La difficoltà di scegliere

Miriam è in un’impasse. Non sa cosa rispondere a Dario, che le ha chiesto di andare a convivere con lui.

Non ha dubbi sui sentimenti che prova nei suoi confronti, ma teme che le cose tra loro si rovinerebbero. Sebbene si conoscano da diversi anni, infatti, Miriam e Dario hanno sempre mantenuto i loro spazi privati e, agli occhi di Miriam, un passo di questo genere metterebbe alla prova il suo bisogno di indipendenza.

Ma non si sente nemmeno di negare che l’idea la alletterebbe molto.

Un chiaro vissuto di ambivalenza nei confronti di qualcosa che è desiderato ma anche temuto.

Miriam non è nuova a questo genere di conflitti: motivo per cui per lei le scelte sono un vero e proprio strazio. Amante delle routine e refrattaria ai cambiamenti, Miriam è serena quando ha la situazione sotto controllo. E il fatto di sviscerare i pro e i contro di ogni possibilità non la tranquillizza né la fa uscire dall’immobilità. Le domando cosa le impedisce di osare.

“Sono bloccata dalla paura” risponde Miriam.

“Paura di cosa?” chiedo io.

“Ma di fare la scelta sbagliata, ovvio”.

 Io: “Credo si tratti piuttosto della paura di morire”.

Lei: “Addirittura?! Ma cosa c’entra, mica andrei al patibolo!”.

“Eh no – le spiego – ma ogni scelta implica la capacità di lasciar andare qualcosa (quel qualcosa che non scegliamo). E, in fondo è come veder morire un pezzetto di noi. Detto in altri termini: ti fa paura rinunciare al senso di sicurezza che ti dà il mantenere le tue abitudini, le tue routine e il tuo senso di dominio sulla realtà che conosci. Una scelta non è tanto, almeno per le questioni affettive o emotive, un fatto di costi e benefici, un bilancio ragionato dei pro e dei contro. È un atto di fiducia. In se stessi e nella vita. E per vivere appieno bisogna far pace con la paura della morte, delle varie morti: i dolori, gli abbandoni, le lontananze, le trasformazioni. Perché fanno parte inevitabile della vita. La vita esiste in copresenza alla morte”.

“E quindi? Cosa devo fare?” ribatte attonita Miriam, che vuole andare dritta al sodo.

“Non devi fare niente. Devi stare. Stare con quello che provi senza farti sopraffare. Hai paura? Sentila nel corpo, lasciati attraversare dal senso di debolezza, dal tremore, magari dalle lacrime. Non cercare di negarla o di “farci” qualcosa, di allontanarla o di giudicarla. Semplicemente vivila. Fallo adesso. Immagina di aver risposto positivamente a Dario: andrai a vivere con lui. Cosa provi?”

Miriam: “Mi sento agitata, un nodo alla gola, mille pensieri…”

“Lascia andare i pensieri e stai solo con le sensazioni: il nodo alla gola…”

“Sì…mi si stringono anche le budella…”. Dopo qualche istante Miriam aggiunge “Però ora meno, se non seguo i pensieri le sensazioni spiacevoli se ne vanno…”.

“Ecco – dico io – adesso prova a immaginare di avergli detto di no. Cosa senti?”

“Un po’ di tristezza, come se avessi perso un’occasione…mi viene da piangere quasi. Sì però se poi le cose vanno male rimpiangerò per sempre di aver fatto questo errore!”.

“Ma quale errore? – le chiedo – Se prendiamo una decisione sulla base del nostro sentire, in un preciso momento della nostra vita, come potrebbe essere un errore? Quello che proviamo non è sbagliato, e se agiamo in coerenza col nostro sentire non potrà mai essere un errore. Perché avremo seguito una parte autentica di noi. Se poi questa parte evolverà in modi cosiddetti positivi o negativi non lo possiamo sapere. Ma almeno sapremo di aver agito in totale sintonia con la nostra essenza.

Non stiamo parlando di gesti impulsivi, ma di una scelta basata su un sentire accolto, ascoltato.”

Ciò che ci blocca è il vano tentativo di controllare qualcosa che non possiamo controllare. Fare delle scelte, cambiare, implica sempre saper lasciare andare qualcosa, parti di noi. Non possiamo rimanere immutabili nel tempo e nelle circostanze. Vivere è anche un po’ morire, ogni giorno, dal giorno in cui nasciamo. Per questo dico sempre che quando abbiamo paura di fare delle scelte, in quel frangente oppone resistenza la parte di noi che vorrebbe l’immutabilità. Ma l’immutabilità non esiste, neanche nella morte. Tutto si trasforma. Accettarlo è accettare il fluire e la pienezza della vita.

Esistono emozioni “sbagliate”?

Molto spesso mi capita di confrontarmi, con le persone che fanno dei percorsi con me, sul tema delle emozioni “giuste” o “sbagliate”. Ricordo, tra le tante esperienze cliniche, una donna che, pur essendo molto infelice all’interno della relazione con il marito, mi chiedeva di “aggiustarla”, ritenendo che ci fosse qualcosa di sbagliato in lei, per permetterle di cambiare il suo sentire e continuare a vivere, però felicemente, con il marito. La sua convinzione circa la difettosità delle sue emozioni, e il desiderio di “sistemare” quel qualcosa che non andava in lei erano così radicati  che mi ci volle molto tempo per farle capire che la sua era una richiesta impossibile.

Perché? Perché non si possono pretendere le emozioni. O i sentimenti. Né da se stessi, né dagli altri.

L’emozione, o ancora prima una sensazione che ci arriva dal corpo, è un messaggio. Su noi stessi. È la saggezza della nostra Anima che, attraverso il linguaggio involontario e incontrollabile del corpo, vuole inviarci un segnale, un messaggio su ciò che è buono o meno buono per noi. Pretendere che non sia così sarebbe come arrabbiarsi per il fatto di provare caldo, freddo, fame, o non accettare che ci scappi la pipì. Possiamo certamente indispettirci, ma ciò non farà sparire quella sensazione, e con essa il messaggio che porta, il bisogno che esprime.

Ma se qualcosa ci fa stare male, che fare dunque? Ascoltare. E provare ad accogliere il messaggio che ci arriva; non scappare, prenderci la responsabilità di quello che siamo, non forzandoci ad essere qualcosa di diverso, perché prima o poi i nodi arriveranno al pettine…

Nel caso di Lorena, la donna che ho citato in precedenza, la “resa” fu tutt’altro che semplice. E parlo di resa, non di rinuncia. La resa ha a che fare con l’accettazione di quello che c’è. Non significa rassegnazione, ma disponibilità a stare nel flusso che la vita ci offre e, stando in quel flusso, trovare il nostro modo migliore per starci, per lasciarlo scorrere dentro di noi e andare avanti, andare oltre, verso ciò cui la nostra Anima è chiamata per esprimere al meglio se stessa.

Lorena era mortificata per il fatto di non provare più niente per il marito, una persona buona, generosa, amabile. Eppure lei, che lo aveva sposato proprio apprezzando le qualità di integrità e onestà che vedeva in lui, non poteva fare a meno di notare che, nel tempo, in quella relazione si era spenta sempre di più, fino a non provare più niente, né per lui né per nient’altro.

Sposarlo aveva voluto dire trasferirsi con lui dalla sua città natale, in campagna, alla periferia di Milano, tra palazzoni di cemento e rumore. Aveva voluto dire forzarsi a fare un lavoro che detestava, rinunciare ai suoi sogni. Aveva accettato tutto questo per quello che credeva fosse l’amore. Ma nel tempo ha realizzato che il rapporto con il marito non le bastava. Nel tempo ha sperimentato che il legame con quest’uomo, a cui voleva sicuramente bene, si era trasformato da un iniziale entusiasmo a una tiepida convivenza. Ogni elemento vitale si era spento. E la ricerca di Lorena di voler tornare ad amare il marito si trasformò, poco a poco, nel tentativo di tornare ad amare se stessa, di riprendere il contatto con il suo sentire, con i suoi desideri, con la sua essenza.

Questo percorso, partì proprio da un indispensabile cambiamento di atteggiamento: l’abbandono del giudizio rispetto a ciò che provava e il recupero di un’attitudine curiosa e benevola verso ciò che il corpo tentava di esprimere.

Ogni emozione è “giusta”. O meglio, abbandonando il registro morale, sarebbe più utile dire che ogni emozione è significativa, ci parla di noi. Abbiamo imparato a ignorare, reprimere o addirittura distorcere le nostre emozioni, ma il nostro corpo, il nostro migliore alleato, non si arrende, e – se non viene ascoltato – alza la voce, grida…

“Non posso lasciarlo andare…”

Storia di un lutto difficile

La prima volta che incontro Franca vedo una donna sulla sessantina molto provata, trascurata, visibilmente schiacciata da un dolore sopraffacente.

Mi racconta la sua storia, o meglio quella del figlio Enzo, morto di infarto più di un anno e mezzo fa. Franca mi narra, con dovizia di particolari, la sera di quel drammatico giorno in cui il figlio è stato male, mentre erano a casa del secondogenito, Luca. Ripercorre, istante per istante, quel tragico evento, come se lo stesse rivivendo davanti ai miei occhi. Accolgo le sue parole e il suo dolore e cerco di avere ulteriori informazioni su Enzo, la sua vita, il rapporto tra loro.

Franca mi racconta una storia di sofferenza psichica, di depressione e di abuso di sostanze da parte di Enzo, che viveva ancora con loro. Mi dice del proprio amore sconfinato per il figlio, dei rimpianti per non aver saputo fare di più per lui, del dolore straziante che, da un anno e mezzo a questa parte, le impedisce di dedicarsi ad altro, di riprendere in mano la propria vita, di godersi gli affetti del marito e del secondogenito, da poco sposatosi.

I nostri colloqui, per diversi incontri, si ripetono più o meno allo stesso modo: con Franca che ripercorre, ossessivamente e drammaticamente, quella sera “maledetta”. Non riesce a farsene una ragione: torna e ritorna in modo rigido e angoscioso a “rivedere” quello che è successo, e a rimuginare su che cosa lei e i suoi familiari avrebbero potuto fare di diverso. I suoi sensi di colpa sono opprimenti, e a nulla valgono i miei tentativi di farla defocalizzare dai pensieri giudicanti su di sé e sul resto dei suoi cari, colpevoli quanto lei di non aver potuto prevedere né gestire diversamente il terribile evento.

Decido quindi in parte di assecondare la sua attitudine a voler stare su quel momento e in parte di spostare il focus sulle emozioni. Le domando quale sia stato il momento peggiore per lei, l’immagine più intollerabile. Franca confessa che l’istante più doloroso da ricordare, oltre al momento in cui i soccorritori hanno dichiarato il decesso, è stato un momento precedente in cui Enzo, alzatosi dalla poltrona, ha barcollato. Cogliendo tutta l’emozione che arriva a Franca, decido di approfondire la cosa e le chiedo che cosa stia sentendo Franca in questo momento, mentre mi racconta questo particolare.

Franca scoppia in un pianto disperato e mi confessa di essere sopraffatta dalla vergogna e dai sensi di colpa perché ricorda che, in quell’istante, lei aveva provato rabbia per Enzo. Perché credeva che avesse di nuovo bevuto troppo, perché per l’ennesima volta avrebbe rovinato quella riunione familiare, perché non era in grado di prendersi cura di sé…Parole che non aveva mai confessato a nessuno, non potendo lei per prima accettarle. Invito Franca a dar voce, con tutta se stessa, a questa rabbia, a dire le cose che non ha mai detto, e valido le sue emozioni, riconnotandole come legittimi messaggi del suo sentire, che nulla hanno a che vedere con l’amore – indiscusso – per il figlio.

L’emozione indicibile di rabbia è uno degli elementi che ha impedito a Franca di elaborare il lutto e che l’ha “bloccata” nella sofferenza e nella prostrazione. Un training per sviluppare un’attitudine non giudicante e compassionevole verso di sé e un percorso di elaborazione del lutto hanno permesso a Franca di iniziare a far pace con i propri sensi di colpa e di lasciare andare, finalmente, il figlio, incominciando ad accettare l’accaduto.

Cos’è quello che sento? Alfabetizzazione emotiva

Spesso succede che le persone non abbiano chiaro il proprio vissuto, che viene spesso identificato con un generale senso di malessere o di stress. Eppure, al di là del mero esercizio intellettuale di etichettare le nostre emozioni, capire ciò che ci accade è fondamentale per capire chi siamo, cosa vogliamo, e che cosa è meglio per noi. Ecco un esempio.

Tiziana mi racconta che, rispetto alle modalità educative di sua madre, quello che prova e che ha sempre provato, è rabbia. Ma me lo dice in un modo poco convincente, quasi rassegnato. Una qualità del sentire che ha poco a che fare con l’energia della rabbia. Ecco allora che decido di esplorare, col suo consenso, questa emozione.

“Esattamente, Tiziana, cosa senti nel corpo quando pensi a certi modi di porsi di tua madre?”

“Qualcosa nelle braccia…ma più che altro un peso al petto. È come se mi si stringesse qualcosa, nella zona del cuore, fa male…”

Chiedo a Tiziana di rimanere in ascolto di quella sensazione, tenendo l’attenzione su di essa e notando ciò che accade.

Tiziana, a un certo punto, mi dice che sta salendo qualcosa, e prima che possa finire la frase scoppia in un pianto violento, disperato, dirompente. La accompagno e la sostengo mentre si lascia attraversare da questa onda emotiva che, piano piano, si quieta, e la lascia spossata, incredula.

Mi guarda, con aria interrogativa.

“Direi che questo non ha molto a che fare con la rabbia, che dici?”

Tiziana ride e si rende conto: non si era mai permessa di ascoltare davvero quell’emozione e, men che meno, di esprimerla.

Rimando a Tiziana che, a volte, riconoscere e ascoltare la tristezza è molto penoso. A volte ne abbiamo anche paura. Ecco allora che “raccontarci” che quel malessere che sentiamo è “rabbia” è più tollerabile, perché la rabbia è un’emozione più attiva, anche culturalmente più valorizzata nel nostro contesto.

Il vero vissuto di Tiziana ce lo ha potuto raccontare il corpo più che la testa: un profondo senso di dolore, collegato alle ferite ricevute, che Tiziana non si è mai concessa di ascoltare, di legittimare. Tiziana si diceva, “di testa”, di soffrire per il rapporto conflittuale con la madre, ma non ha mai attraversato quel dolore.

Poterlo sperimentare oggi le ha permesso, finalmente, di riconoscere e reintegrare una parte di sé negata. E questo le ha fatto sperimentare un profondo senso di interezza, di libertà. In secondo luogo, l’aver attraversato la sua sofferenza, le ha restituito un senso di potere personale: non ne è stata sopraffatta, come implicitamente temeva, ma ha potuto contenerla.

La difficoltà di Tiziana di ascoltare e accogliere il suo sentire è qualcosa di molto comune oggi. E rimanda a una carenza di “alfabetizzazione emotiva”: un vero e proprio mancato apprendimento del linguaggio del nostro corpo. Ma come e quando dovremmo apprendere questo linguaggio?

Fin dai nostri primi giorni di vita, e per tutta l’infanzia, quando gli adulti di riferimento hanno il ruolo, fondamentale e delicatissimo, di cogliere, dare significato e rispecchiare al bambino i suoi vissuti, fisici e mentali. Se questa funzione è carente, perché magari a loro volta i genitori non ne hanno fatto adeguata esperienza, viene meno la sintonizzazione emotiva tra genitori e bambini. E i figli non potranno che crescere ignorando e fraintendendo un linguaggio, quello del loro corpo, delle sensazioni, che è in realtà la bussola del nostro benessere.

Dalle parole al sentire: l’esperienza curativa del “cavalcare” la propria rabbia

“Dottoressa sono disperata, ho bisogno urgente di un parere, non so più cosa fare, sono tormentata, da troppo tempo. Se non parlo con qualcuno divento matta. Non so più cosa fare”.

Sara mi chiede in questo modo il primo appuntamento, trasmettendomi tutta la sua agitazione e angoscia. Il modo concitato di parlarmi, e l’urgenza, mi fanno sentire una costrizione al petto, come se avessi qualcosa che, dall’esterno, mi opprime e non mi permette di respirare.

Tenendo presente questa mia reazione, la incontro di lì a qualche giorno.

La stessa sensazione mi si ripresenta durante il nostro primo colloquio: Sara è visibilmente scossa e mi racconta in modo concitato, inondandomi di parole, del suo problema. Una situazione familiare che la sta logorando, che ha sopportato per anni ma che ora non riesce più a tollerare.

“Non so più come gestire la situazione: mia suocera, che vive sotto di noi, mi sta facendo diventare matta e io non so più cosa fare. Non perde occasione per umiliarmi e attaccarmi, e io mando giù…mando giù…ma adesso ci sono dei momenti in cui avrei l’istinto di farle del male. Ho paura di me stessa, non so più che fare…”

Mentre Sara incomincia a raccontarmi nei dettagli le angherie della suocera, tutte le occasioni in cui ha dovuto ingoiare la propria rabbia, la mia sensazione di oppressione al petto cresce. Il fiume di parole che sgorga da lei sembra non avere fine, in un susseguirsi di memorie, considerazioni, dubbi e domande. Dopo aver ascoltato alcune testimonianze della faticosa esperienza di Sara con la madre di suo marito, decido di arginare quella marea di pensieri e parole.

“Sara, mentre mi racconta questi episodi, cosa sente nel corpo?”

Sara, quasi contrariata per il fatto che io l’abbia interrotta, mi guarda con perplessità:

“In che senso cosa sento? Penso che non sia giusto, che non mi merito questo trattamento…”

La interrompo di nuovo, e il suo disagio sembra crescere: “Non le ho chiesto cosa pensa, ma cosa sente”. Il volto interdetto di Sara mi comunica tutto il suo smarrimento.

“Vede – le spiego – ascoltando i suoi racconti io ho sentito crescere in me un senso di oppressione al petto che quasi mi ha tolto il respiro. E questo solo ascoltando, seduta di fronte a lei, la sua esperienza. Mi chiedo come sia essere al suo posto, cosa stia accadendo dentro di lei in questo momento, cosa percepisca nel suo corpo. Vorrei davvero che per un istante lei portasse l’attenzione su questo aspetto.”

Sara, dopo un primo momento di evidente disorientamento, quasi di irritazione, comprende: gli occhi le si riempiono di lacrime, cerca con la schiena l’appoggio della poltrona e con voce rotta mi dice “Non mi capita spesso di fare attenzione a questo genere di cose. Non saprei cosa dire…sento tanta rabbia, ma non posso certo ammazzare mia suocera…”.

Chiedo a Sara uno sforzo ulteriore: se dovesse immaginare di descrivere che cosa sta provando lei in questo momento a una persona che non conosce il significato della parola rabbia, cosa direbbe?

“Un calore alla gola, una specie di formicolio alle braccia, alle mani, come qualcosa che mi si muove dentro”.

Chiedo a Sara di continuare a mantenere l’attenzione su queste sensazioni, come a volerle amplificare. Sara sente aumentare l’energia dentro di sé, serra i pugni, sente un grido nascere dalle viscere. La accompagno nell’esperienza di ascolto e nella sperimentazione dello stare con la sua rabbia, di darle espressione, attraverso il corpo, così come non aveva mai fatto prima.

Quando l’energia nel suo corpo torna a livelli più moderati, Sara si sente sollevata, come liberata da un peso. E senza che io debba spiegarle nulla, commenta: “Certo che se dessi ascolto in questo modo a quello che mi succede, probabilmente non accumulerei tanta rabbia e frustrazione. Se penso adesso a mia suocera mi fa quasi compassione…ma credo che non le permetterò più di trattarmi in un certo modo…”