Al di là della ragione

Vorrei utilizzare questo spazio per portare l’attenzione su un meccanismo tanto diffuso quanto preoccupante, che si gioca nelle questioni umane ad ogni livello: intrapsichico, interpersonale, familiare e sociale. Si tratta di un funzionamento per lo più inconsapevole che ci riguarda tutti in quanto esseri umani.

Sto parlando del bisogno di controllo. E delle strategie che ne conseguono.

La mente umana – almeno nella sua parte razionale – è programmata per avere il maggior controllo possibile sulla realtà, per poterla prevedere, dominare, direzionare a proprio vantaggio.

Cosa c’è di male in questo? Nulla, se non fosse che troppo spesso dimentichiamo che “la mappa non è il territorio”, ovvero che la nostra interpretazione del reale rimane una semplice possibilità, che nulla ha a che fare con la realtà “vera”. Cosa che ormai la fisica quantistica sta ampiamente divulgando.

In che modo questo impatta sulle nostre esistenze? In un modo drammatico, se non si rimane consapevoli di quanto appena affermato. Perché il rischio, come ben si osserva di questi tempi, è quello di convincersi che la propria interpretazione della realtà (bianca o nera che sia, poco cambia) sia quella oggettiva, quella vera, quella comprovata da queste o quelle prove, quella inconfutabile, perché basata su ragionamenti validi e inattaccabili. Perdendo di vista il fatto che trattasi, in ogni caso, di un nostro tentativo di incasellare in categorie accettabili, gestibili, un flusso complesso e spesso imprevedibile di elementi.

Da dove arriva questo bisogno di controllo?

Dalla paura. Dal timore di non conoscere, di non saper dare spiegazione, di non poter tollerare l’emozione che deriverebbe dal semplice esporsi alla vita senza bisogno di etichettarla, di manipolarla, di piegarla ai nostri bisogni.

Ecco allora che, a livello individuale, ci rifugiamo nell’iper-razionalità per non sentire il dolore o il vuoto o la tristezza. E magari proiettiamo sul “fuori” ciò che non riusciamo a tollerare “dentro”.

A livello interpersonale e familiare sono note a tutti le strategie di controllo. Per fare un esempio: il/la partner deve essere monitorato a stretto giro perché non sarebbe sopportabile confrontarsi con l’incertezza del legame e con l’imprevedibilità dell’altro.

O, più sottilmente, si accusa l’altro di qualcosa che non si riesce ad accettare di sé stessi. Si tratta del meccanismo della proiezione. Che cosa ha a che fare questo con il controllo? Per dirla semplicemente: è una strategia di salvataggio rispetto a contenuti personali inaccettabili, che quindi – venendo espulsi e rigettati sull’altro – garantiscono l’incolumità del nostro sistema. Obiettivo di (auto)controllo riuscito.

A livello familiare, i tentativi di autonomia, sperimentazione e desiderio di espressione personale dei figli possono essere letti come minacce sovversive di infrangere le regole del buon vivere parentale. Ogni comportamento “non previsto” rischia di essere biasimato o additato come anomalia dal quadro precostituito che la mente dei genitori aveva partorito.

E a livello sociale? Si ricrea in grande ciò che accade nel piccolo. Sono evidenti oggi più che mai i tentativi dell’essere umano di avere pieno controllo della realtà esterna. Senza che ci sia la consapevolezza dei numerosi bias cognitivi (ovvero errori inconsapevoli di ragionamento e valutazione) cui la mente razionale va incontro: si tratta di “scorciatoie mentali” che altro scopo non hanno se non quello di rendere ancora più facile e veloce l’elaborazione della realtà. Senza che si consideri come anche – direi soprattutto – le nostre emozioni giochino un ruolo fondamentale nei nostri processi interpretativi.

Il nostro cervello ha bisogno di prevedere e controllare la realtà e si illude di poterlo fare. Si illude? Eh sì, perché con la ragione si può – ed è sotto gli occhi di tutti – argomentare tutto e il contrario di tutto. Andare avanti all’infinito. Basterebbe accettare il fatto che ognuno ha una visione SOGGETTIVA delle cose, e che esistono tante realtà quanti sono gli esseri umani. Basterebbe – si fa per dire – riuscire a tollerare il diverso punto di vista, e la propria incertezza. Basterebbe, e oggi sembra fantascienza, riuscire a stare con il proprio sentire più che rifugiarsi in convinzioni e argomentazioni cerebrali. Ché pure la tanto osannata scienza dà per scontato oggi che le caratteristiche del sistema siano strettamente correlate all’osservatore che guarda.

Cosa assai rara, oggi, è riuscire a stare in contatto con la propria vulnerabilità, con le proprie paure, con l’imprevedibilità della vita e delle emozioni con cui la vita stessa ci mette in contatto.

Se si rinunciasse ad avere RAGIONE e si imparasse a navigare nel proprio SENTIRE staremmo tutti meglio: individui, coppie, famiglie e società.

La sospensione del giudizio

Che cosa ha a che fare un concetto che può sembrare squisitamente filosofico – la sospensione del giudizio, per i greci “epoché” – con il benessere emotivo? Tutto.

Mai come oggi osservo quanto le categorie del mentale (il giusto e lo sbagliato, il bene e il male, il senso del dovere, il buono e il cattivo, ecc.) portino a saturazione e condizionino il sentire e la condotta delle persone. Arrivando, inevitabilmente, a produrre sofferenza. Una sofferenza dettata dal fatto che, nell’estremo tentativo di controllare una realtà complessa, caotica, contraddittoria, a tratti incomprensibile e spaventosa, l’essere umano si appella allo strumento che, per eccellenza, è vocato al controllo: la mente razionale. Perdendo completamente di vista che il bisogno di analizzare e di governare il mondo interno ed esterno sposta l’attenzione da ciò che, in verità, rappresenta la nostra opportunità di vivere in armonia con noi stessi e con tutto il resto: la presenza attenta, consapevole, l’ascolto non giudicante di ciò che ci accade, istante per istante. L’amplificazione del mentale è qualcosa che, nel nostro tempo, ha acquisito maggiore intensità forse, come dicevo, per un crescente bisogno di controllo a fronte di una realtà via via più complessa; forse perché l’essere umano ha perso, parallelamente, sempre di più il contatto con il suo sentire e con i misteri della vita. Un mentale ipertrofico e ingestibile, a fronte della difficoltà a stare con il proprio mondo sensoriale ed emotivo, ha portato all’esacerbazione di molti disturbi (di tipo ansioso o volti alla ricerca di un’anestesia del proprio malessere).

Le persone che lavorano con me sanno quanto io insista sull’importanza di non identificarsi con (ovvero non credere ciecamente a) i contenuti mentali che hanno come obiettivo quello di classificare e dominare la realtà. Ma gli ambiti in cui si manifesta un tentativo di controllo, di categorizzazione della mente razionale sono più sottili di quanto si possa immaginare.

Elisabetta, che da un anno lavora con me sull’elaborazione di un passato fortemente traumatico, ha ormai imparato a dare ascolto al suo sentire. Ciclicamente, tuttavia, a fronte di episodi particolarmente “stressanti”, le capita di provare un disturbo, sempre uguale: quando avverte un rumore che lei giudica eccessivo, le scoppia un mal di testa debilitante, che la costringe a letto. Elisabetta è consapevole che, probabilmente, se arriva a quel punto è perché non riesce a mettere i suoi bisogni prima di tutto il resto e si forza a vivere situazioni che preferirebbe evitare. Il mal di testa la “autorizza” a prendersi il suo tempo e il suo spazio. Ma, come nell’ultima occasione, ci sono circostanze in cui non può sottrarsi a certi eventi, per varie ragioni. Mi chiede, in questi casi, come possa fare.

La invito a tornare al momento in cui, l’ultima volta, ha percepito il rumore che ha “dato il via” al suo mal di testa. Le chiedo di osservare cosa fa il suo corpo al ricordo di quel momento.

Elisabetta nota che si irrigidisce, si contrae. Come a voler opporre una resistenza al disturbo che arriva dall’esterno. Le propongo quindi di stare in contatto con quel rumore e di sospendere, per un attimo, il suo giudizio. Di non valutarlo come troppo, come eccessivo, come disturbante, ma come una semplice vibrazione, neutra.

Elisabetta si accorge che, se lascia andare il suo giudizio, la vibrazione può attraversarla senza provocare in lei un dolore. Per lei fare l’esperienza di poter tollerare qualcosa che sembrava impossibile accettare è illuminante.

Le rimando che anche nell’atto percettivo c’è una componente cognitiva, valutativa: ciò che i nostri sensi filtrano della realtà esterna è sottoposto in modo implicito, immediato, ad un’analisi, a una valutazione. Se riusciamo ad accogliere ciò che riceviamo il più possibile senza pre-giudizio, possiamo abbattere le nostre resistenze e rendere l’esperienza meno dolorosa, almeno in parte.

Consideriamo insieme che, in effetti, quando non abbiamo alternative e dobbiamo far fronte a un evento che non possiamo modificare, è più utile affrontarlo senza chiusure o con le minori resistenze possibili.

Una vera sfida in un’epoca in cui ciò che va per la maggiore è l’idea di dover prendere “di petto” le situazioni, reagire, combattere, imporre la propria volontà.

Ma, come recita un detto, bisogna aver la saggezza di distinguere tra ciò che possiamo cambiare e ciò che non possiamo cambiare. In quest’ultimo caso, se affrontiamo l’esperienza con accettazione, rinunciando alla nostra mania di controllo, ne trarremo soltanto giovamento.

Abbiamo tutti (anche) un lato oscuro

Spesso ci indigniamo quando qualcuno ci fa un torto o nel vedere i comportamenti di certe persone. A tutti sarà capitato di commentare, rispetto a qualche individuo: “Quello lì non lo posso proprio sopportare!”.

In questi casi agisce la nostra mente, che da una parte ci porta ad identificarci con alcune caratteristiche di personalità; dall’altra giudica gli altri e il mondo in base a certi criteri, acquisiti magari dalla nostra cultura, educazione o morale. È inevitabile, è il lavoro del nostro cervello, nella sua parte razionale, che serve ad analizzare, distinguere, discernere e possibilmente controllare la realtà esterna e interna. Ma l’attività mentale non è finalizzata primariamente al benessere della persona, o almeno non ha questo fine tale tipo di attività mentale. Essa ha lo scopo di mantenere il controllo, possibilmente con il minimo sforzo (da cui la facilità con cui si rischia di cadere in stereotipi, generalizzazioni o errori cognitivi).

Pertanto, quando la mente, il giudizio si impone alla nostra coscienza, abbiamo due possibilità: credergli – vale a dire ritenere che ciò che si esprime nel pensiero sia vero, sia la VERITA’ – o semplicemente osservarlo come un prodotto della nostra mente. Se riusciamo a disidentificarci dal contenuto dei nostri pensieri, essi cominciano ad assumere un valore relativo. Allora, forse, possiamo via via renderci conto che, con gli strumenti della mente, possiamo credere – e argomentare! – tutto e il contrario di tutto. Che l’oggettività è una chimera, più di quanto siamo disposti a riconoscere.

Proseguendo in questo viaggio ai confini della realtà (la nostra realtà mentale), potremmo anche arrivare a mettere in discussione la nostra identificazione con certe qualità che noi riteniamo ci appartengano inequivocabilmente. Potremmo anche chiederci se, a questo punto, persino le caratteristiche che noi detestiamo di più al mondo siano davvero così lontane da noi. In breve, il cammino virtuale partito con il relativizzare il ruolo dei nostri pensieri potrebbe inaspettatamente portarci a considerare che anche ciò con cui più strenuamente ci identifichiamo (e che chiamiamo personalità – da persona, la cui etimologia, guarda un po’, fa riferimento alle MASCHERE con cui gli attori teatrali un tempo calcavano le scene), possa essere più mutevole o complesso di quanto crediamo.

Potremmo scoprire che, forse, le riflessioni degli antichi in merito alla copresenza degli opposti, all’illusorietà della separazione, e alla manifestazione dell’unicità nel molteplice e del molteplice nell’uno forse non sono solo voli pindarici di qualche filosofo farneticante ma hanno un fondamento più che legittimo e di valore.

E quindi? Non è forse anche tutto questo discorso un prodotto mentale?

Potrebbe esserlo, se non avesse un risvolto pratico estremamente importante. E quale sarebbe la ricaduta pratica nelle nostre esistenze? Quella di non considerare come realtà vera e inconfutabile ciò che dicono i nostri pensieri, né in merito al mondo esterno, né in merito al nostro mondo interno.

Cioè?

Per dirla fuori dai denti: siamo proprio sicuri che quando ci identifichiamo con delle qualità che riteniamo ci appartengano, sia proprio così? E se invece quelle fossero solo delle possibilità del nostro modo di essere? Non è invece che in noi ci siano anche delle qualità che rifiutiamo categoricamente di vedere, di accettare, di riconoscerci?

Si dice che gli altri siano il nostro specchio. Ebbene, e se le caratteristiche che non possiamo sopportare nell’altro ci stessero solo rimandando qualcosa di noi? Se la rabbia, l’insofferenza per i tratti di qualcuno fossero così poco tollerabili proprio perché vanno a mettere il dito nella piaga (ovvero nel fatto che quegli stessi tratti facciano parte anche di noi, sebbene non vogliamo ammetterlo)?

Ecco allora un’indicazione pratica che deriva da questa riflessione: ogni volta che ci sentiamo irritati da un comportamento o da una persona, domandiamoci quanto quell’aspetto che critichiamo o che francamente biasimiamo ci possa in realtà appartenere, anche se in forma potenziale. In forma potenziale vuol dire che, a certe condizioni e in certe circostanze, forse anche noi potremmo esprimerlo. Anche se finora magari non è (ancora) successo. E a che scopo fare queste considerazioni?

Per uno scopo importantissimo: relativizzare le nostre credenze e cominciare a renderci conto che davvero le categorie mentali, seppur in tanti casi utili, possono diventare delle gabbie in cui chiudiamo noi stessi. E per iniziare a familiarizzare, sempre di più,  con la consapevolezza che il mondo, la vita, le creature, sono meno separate di quanto pensiamo e avere maggiore compassione per noi stessi e per gli altri, poiché in ognuno di noi è racchiusa la complessità dell’esistenza, nei suoi aspetti più piacevoli e più dolorosi.

L’arte di lasciare andare…ma cosa?

Spesso nel mio lavoro incontro la fatica delle persone nel distogliere lo sguardo – e a volte addirittura la presa – dal passato. Le memorie delle esperienze passate possono incistarsi in modo così profondo, dentro di noi, da impedirci di focalizzare la nostra attenzione al momento presente, che è l’unico realmente esistente.

Se non si lavora su un doppio binario, quello mentale e quello corporeo, il rischio è che uno dei due aspetti possa sabotare l’altro.

Può succedere, infatti, come a Sabrina: dopo decenni di analisi arriva da me sapendo tutto del perché, del per come, del significato simbolico e psicologico dei suoi sintomi, ma non riesce a gestirli lo stesso. Come mai? Il corpo di Sabrina ha appreso delle vie di risposta ormai automatizzate, del tutto inconsapevoli, che lei pur volendo non sa come interrompere. La sua comprensione del suo disagio non è stata sufficiente a risolverlo. Con Sabrina è necessario fare un lavoro di tipo corporeo che le insegni a conoscere e gestire le sue reazioni fisiche (da collegare alla categoria di articoli “ascolto delle emozioni” e alla sezione “Somatic Experiencing”): a volte sapere di dover uscire da un circolo vizioso senza sapere come farlo praticamente, può essere un grosso problema. Sabrina ha dovuto apprendere e rinforzare nel tempo nuovi circuiti di risposta, partendo da un profondo lavoro di ascolto e di conoscenza dei suoi vissuti corporei.

Oppure può accadere come a Massimo: è tutto testa, tutto pensieri, spende la maggior parte del suo tempo in rimuginazioni. Pensa, pensa, ripensa ma non trova mai il bandolo della matassa.
Massimo ha sentito spesso parlare dell’importanza di andare oltre, del lasciar andare…ma lasciare andare cosa?? Non ha mai capito che cosa dovesse lasciar andare, ed ecco che la macchina del suo pensiero ha trovato un altro argomento su cui elucubrare, all’infinito…

Un aneddoto che utilizzo spesso con questo tipo di persone, per cui è prioritario “placare” la fame di razionalità, è il racconto della zattera del Buddha:
“Supponiamo che un uomo sia di fronte ad un grande fiume e debba attraversarlo per raggiungere l’altra riva, ma non c’è una barca per farlo; cosa fa? Taglia alcuni alberi, li lega insieme e costruisce una zattera. Quindi si siede sulla zattera e usando le mani o aiutandosi con un bastone, si sposta per attraversare il fiume. Una volta raggiunta l’altra sponda cosa fa? Abbandona la zattera perché non ne ha più bisogno. Quello che non farebbe mai, pensando a quanto gli sia stata utile, è caricarla sulle spalle e continuare il viaggio con lei sulla schiena.”.
La riva da cui partiamo e quella su cui approdiamo rappresentano un punto di partenza e uno di arrivo. La zattera è il simbolo di tutto ciò che serve per passare da uno stato all’altro. Una volta raggiunta la riva opposta non ha senso tenersi stretti ciò che è servito per arrivarci, potrebbe essere solo un inutile peso. Lasciar andare, quindi, si riferisce alla possibilità di non ancorarsi rigidamente a strumenti, strategie, modalità che abbiamo utilizzato – pur con successo – nel passato ma che ci impediscono di sviluppare appieno il nostro potenziale nel presente. Rimuginare è un modo per tenersi la zattera.

Massimo, così logico e rigoroso, al sentire questo aneddoto ha fatto un sobbalzo.
“Eh già…non fa una piega…ma come fare?”. Ancora una volta rispondo: “Come fare lo vedremo assieme”.