignorante!”

Scoppiamo tutti a ridere…

“Non pensavo che su questo episodio avrei potuto riderci su”, commenta lei.

Dalle parole al sentire: l’esperienza curativa del “cavalcare” la propria rabbia

“Dottoressa sono disperata, ho bisogno urgente di un parere, non so più cosa fare, sono tormentata, da troppo tempo. Se non parlo con qualcuno divento matta. Non so più cosa fare”.

Sara mi chiede in questo modo il primo appuntamento, trasmettendomi tutta la sua agitazione e angoscia. Il modo concitato di parlarmi, e l’urgenza, mi fanno sentire una costrizione al petto, come se avessi qualcosa che, dall’esterno, mi opprime e non mi permette di respirare.

Tenendo presente questa mia reazione, la incontro di lì a qualche giorno.

La stessa sensazione mi si ripresenta durante il nostro primo colloquio: Sara è visibilmente scossa e mi racconta in modo concitato, inondandomi di parole, del suo problema. Una situazione familiare che la sta logorando, che ha sopportato per anni ma che ora non riesce più a tollerare.

“Non so più come gestire la situazione: mia suocera, che vive sotto di noi, mi sta facendo diventare matta e io non so più cosa fare. Non perde occasione per umiliarmi e attaccarmi, e io mando giù…mando giù…ma adesso ci sono dei momenti in cui avrei l’istinto di farle del male. Ho paura di me stessa, non so più che fare…”

Mentre Sara incomincia a raccontarmi nei dettagli le angherie della suocera, tutte le occasioni in cui ha dovuto ingoiare la propria rabbia, la mia sensazione di oppressione al petto cresce. Il fiume di parole che sgorga da lei sembra non avere fine, in un susseguirsi di memorie, considerazioni, dubbi e domande. Dopo aver ascoltato alcune testimonianze della faticosa esperienza di Sara con la madre di suo marito, decido di arginare quella marea di pensieri e parole.

“Sara, mentre mi racconta questi episodi, cosa sente nel corpo?”

Sara, quasi contrariata per il fatto che io l’abbia interrotta, mi guarda con perplessità:

“In che senso cosa sento? Penso che non sia giusto, che non mi merito questo trattamento…”

La interrompo di nuovo, e il suo disagio sembra crescere: “Non le ho chiesto cosa pensa, ma cosa sente”. Il volto interdetto di Sara mi comunica tutto il suo smarrimento.

“Vede – le spiego – ascoltando i suoi racconti io ho sentito crescere in me un senso di oppressione al petto che quasi mi ha tolto il respiro. E questo solo ascoltando, seduta di fronte a lei, la sua esperienza. Mi chiedo come sia essere al suo posto, cosa stia accadendo dentro di lei in questo momento, cosa percepisca nel suo corpo. Vorrei davvero che per un istante lei portasse l’attenzione su questo aspetto.”

Sara, dopo un primo momento di evidente disorientamento, quasi di irritazione, comprende: gli occhi le si riempiono di lacrime, cerca con la schiena l’appoggio della poltrona e con voce rotta mi dice “Non mi capita spesso di fare attenzione a questo genere di cose. Non saprei cosa dire…sento tanta rabbia, ma non posso certo ammazzare mia suocera…”.

Chiedo a Sara uno sforzo ulteriore: se dovesse immaginare di descrivere che cosa sta provando lei in questo momento a una persona che non conosce il significato della parola rabbia, cosa direbbe?

“Un calore alla gola, una specie di formicolio alle braccia, alle mani, come qualcosa che mi si muove dentro”.

Chiedo a Sara di continuare a mantenere l’attenzione su queste sensazioni, come a volerle amplificare. Sara sente aumentare l’energia dentro di sé, serra i pugni, sente un grido nascere dalle viscere. La accompagno nell’esperienza di ascolto e nella sperimentazione dello stare con la sua rabbia, di darle espressione, attraverso il corpo, così come non aveva mai fatto prima.

Quando l’energia nel suo corpo torna a livelli più moderati, Sara si sente sollevata, come liberata da un peso. E senza che io debba spiegarle nulla, commenta: “Certo che se dessi ascolto in questo modo a quello che mi succede, probabilmente non accumulerei tanta rabbia e frustrazione. Se penso adesso a mia suocera mi fa quasi compassione…ma credo che non le permetterò più di trattarmi in un certo modo…”

Paralizzato dalla paura

Quando il corpo si congela per “sopravvivere” a un pericolo

“Dottoressa, non riesco proprio a capacitarmi, una cosa del genere non mi è mai successa, me ne vergogno moltissimo”.

Michele mi racconta che, mentre lui e la sua collega passeggiavano tranquillamente in un parco durante la pausa pranzo, un cane, senza apparente motivo, li ha aggrediti. Michele ha da sempre paura dei cani, e in quel frangente, terrorizzato, si è paralizzato, non riuscendo a reagire. Non è stato capace di muovere un dito nemmeno per difendere la collega, cosa che lo ha sconvolto ancora di più dell’attacco subito.

“Non riuscivo proprio a fare alcun movimento, era come se fossi diventato di marmo. Avrei voluto gridare, fare qualcosa per proteggerci, allontanare quell’animale, ma era come se il mio corpo fosse impietrito…che figura…non potrò mai perdonarmelo”.

La risposta di Michele è una delle diverse possibilità di reazione che ha il nostro organismo a fronte di una minaccia. La prima strategia che attiviamo è quello del supporto sociale: se siamo in pericolo spesso ci viene istintivo chiedere aiuto agli altri. Ma a volte questo sistema di risposta fallisce: o perché non ci sono altre persone cui chiedere sostegno, o perché le persone presenti, per qualche ragione, non vengono percepite come protettive. È quest’ultimo il caso di Michele, che in compagnia di una ragazza minuta e impaurita, in assenza di altri nelle immediate vicinanze, si è sentito in balìa degli eventi.

La seconda possibilità che ha il nostro organismo a fronte di un pericolo è quella di attaccare (se valutiamo di poter avere la meglio sulla minaccia) o di fuggire (se invece riteniamo che lo scontro non deporrebbe a nostro favore).

Ma quando, per svariati motivi, percepiamo che la minaccia non può essere evitata né affrontata, allora il nostro corpo ha un’estrema strategia di risposta: quella di “fingersi morto”, di congelarsi (in termine tecnico chiama freezing). Proprio come fanno alcuni animali quando vengono predati. La strategia della morte apparente allontana il predatore, non interessato a cibarsi di un animale già privo di vita (e quindi potenzialmente non sano). È ciò che è successo a Michele, che si è trovato nell’impossibilità, pur desiderandolo, di muovere un solo muscolo.

Ma come è possibile che un uomo grande e grosso come lui abbia a tal punto paura di un cane, per giunta di piccola taglia, come quello che li ha aggrediti?

La risposta sta nella memoria traumatica di Michele: la sua fobia per i cani deriva proprio da un episodio accadutogli da bambino, attorno ai 4 anni, quando un pastore tedesco lo rincorse e, forse volendo solo giocare con lui, lo atterrò puntandogli il muso contro la gola. Allora Michele fu sopraffatto dal terrore. Nella sua memoria si impressero le sensazioni di non avere scampo e di non poter in alcun modo fronteggiare quell’animale.

La sua mente e il suo corpo, a fronte dell’attacco del cane al parco, hanno reagito come in quell’occasione, come se Michele avesse ancora 4 anni.

“Ora capisco che non ho avuto una reazione poi così anormale…e onestamente mi sento molto meglio…credevo di essere solo uno smidollato”.

Il lavoro sulla fobia di Michele ha radici molto lontane, ma il suo senso di efficacia personale è recuperabile nel presente. La consapevolezza di aver avuto una risposta giustificata e non “codarda” rappresenta il primo passo verso il recupero di una maggiore resilienza.

L’arte di lasciare andare…ma cosa?

Spesso nel mio lavoro incontro la fatica delle persone nel distogliere lo sguardo – e a volte addirittura la presa – dal passato. Le memorie delle esperienze passate possono incistarsi in modo così profondo, dentro di noi, da impedirci di focalizzare la nostra attenzione al momento presente, che è l’unico realmente esistente.

Se non si lavora su un doppio binario, quello mentale e quello corporeo, il rischio è che uno dei due aspetti possa sabotare l’altro.

Può succedere, infatti, come a Sabrina: dopo decenni di analisi arriva da me sapendo tutto del perché, del per come, del significato simbolico e psicologico dei suoi sintomi, ma non riesce a gestirli lo stesso. Come mai? Il corpo di Sabrina ha appreso delle vie di risposta ormai automatizzate, del tutto inconsapevoli, che lei pur volendo non sa come interrompere. La sua comprensione del suo disagio non è stata sufficiente a risolverlo. Con Sabrina è necessario fare un lavoro di tipo corporeo che le insegni a conoscere e gestire le sue reazioni fisiche (da collegare alla categoria di articoli “ascolto delle emozioni” e alla sezione “Somatic Experiencing”): a volte sapere di dover uscire da un circolo vizioso senza sapere come farlo praticamente, può essere un grosso problema. Sabrina ha dovuto apprendere e rinforzare nel tempo nuovi circuiti di risposta, partendo da un profondo lavoro di ascolto e di conoscenza dei suoi vissuti corporei.

Oppure può accadere come a Massimo: è tutto testa, tutto pensieri, spende la maggior parte del suo tempo in rimuginazioni. Pensa, pensa, ripensa ma non trova mai il bandolo della matassa.
Massimo ha sentito spesso parlare dell’importanza di andare oltre, del lasciar andare…ma lasciare andare cosa?? Non ha mai capito che cosa dovesse lasciar andare, ed ecco che la macchina del suo pensiero ha trovato un altro argomento su cui elucubrare, all’infinito…

Un aneddoto che utilizzo spesso con questo tipo di persone, per cui è prioritario “placare” la fame di razionalità, è il racconto della zattera del Buddha:
“Supponiamo che un uomo sia di fronte ad un grande fiume e debba attraversarlo per raggiungere l’altra riva, ma non c’è una barca per farlo; cosa fa? Taglia alcuni alberi, li lega insieme e costruisce una zattera. Quindi si siede sulla zattera e usando le mani o aiutandosi con un bastone, si sposta per attraversare il fiume. Una volta raggiunta l’altra sponda cosa fa? Abbandona la zattera perché non ne ha più bisogno. Quello che non farebbe mai, pensando a quanto gli sia stata utile, è caricarla sulle spalle e continuare il viaggio con lei sulla schiena.”.
La riva da cui partiamo e quella su cui approdiamo rappresentano un punto di partenza e uno di arrivo. La zattera è il simbolo di tutto ciò che serve per passare da uno stato all’altro. Una volta raggiunta la riva opposta non ha senso tenersi stretti ciò che è servito per arrivarci, potrebbe essere solo un inutile peso. Lasciar andare, quindi, si riferisce alla possibilità di non ancorarsi rigidamente a strumenti, strategie, modalità che abbiamo utilizzato – pur con successo – nel passato ma che ci impediscono di sviluppare appieno il nostro potenziale nel presente. Rimuginare è un modo per tenersi la zattera.

Massimo, così logico e rigoroso, al sentire questo aneddoto ha fatto un sobbalzo.
“Eh già…non fa una piega…ma come fare?”. Ancora una volta rispondo: “Come fare lo vedremo assieme”.

Senza rinunciare allo splendore: stare, come una ginestra…

Un lavoro sulle nostre risorse interiori

Mila piange, di fronte a me, quasi sopraffatta. Non le rimangono che le sue lacrime e non riesce a vedere una luce, una possibile fine alla sua sofferenza. La conosce bene, è da tanto che la sente, dentro di sé. Così tanto che quasi non ricorda come sia sentirsi in pace.
Ha sempre lottato molto nella vita e ora, le pare, se ne stanno andando le forze.

“Qual è la sensazione, che riesci a immaginare, opposta a quella che stai provando ora?” Le chiedo.

“Di leggerezza, di sollievo…vorrei tanto non sentire più niente…spegnermi. Mi sembra che non ci sia soluzione…”.

Prima che riparta a verbalizzare quanto sta male e le ragioni della sua disperazione, la interrompo dolcemente: “Mila, capisco che vorresti solo far finire tutto questo. Ma non possiamo cancellare nulla. Possiamo solo cercare di trasformare le cose. E quando non possiamo cambiare quello che la vita ci porta, possiamo cercare di cambiare noi stessi. Partiamo da qui: mi descrivi meglio la leggerezza di cui mi parlavi? Vorrei che immaginassi una situazione che rappresenti questa leggerezza”.

Dopo un lungo sospiro: “beh…come quando da bambina andavo sull’altalena, spensierata, gioiosa…una volta con un’amica abbiamo passato quasi tutto un pomeriggio a spingerci, a turno, sull’altalena nel giardino di nonna…un giardino pieno di fiori”. Le compare un sorriso sulle labbra, le spalle si decontraggono, il respiro di regolarizza.

“Bene, Mila, vorrei che ora tu mi descrivessi nei dettagli quell’esperienza: i colori, i suoni, le sensazioni sulla pelle che hai provato, il movimento…”.

Mila comincia la descrizione e man mano che si immedesima in quella scena vedo il viso e il suo fisico cambiare, rilassarsi. Al termine della sua esplorazione le chiedo di notare come stia ora il suo corpo.
Mila si commuove: si rende conto che sta sorridendo e che sente un’espansione nel suo petto, all’altezza del cuore. Erano anni che non si sentiva così. Pensava di non riuscire più a provare certe cose.

Le spiego che questa è una importantissima risorsa che ha il nostro sistema: potersi autoregolare e riacquistare uno stato di maggiore quiete e benessere, a seguito di una forte attivazione nervosa.
Si chiama, con un termine tecnico (derivato dall’approccio di Somatic Experiencing) “pendolazione”: oscillare da momenti di forte sollecitazione a momenti di recupero.
Imparare a farlo intenzionalmente ci rende più forti, aumenta la nostra “resilienza”, ovvero la capacità di far fronte e superare le difficoltà, le perturbazioni, gli ostacoli a cui siamo sottoposti.

In natura possiamo osservare meravigliosi esempi di resilienza, le dico: uno di essi, a noi familiare, è la macchia mediterranea. Forte, resistente, ricompare sempre anche dopo eventi avversi. Una delle piante della macchia mediterranea è la ginestra: ha radici profonde, è flessibile ma robusta, cresce anche su terreni difficili, e per di più fa fiori gialli profumatissimi, intensi come la sua forza vitale. “Ecco, Mila, dobbiamo imparare insieme a stare come le ginestre: vigorose ma adattabili, in pieno sole, senza rinunciare al nostro splendore…”.