Il tradimento: un atto che richiede ascolto

Eleonora e Stefano mi contattano in un momento di grande conflittualità coniugale. Sono sposati da più di 15 anni, hanno una bella bambina e sono andati tutto sommato d’accordo fino a che, qualche anno fa, lei lo ha tradito. Con un collega di lavoro. Da allora il loro rapporto si è incrinato e sono arrivati a un punto di grande sofferenza e confusione, tanto da chiedere il mio aiuto.

Quando li incontro, Eleonora mi appare subito come “l’anima trainante” della coppia, così come del colloquio. Estroversa, emotiva, passionale, mi racconta di come lei sia arrivata a cercare in un’altra persona qualcosa che da tempo non sentiva più con suo marito: l’essere desiderata, cercata, il sentirsi al centro dell’attenzione e dell’interesse di un uomo. “In effetti è sempre stato così, lui”, mi confessa Eleonora: “poco affettuoso, poco espansivo. Ma prima ero io a prendermi quello di cui avevo bisogno: una coccola, un bacio…poi a un certo punto ho smesso, forse mi sono stancata, e ogni tenerezza tra noi è svanita”.

Stefano ammette che sia andata proprio così. Lui non è tipo da “troppe smancerie”, dice. È pratico e dimostra il suo amore più con i fatti che con le parole. Non sa perdonare davvero la moglie, da cui oggi si sente molto distante, ma non sa nemmeno se la separazione sia la soluzione giusta. Di certo, rispetto a questo, è fortemente condizionato dai sensi di colpa che avrebbe verso sua figlia e da un senso del dovere che lo tiene inchiodato in quella casa.

Mi chiedono aiuto rispetto al cosa fare, a che decisione prendere.

Da subito rimando loro che non potrò certo sostituirmi a loro in questa decisione o condizionarli in un senso o nell’altro. Ma potrò aiutarli a comprendere meglio quanto è successo, a capire il significato che per ciascuno di loro ciò ha rappresentato e, di conseguenza, a metterli maggiormente in contatto con se stessi e con ciò che desiderano profondamente.

Definisco il tradimento un “atto della coppia” più che un’azione individuale e, in quanto manifestazione finale di una “rappresentazione” messa in scena da entrambi i partner, come tale coinvolgerà, nel tentativo di comprensione profonda e di eventuale superamento dell’accaduto, sia lui che lei.

Il tema del tradimento è antico come il mondo. Le narrazioni mitologiche e bibliche, infatti, sono intrise di tradimenti, inganni, atti sleali e infedeltà. Come superare il dolore, la ferita che un adulterio, o un più generico voltafaccia o imbroglio può generare in quella che viene definita vittima? Forse proprio dall’immaginario archetipico possiamo trarre qualche suggerimento.

I personaggi mitologici che ci possono arrivare in aiuto sono, da una parte, Apate (figlia di Notte), personificazione dell’inganno, uno degli spiriti contenuti nel vaso di Pandora, che racchiudeva tutti i mali; dall’altra Mercurio, nella tradizione romana – o Hermes, in quella greca – dio dell’inganno oltre che messaggero degli dei e accompagnatore delle anime negli inferi.

Entrambi hanno a che fare con le forze oscure, hanno una connessione con aspetti celati, misteriosi e per certi versi inquietanti della vita. Ci ricordano che, per superare – o forse sarebbe meglio dire integrare – il tradimento, è necessario entrare in contatto con il mondo ctonio, degli inferi.

Cosa significa tutto questo? Vuol dire contemplare nella nostra visione delle cose, della vita, delle relazioni, che c’è una parte – di noi stessi e dell’altro – mossa da impulsi irrazionali, dirompenti, che si possono manifestare al di là del nostro controllo razionale.

Per Stefano questo vorrà dire reintegrare in se stesso le parti emotive che, da sempre, ha demandato a Eleonora, portatrice dell’affettività e della vitalità della coppia. Veicolo di istanze di tenerezza e di accudimento. Quelle istanze che, con la nascita della figlia, ella ha comprensibilmente reindirizzato a quest’ultima, contattando però, da quel momento, un silenzio affettivo, una mancanza di presenza da parte del marito.

Eleonora, a propria volta, sarà chiamata a comprendere meglio il suo bisogno simbiotico di amore. Che l’ha portata a scegliere un uomo non tanto per la sua capacità di essere un adulto alla pari con lei, ma per la sua predisposizione ad offrirsi come “la metà” che lei da sempre cercava per sentirsi intera, e senza il quale intera non si sente.

Sarà un lavoro che farà scendere negli inferi entrambi, ma del resto non è possibile ricucire i lembi di una ferita tanto grande senza fare prima un lavoro, seppur doloroso, di pulizia. Non c’è una vittima e non c’è un carnefice; ci sono due anime che hanno perso il contatto con se stesse. E la pulizia, nella sua accezione di far tornare a risplendere, è ciò che è necessario perseguire con ciascuno dei due.

La funzione “specchio” dell’Altro

Simona è un ragazza sulla trentina con cui ho fatto un importante percorso che l’ha condotta, da una struttura profondamente ossessiva, ad una possibilità di espressione di sé e di esplorazione sufficientemente sicura e curiosa del mondo. Tanto che, dopo un lungo periodo di “congelamento” affettivo, si è innamorata di un uomo. Simona è consapevole che non si tratta della cosiddetta “persona giusta” per lei: si tratta di un uomo che si potrebbe facilmente descrivere come un narcisista. Fortemente centrato su di sé, bisognoso di continue conferme della propria presunta eccezionalità, poco stabile emotivamente, in grado di farla oscillare tra abisso ed estasi. Eppure è successo, ne è caduta vittima. Non sa spiegarsi come sia stato possibile, ma è proprio ciò che è avvenuto.

 “Anni di lavoro personale sembra che non siano bastati – mi dice affranta un giorno – a farmi capire cosa è giusto e cosa è sbagliato per me”.

Mi fermo, la fermo.

“Non è questo il nostro scopo, Simona. L’obiettivo di un lavoro personale non è evitare le vicende della vita, ma viverle con sempre maggiore consapevolezza e affrontare le proprie paure, i propri demoni. Ascoltare ciò che le emozioni ci dicono e farne tesoro per entrare in contatto con la nostra Anima. Se ti sei innamorata, non lo hai scelto: è successo. E se è successo puoi imparare qualcosa.”

Simona di fronte a queste mie parole sembra un po’ confusa.

“Tutto quello che ho capito di me, delle relazioni, però, non mi ha impedito di cadere in questo pasticcio. Allora a cosa è servito?”.

Rimando a Simona che la cosa più importante che lei abbia fatto, in questo suo percorso, non è tanto “capire”. Certo, questo è stato qualcosa che ha placato dubbi e domande mentali. Ma la cosa più preziosa che lei abbia fatto è stato imparare a NON vivere solo attraverso le categorie mentali, che la imprigionavano in un labirinto senza fine. Ma a riscoprire il valore delle emozioni, il modo di ascoltarle e di lasciarsi attraversare da esse. Evidentemente questa esperienza le serve per affrontare qualche altro aspetto di Sé, per far evolvere ulteriormente la sua consapevolezza, per liberare sempre di più la sua Anima. La invito quindi a vivere questa vicenda con gli occhi della coscienza ben aperti, con attitudine di ascolto più che di comprensione.

Passa qualche settimana, durante la quale Simona mi racconta le difficili vicissitudini della relazione con quest’uomo.

Un giorno, Simona arriva in seduta visibilmente provata ma quieta, serena.

“Ho visto”. Mi dice. “Qualche giorno fa è successa una cosa incredibile. Ero con lui. Stava facendo sfoggio, come suo solito, delle sue qualità, della sua bravura in campo lavorativo. Ma, ad un tratto, i suoi occhi si sono quasi intristiti. Come se anche la parte più profonda di lui sapesse che quello di cui mi stava parlando, di cui si vantava, non contasse realmente molto. Come se non bastasse. Come se non fosse sufficiente a colmare quel suo senso di vuoto interiore, quel bisogno incommensurabile di amore, di riconoscimento.

Era come se, nella connessione con quel suo vissuto, potessi sentire tutta la sua emozione. E a un certo punto tutto mi è stato chiaro: il suo dolore, il suo bisogno, era il mio. Identico, ugualmente divorante, disperato. Lui lo aveva “coperto”, nella sua vita, con quella maschera da superuomo. Io ingabbiandomi per anni nei miei pensieri, nelle mie distorte convinzioni e nei miei autosabotaggi. Lui aveva messo sopra la sua ferita uno schermo fittizio di grandiosità. Io invece, in quella ferita, ci ero caduta dentro trovando dei “persecutori” esterni a cui dare la responsabilità della mia infelicità. E facendo di tutto per non sentire quell’abisso interno. Ma sia io che lui abbiamo, dentro, quell’abisso. Siamo due facce della stessa medaglia. Ecco il senso che ha il suo ingresso nella mia vita. Dovevo contattare questo. E ora mi trovo a sentire la mia ferita. In parte è cicatrizzata, ma in parte no. Dovevo tornare lì e lasciare che tutta l’emozione che questa esperienza mi “bruciasse” dentro. Per darmi l’energia di andare oltre.”.

Simona usa ormai, nella stanza dei colloqui, un linguaggio condiviso. Ha compreso appieno il senso del suo lavoro e del processo di cambiamento. Il suo lavoro personale non le risparmierà i dolori e le difficoltà, ma sempre di più andrà nella direzione di ricontattare la sua vera essenza, di sanare gli antichi dolori, per poter liberare la sua Anima, lasciarle lo spazio di esprimersi e di riconnettersi con il senso ultimo, sacro della vita.

La relazione con un narcisista

Ilenia è una donna sulla trentina, con alle spalle diverse relazioni finite male. Non essendo nuova al lavoro personale ed essendo appassionata di temi di psicologia, ha una certa cultura e una certa consapevolezza rispetto al fatto che nelle relazioni si giochi una parte importante di noi, di quello che abbiamo interiorizzato rispetto a noi stessi, agli altri e al rapporto con il mondo. In breve, Ilenia conosce i concetti fondamentali della teoria dell’attaccamento e quindi non si scompone all’idea che, nei rapporti affettivi, lei si avvicini a uomini che, per qualche aspetto, corrispondono a propri bisogni più o meno consapevoli e con i quali lei rimette in gioco vecchi schemi, appresi con le sue figure affettive originarie, ovvero con i suoi genitori.

Non si spiega, tuttavia, come sia possibile che lei, sensibile, altruista, anche un po’ timida, sia cascata, ultimamente, nella rete di quello che riconosce essere un narcisista, pieno di sé, spavaldo, autocentrato e assolutamente contraddittorio nella relazione con lei. Ammette che quest’uomo ha un aspetto carismatico, affascinante, di persona sicura di sé, a cui lei non è stata insensibile. Ma conoscendolo meglio ha potuto entrare in contatto anche con tutto il resto: i cambi repentini di atteggiamento nei suoi confronti, la freddezza e il distanziamento improvvisi, apparentemente immotivati, la sottile manipolazione, la svalutazione, la colpevolizzazione e molto altro ancora. Poco per volta Ilenia ha capito con che soggetto avesse a che fare: un narcisista fatto e finito!

Pur comprendendo razionalmente le dinamiche in cui si è trovata invischiata, Ilenia non riesce a capacitarsi del coinvolgimento emotivo che, tuttora, prova nei confronti di questa persona. C’è una parte di lui, quella più fragile, bisognosa, che emerge ogni tanto, e che ogni volta la fa capitolare.

Propongo a Ilenia di riflettere su questo punto: se è vero che in ogni persona possiamo riconoscere parti di noi stessi, e proprio quelle più intollerabili dell’altro dicono di parti inaccettabili di noi, cosa le racconta di sé la parte narcisistica di quest’uomo? La invito a partire, in questa esplorazione, dal sentire. Ovvero di focalizzarsi sull’aspetto di questa persona che è più difficile da accettare per lei e notare che cosa provoca in lei, a livello corporeo.

Ilenia sceglie l’aspetto di rifiuto, di arroganza e di freddezza che ciclicamente vede in quest’uomo e che per lei è inspiegabile, inconcepibile. Si pone in ascolto. Contatta, immediatamente, una sensazione di pugno allo stomaco, che poi diviene, più distintamente, una sorta di voragine che le inghiotte i visceri. Un buco nero, angosciante, mortifero. Improvvisamente, un insight, una consapevolezza: lui e lei provano la stessa cosa, una ferita profondissima, indicibile, un vuoto smisurato, intollerabile, a cui hanno solo dato delle forme esteriori diverse, un abito apparentemente differente ma, nella sostanza, fatto dello stesso tessuto, di un analogo intreccio di trame e orditi antichi, persi nella memoria, fatti di mancanze, di paure, di bisogni viscerali mai appagati, di rabbie furibonde e di atmosfere ghiaccianti, desolanti, senza speranza…

Il viaggio di Ilenia dentro il suo sentire è così toccante che non può fare a meno di scivolare in un’angoscia e in un dolore senza parole, senza tempo, senza confini. Ma per fortuna Ilenia dei confini ce li ha: ha un corpo, che vive nel presente, che respira, che è attraversato da una vita piena e pulsante. La aiuto a riconnettersi a questo, per riemergere dall’abisso della sua pena più profonda. E piano piano Ilenia riemerge, grata di poterlo fare, di essere qui, ora, con tutto il resto della sua esperienza, con tutto il resto di sé. E si rende conto di come, accanto ad uno sguardo più compassionevole verso quello che poco prima vedeva come una sorta di persecutore, l’uomo di cui è innamorata, sia affiorata in lei anche la consapevolezza che lui, questa esperienza di “riemersione” dal buco nero, forse non l’ha mai fatta, non è in grado di farla, perché teme troppo quel luogo angoscioso dentro di sé da cui fugge, continuamente, rifugiandosi in mille maschere.

Una profonda tristezza la attraversa, ma è una tristezza benevola, figlia di una presa di coscienza sulla realtà. Una realtà che non può cambiare, ma che può scegliere se tenere nella sua vita o meno.

“Se fai un passo lontano da me, sto male”

Contattare il proprio senso di vuoto e di solitudine

Christian arriva da me in seguito a una crisi coniugale che lo ha fatto entrare in uno stato depressivo e di grande ansia. A 50 anni, dopo una vita dedicata al lavoro e alla famiglia, sembra crollargli il mondo addosso: ha scoperto che la moglie, poco più giovane di lui, devota casalinga e madre di famiglia, ha iniziato a investire gran parte del suo tempo libero in un gruppo di teatro. Non che lui abbia niente in contrario con l’attività teatrale in sé, o almeno questo è quello che riesce a dirsi razionalmente. Ma sapere che la moglie frequenta assiduamente un gruppo di persone con cui probabilmente si è creata una certa complicità, vedere che spesso la sera è fuori casa e che, addirittura, talvolta investa i suoi weekend con la compagnia teatrale lo fa letteralmente “friggere”. Si rende perfettamente conto di non poter vietare nulla alla consorte. Riesce anche ad ammettere che, dall’esterno, la cosa possa sembrare addirittura positiva. Dopo tanti anni di dedizione alla famiglia, finalmente, Sabrina ha la possibilità di dedicarsi ad un suo hobby, a un’attività che, a suo stesso dire, le sta insegnando tanto. Come potrebbe lui lamentarsi di qualcosa di tanto costruttivo? Eppure la cosa sta diventando intollerabile. Ogni volta che lei va al corso sente una fitta al petto, proprio come se la moglie lo stesse pugnalando al cuore. Non riesce a capire che cosa gli stia accadendo. Eppure in quelle sere in cui i figli, ormai grandicelli, escono coi rispettivi amici e fidanzate e Sabrina è in teatro, sente la morte nel cuore e un senso di rabbia che fatica a trattenere.

Cosa sta accadendo a Christian?

Christian arriva da una famiglia d’origine molto rigida dal punto di vista educativo. I professati valori di unità e amore familiare sono stati portati avanti in un clima di freddo moralismo più che di calda condivisione. Christian non ricorda un’occasione in cui i genitori lo abbiano accarezzato o abbracciato. Anzi, il focus sul senso del dovere e sulla riuscita sociale lo hanno sempre messo in difficoltà. Erano all’ordine del giorno rimproveri basati su confronti con successi altrui. Christian ha sempre anelato all’approvazione genitoriale e, nella sua vita, ha fatto di tutto per ottenerla: ha terminato con successo gli studi, si è trovato una buona posizione lavorativa, e non da ultimo ha sposato una brava giovane, di modesta ma rispettabilissima famiglia, con cui ha messo su famiglia. Ha insomma inanellato uno dietro l’altro dei ragguardevoli e onesti obiettivi. Nella sua nuova famiglia ha riposto le speranze più profonde: di poter finalmente dar vita a un “nido” sereno e appagante dal punto di vista affettivo. Con la moglie ha sempre avuto un rapporto incentrato sul reciproco rispetto e sul sincero affetto. Mai, prima d’ora, c’erano stati motivi di tensione tra loro: Sabrina è sempre stata molto tranquilla, senza pretese, accondiscendente e accomodante in ogni circostanza. Ha sempre messo i bisogni della famiglia davanti a tutto. Ma ora, per la prima volta, prende degli spazi per se stessa. Si dedica a qualcosa che le piace, e che non ha a che fare con la famiglia. Christian è come se si sentisse tradito, pur sapendo di non esserlo. La simbiosi, la fusionalità che aveva con Sabrina, infatti, è venuta meno, riaprendo una sua antica ferita. Quella di un amore totalizzante, assoluto, perfetto…da sempre desiderato e mai avuto da bambino. Un amore ideale che Christian ha cercato e trovato con la moglie: ogni decisione era presa insieme, ogni momento libero trascorso con lei, ogni aspetto della vita condiviso. Ora lei ha un “suo”, personalissimo spazio, da cui Christian è tagliato fuori, e questo è intollerabile.

Christian, per superare questa fase della sua vita personale e di coppia, dovrà imparare a rielaborare l’antica ferita vissuta rispetto ai propri genitori. Potrà finalmente guardarli con occhi disincantati e riconoscere i loro limiti. Senza giudicarli, ma facendoli uscire dall’idealizzazione in cui li ha sempre avvolti. Dentro di lui compariranno sentimenti di rabbia, di tristezza, di disillusione, indicatori di un processo evolutivo di effettiva differenziazione dalle figure genitoriali. Solo “facendo pace” con il suo passato potrà re-incontrare, da uomo affettivamente adulto, la sua compagna. Che, finalmente, si permette oggi di vivere degli spazi di autonomia dalla coppia. Che non dovrà più assolvere alle funzioni di un oggetto buono sempre presente e disponibile, da cui non staccarsi mai, pena il vissuto straziante di essere lasciato solo, con le proprie angosce. Una compagna che acquisterà, al pari delle sue figure genitoriali, sembianze più umane e più realistiche, con la quale includerà nella coppia momenti fisiologici di separazione, di distanziamento, alternati a momenti di maggiore vicinanza e intimità.

“Il persecutore dentro di noi”

Una storia di impotenza appresa

Renata è una bella donna di 36 anni. Da 4 anni ha una relazione estremamente conflittuale con un uomo che la prevarica e la svaluta quotidianamente. È un rapporto non molto diverso, dice lei, da quelli precedenti. Succede ogni volta la stessa cosa: dopo un’iniziale reticenza, Renata finisce per coinvolgersi molto nella relazione di coppia e, proprio quando lei si abbandona ai suoi sentimenti, il partner comincia a maltrattarla psicologicamente, a offenderla, a sminuirla, a farla sentire come un’incapace e una stupida.

Renata sostiene di essere molto sfortunata in amore, e comincia a pensare di meritare questo tipo di uomini, evidentemente perché non è abbastanza interessante.

Mentre Renata mi racconta delle sue pene amorose, le chiedo di individuare un episodio recente in cui è avvenuto uno scambio, col compagno, che l’ha ferita.

Renata non fatica a individuarne uno, accaduto proprio il giorno prima: il suo compagno le ha chiesto di partecipare ad una importante cena di lavoro, proprio nel giorno in cui lei avrebbe dovuto partecipare al compleanno della sorella, con la quale ha un rapporto molto stretto. Lui sapeva di questa ricorrenza ma, al solito, ha messo i propri bisogni davanti a tutto. Quando Renata glielo ha fatto presente, lui ha cominciato ad alzare la voce e ad accusarla di pensare solo a se stessa, di non curarsi di lui, di volerlo umiliare di fronte ai colleghi per invidia rispetto al suo successo lavorativo. Ha dato sfogo ad un monologo durato mezz’ora al termine del quale l’ha fatta sentire talmente in colpa da decidere di rinunciare alla festa della sorella per accompagnarlo alla cena. Renata mi racconta di essersi sentita talmente mortificata per le parole del compagno, di aver provato una confusione tale da non aver saputo ribattere ad una sola parola del fidanzato. Si è sentita piccola, smarrita, una vera idiota che non ne combina una giusta.

Le chiedo di dirmi se questa è una sensazione che le è familiare, che ha incontrato spesso nella sua vita.

Renata mi dice che “sei un’idiota” potrebbe essere il titolo della sua storia.

Le vengono le lacrime agli occhi. Ricorda di quando, da piccola, sua mamma le ripeteva “non sei una principessa, non mi interessa…”. La madre si mostrava affettuosa con lei solo nel momento in cui Renata si comportava esattamente secondo le sue aspettative. Ogni richiesta, ogni movimento che si discostasse dal volere o dal desiderio materno era accompagnato da un commento simile a quello sopra citato.

Faccio notare a Renata come abbia interiorizzato l’immagine svalutante e oppressiva della madre.

Avendo imparato molto presto ad accondiscendere alle richieste altrui per ottenere approvazione, accettazione e amore, ha smesso anche di ascoltare le proprie risposte emotive, i propri bisogni e desideri.

Ecco perché, di fronte alle irragionevoli pretese del compagno, Renata non riesce a contattare le sensazioni che queste ultime scatenano in lei, ma si attiva in automatico un vecchio copione che la vuole “sbagliata”, pretenziosa e inopportuna. Subito compare il senso di impotenza, di inadeguatezza, e di colpa. Renata reagisce come quando, da bambina, la mamma la mortificava. Ma ora è una donna, e può rispondere diversamente al compagno.

Le chiedo di “riavvolgere il nastro” della scena accaduta la sera prima con il fidanzato e di procedere al rallentatore, “mettendo in pausa” subito dopo aver ascoltato la sua richiesta di presenziare alla cena di lavoro, ignorando la sua obiezione legata all’impegno preso con la sorella.

Invito Renata a chiudere gli occhi, a immedesimarsi in quell’istante, e a portare poi l’attenzione dentro di sé, al suo corpo, alle sue sensazioni. Non serve che le chieda cosa provi perché il suo vissuto le si legge letteralmente in faccia: il suo volto viene arrossato da una vampata di calore, le mascelle si serrano e l’espressione che compare in viso è quella della rabbia. Le domando se sia consapevole di quello che le sta accadendo. Renata, presa da un tremito alle braccia, dopo un sussulto, mi confessa: “se fosse qui gli tirerei un pugno in faccia…oddio…sono orribile…come ho potuto dire una cosa simile?”.

Rassicuro Renata rispetto al fatto che non è un mostro: quello che sente, e che probabilmente non è abituata a contattare, è una legittima risposta di rabbia. La rabbia non va giudicata da un punto di vista morale, è soltanto un segnale fisiologico che ci dice che ciò che sta accadendo non ci piace, non va bene per noi. Per questo si manifesta attraverso un flusso di energia che, spesso, “sale”: è il nostro corpo che si prepara a reagire con forza a qualcosa che respingiamo, per evitare che ci ferisca. Renata dovrà imparare, un po’ alla volta, ad ascoltare e a gestire questa emozione, che come un leale messaggero le porta un’informazione su di sé.

Il senso di vuoto dietro una facciata di spensieratezza

Carlo, un uomo di mezza età, arriva da me perché ultimamente soffre di una forma di ansia che, a suo dire, è inspiegabile. Non c’è niente che non vada, apparentemente: ha una carriera brillante, successo sociale, e non gli mancano le donne. Non sa cosa possa essere successo, ma da qualche mese sente un’irrequietezza che lo disturba, che gli fa temere di stare solo, cosa che per lui è sempre stata fondamentale, rigenerante.

Chiedo a Carlo che cosa sia accaduto di significativo, nella sua vita, da qualche mese a questa parte.

Lui risponde di averci pensato, ma che nulla davvero è cambiato nelle sue routine. Solo, mi dice, due delle donne più importanti che stava frequentando, hanno deciso di “fare le preziose” (queste le sue parole).

Mi chiedo e gli chiedo quante donne stesse frequentando.

Carlo: “Non vorrei sembrarle un maschilista ma io non riesco ad avere una sola relazione. Frequento 3/4 donne contemporaneamente perché altrimenti mi annoio. Sono un po’ in imbarazzo perché lei è una donna e dirle queste cose mi sembra scortese…ma non ho mai trovato una donna che mi bastasse, che mi facesse innamorare…”

Io: “Certo Carlo, capisco, non ha mai investito completamente su una sola relazione, ha sempre sentito il bisogno di diluire, per così dire, il suo impegno tra partner diverse. Ma sembra che una paio di queste, di recente, le abbiano dato del filo da torcere. Come la fa sentire questo?”

C: “Niente, come mi deve far sentire? Mi dispiace un po’, ma sono sicuro che sono bizze passeggere, è sempre stato così. Non è davvero un problema, peggio per loro…”

Io: “Eppure ho la sensazione che questa lontananza c’entri con il problema. Sembra che lei tema di riconoscere che una questione sentimentale, o se non altro emotiva, possa toccarla. Forse è per questo che, invece di investire profondamente in un’unica relazione, passa da una donna all’altra? Per investire – e rischiare – il meno possibile dal punto di vista emotivo? Cosa succederebbe se invece lo facesse?”

C: “Ma niente, cosa vuole che succeda? Le ho detto che non ho mai trovato una donna per cui valesse davvero la pena impegnarmi…”

Io: “Forse una donna di questo tipo nella sua vita c’è stata, ma non è andata molto bene? Cosa le viene in mente se le chiedo in che altri momenti della sua vita ha sentito l’angoscia, il senso di vuoto che sta provando in questo periodo?”

Carlo si irrigidisce. I suoi occhi si inumidiscono. Mi guarda, e per un attimo lo vedo piccolo, bambino…

Poi la sua corazza si richiude, velocemente. “Beh…certo…mi viene in mente quando passavo ore da solo dopo la scuola. Mia madre non aveva tempo per me…ma non vedo cosa c’entri questo ora”.

L’armatura di Carlo si è dischiusa per un attimo, in cui ho letto nei suoi occhi la sua fragilità, e si è subito rinsaldata. Ci vorrà un lavoro lungo e paziente per aprire una breccia nelle sue difese e nel suo cuore.

Carlo ha una personalità narcisistica o meglio, se facciamo riferimento al suo stile relazionale, una personalità “briciola”, come la definisce Umberta Telfener in un suo libro. Un uomo che non si concede mai troppo nelle relazioni affettive, che investe in esse il minimo indispensabile per preservare il proprio mondo personale, la propria libertà, i propri equilibri interni. Un reale incontro e confronto con l’altro sarebbero troppo rischiosi. Potrebbero metterlo eccessivamente in discussione: Carlo potrebbe deludere o ricevere dei rifiuti, cosa per lui intollerabile. È un’esperienza che ha fatto precocemente nel suo contesto relazionale di origine (con la madre) e che ha imparato a mascherare, a evitare, a non sentire…nascondendola sotto un’immagine grandiosa e invincibile di sé. Ma quando dal mondo esterno arrivano segnali che disconfermano questa sua onnipotenza – l’allontanamento di due “favorite dell’harem” – il suo fittizio senso di sicurezza comincia a crollare, e Carlo rientra in contatto con un’angoscia originaria e intollerabile. L’accesso a quel mondo interno deve essere rispettoso e cauto.

“È solo un’ipotesi, Carlo, ma teniamo presente che questo senso di angoscia non le è nuovo, forse è più antico di quanto pensi. Ne riparleremo ancora…”.

Dolorosamente insieme…

Quando le storie familiari influiscono sulle relazioni di coppia

Riccardo e Martina arrivano da me perché, dopo anni di relazione, sentono di essere arrivati ad un nodo cruciale: Martina, sulla quarantina, vorrebbe tanto un figlio. Le sembra che il tempo a sua disposizione ormai sia poco e si sente pronta ad affrontare questo passo.

Riccardo invece è molto frenato: è impaurito, non si sente in grado di far fronte ad un’eventualità del genere. Durante delle sessioni individuali approfondiamo le rispettive storie familiari.

Martina è rimasta orfana di madre molto presto, da bambina, e ha un rapporto strettissimo col padre. Il suo sogno è sempre stato quello di metter su famiglia e ora la reticenza di Riccardo, che ama molto e che, a suo dire, ha scelto proprio perché “tutto d’un pezzo” e poiché le dà sicurezza, la ferisce terribilmente: si sente non realmente voluta, tradita. Il rifiuto di Riccardo riattiva in lei un profondo dolore e un senso di vuoto, che assomigliano molto a quelli che lei ha vissuto in seguito alla prematura scomparsa della mamma. Martina teme che lui non la ami davvero e che possa perderlo da un giorno all’altro, cosa che le risulterebbe intollerabile: non potrebbe sopportare un altro abbandono…Questo timore la rende insicura e, nei confronti del partner, continuamente richiedente e controllante. A volte perde le staffe e la cosa che la manda più in bestia, quando discutono, è che lui sembra impassibile, impenetrabile…questo apparentemente conferma i suoi timori rispetto al fatto che lui non sia veramente interessato alla loro relazione.

Riccardo, da parte sua, ha una storia di bambino maltrattato. Il padre, alcolizzato, spesso lo picchiava selvaggiamente e in modo imprevedibile, sfogando su di lui le proprie frustrazioni personali, e nella convinzione che lui non fosse realmente suo figlio. Riccardo è sopravvissuto a un’infanzia durissima, ma ne porta ancora i segni. È estremamente ansioso, rigido, sembra che faccia uno sforzo immane per mantenere tutto sotto controllo, emozioni comprese. Durante gli incontri individuali emerge che il suo timore rispetto ad un’eventuale paternità è legato al terrore di poter perdere il senno e di diventare come suo padre.

È anche per questo che, nella sua vita, Riccardo si è chiuso dietro un’armatura impassibile e, almeno all’apparenza, inespugnabile. La sua reazione alla rabbia, propria e altrui, è una sorta di congelamento, che lo immobilizza. Il suo più grande incubo  è poter diventare, a propria volta, maltrattante e violento.

Martina non conosce la sua storia, che Riccardo ha sempre taciuto e cercato di dimenticare.

Riccardo e Martina sono due chiari esempi di come le rispettive storie di vita, e familiari, abbiano creato delle “vulnerabilità” che si sono giocate, successivamente, nella loro relazione di coppia.

Martina, in cerca di un partner rassicurante e affettuoso per colmare il vuoto mai elaborato lasciatole dalla morte della madre, fraintende la rigidità di Riccardo, vivendola come solidità. Ma non tarda ad accorgersi che, proprio questo aspetto, è quello che più la sollecita, facendola sentire insicura e incerta rispetto a quanto lui la ami e desideri un futuro con lei.

Riccardo, barricato dietro le sue difese, risponde alle richieste emotive e alle esplosioni di Martina come ha imparato a fare: congelandosi, ma nel terrore di perdere il controllo.

Quanto più lei diventa richiedente e intrusiva, tanto più lui si ritira. E il comportamento di ognuno dei due sollecita sempre di più i temi affettivi cruciali dell’altro.

Il lavoro con Martina e Riccardo è proseguito con incontri congiunti, di coppia. Le riflessioni sulle rispettive storie sono state condivise, anche attraverso l’uso di strumenti specifici, come il genogramma (rappresentazione grafica della famiglia di origine e delle relazioni tra i membri). Ognuno dei due ha potuto conoscere e comprendere meglio la storia e il vissuto profondo dell’altro. Entrambi hanno inoltre potuto differenziare ciò che ciascuno portava – dal proprio passato – nella coppia e ciò che invece emergeva nel presente, nell’incontro più consapevole e autentico con l’altro. Per Martina e Riccardo si è aperta la possibilità di una diversa narrazione, che li vede protagonisti di una nuova storia: la loro storia come coppia di adulti e non più – soltanto – come figli feriti.

Una violenza invisibile: il gaslighting, una sottile manipolazione mentale

Giusy arriva da me in profondo stato di prostrazione e depressione. Sta uscendo, a fatica, da una relazione fortemente destabilizzante e patologica. Una relazione durata 4 anni con Matteo, un professionista di poco più grande di lei. Quattro anni di incubo, a suo dire, che l’hanno portata sull’orlo della pazzia.

Giusy è originaria della Romania, fu adottata da piccola e ora i suoi genitori sono morti. È sola al mondo, senza contatti significativi con la rete parentale e senza amici. “Lui mi faceva sentire una stupida, inutile, una persona di cui a nessuno, all’infuori di lui, sarebbe importato”. Così comincia il racconto straziante di Giusy. Una storia fatta di sottili ma continui, costanti attacchi al suo senso di fiducia e valore personali. Una sorta di inesorabile ma velato “terrorismo psicologico”. Matteo non ha mai alzato le mani su di lei, non ce n’era bisogno. Tanto lei era succube e dipendente da lui, dai suoi giudizi, dal suo modo di vedere e interpretare le cose. Giusy, piangendo, mi racconta di quanto si sia annullata, messa in dubbio, accusata, svalutata, per rimanere con lui. E non era neanche consapevole di quanto stesse accadendo.

Dagli episodi, dalle parole, dalle atmosfere che Giusy via via mi racconta di aver vissuto nella relazione con Matteo si delinea sempre più netta un’ipotesi, una parola che racchiude il senso di ciò che è accaduto a Giusy: Gaslighting.

Il termine fa riferimento a un’opera teatrale statunitense e ai successivi adattamenti cinematografici, degli anni ’40, nei quali si descrivono le modalità subdole e manipolatorie con cui un marito cerca di portare la moglie a dubitare di se stessa, delle proprie percezioni e della propria memoria (ad esempio negando fatti realmente accaduti o distorcendo questi ultimi) per disorientarla e averne il totale controllo.

Si tratta di una forma d’abuso che, avvenendo tra le mura domestiche e non lasciando “segni” percettibili, come potrebbero essere quelli di percosse fisiche, è estremamente difficile da riconoscere. Anche perché chi ne è vittima, per prima, non riconosce da subito il lento ma infido processo di manipolazione a cui è sottoposta. Ciò che succede, infatti, è che gli “attacchi” del gaslighter sono graduali, somministrati a piccole dosi, ma inesorabili. È quello che accade nella famosa metafora della “rana in pentola”: il calore dell’acqua si alza lentamente e la rana non si rende conto di ciò che le accade, arrivando a morirne.

Inoltre, spesso, l’atteggiamento generale del gaslighter è a tratti di grande apprezzamento, di dichiarata vicinanza e valorizzazione della vittima. La quale, alla ricerca di un’approvazione e di una sicurezza che non trova dentro di sé, arriva a vacillare, a provare un grande stato di confusione, a dubitare di se stessa e ad accettare la visione e la lettura della realtà dichiarate dal proprio manipolatore, spesso oggetto di forte idealizzazione.

Ecco allora che alcuni fatti vengono distorti, altri negati, vengono rivolte alla vittima accuse per cose irrisorie o inesistenti. Vengono messi in dubbio i suoi ricordi, la sua lettura dei fatti, addirittura le sue percezioni (“non è come dici, sei tu che ti immagini le cose”). Il tutto alternato a dichiarazioni di solidarietà, di vicinanza emotiva e di affetto (“lo dico per te, tesoro, ti vedo un po’ esaurita, lascia che mi occupi io di te”). Il vissuto della vittima passa da stati di confusione, a incredulità, a rabbia, per arrivare, quando la persona infine depone le armi e arriva a dubitare completamente di se stessa, alla depressione. La sua autostima e capacità decisionale sono state definitivamente compromesse e schiacciate.

Giusy è caduta in una trappola pericolosa, che ha trovato terreno nel suo disperato bisogno di affetto, di approvazione, e nella scarsa fiducia in sé, nella mancanza di ascolto e di legittimazione delle sue sensazioni e impressioni personali.

“Giusy, anche io potrei rischiare di rappresentare, per te, un’altra persona che ti dice cosa è giusto e cosa è sbagliato. Per questo lavoreremo molto, all’inizio, sull’ascolto e la decifrazione del tuo sentire. Quello, appartiene solo a te, ti aiuta a capire cosa ti fa stare bene e cosa no, cosa vuoi per te stessa e da cosa preferisci prendere le distanze. Il nostro lavoro di ricostruzione partirà, paradossalmente, da un piano molto diverso da quello che è stato attaccato, ovvero il piano mentale. Partiremo dal tuo corpo e dalle sue risposte…ogni casa solida si costruisce dalle fondamenta.”

I calzini della discordia – storie di battaglie coniugali

“Dottoressa, mi fa imbestialire: non lo sopporto più, sembra che lo faccia apposta a farmi saltare i nervi. Come ieri: gli avrò detto milioni di volte che non tollero quando lui, tornando a casa, si cambia e mi lascia i vestiti in giro. E lui ieri che ha fatto? Tornato dal lavoro ha lasciato i suoi calzini puzzolenti sul divano. Sono andata talmente in bestia che mi è venuto da piangere. Appena è uscito dalla doccia lo ho aggredito insultandolo e gridandogli di andarsene di casa se non è in grado nemmeno di rispettare una mia richiesta”.

Sento puzza di bruciato. Possibile che il tema “calzini in giro”, per quanto fastidioso, sia così attivante per lei? Decido di esplorare più a fondo questa faccenda.

“Senta, Clara, mi ha detto che quando ha visto i calzini sul divano le è montata una rabbia irrefrenabile…”.

 “Sì, guardi, dottoressa, se ci ripenso anche adesso mi viene un nervoso che se avessi mio marito per le mani lo smonterei!”.

“Allora, prima che lei smonti suo marito, proviamo ad ascoltare un po’ meglio questa emozione: dove la sente? Che cosa sente?”.

“Sento un nodo fortissimo alla gola, mi si chiude lo stomaco, vorrei urlare con tutte le forze ma allo stesso tempo mi sento senza forze…”.

“Sembra che ci sia quindi anche un senso di impotenza…se rimane connessa con questa sensazione e va indietro nel tempo, cosa le ricorda? Qual è la prima occasione in cui ha memoria di aver provato qualcosa di simile?”

“Se vado indietro mi viene in mente con i miei figli piccoli…o ancora prima con un mio fidanzatino, ero adolescente: pure lui mi faceva imbestialire, non capiva un accidente! Andando ancora a ritroso…- fa una pausa, i suoi occhi si rattristano – …a casa con mia mamma e mio papà. Quando lui rientrava ubriaco e la maltrattava. Io avrei voluto cacciarlo via, difendere mia mamma, ma ero troppo piccola, non potevo fare niente…”. Inizia a piangere.

“Sì, Clara, era troppo piccola, non avrebbe potuto fare niente. Ma le è rimasto ben impresso il senso di ingiustizia e di impotenza legati al comportamento irrispettoso e aggressivo di suo padre.

Sembra quindi che il comportamento di suo marito riattivi in lei quel vissuto: non si tratta solo di un calzino fuori posto, ma di come lei si senta non rispettata, non considerata, non vista da suo marito. Proprio come vedeva accadere tra papà e mamma”.

Clara, in lacrime, annuisce.

“Clara, crede che suo marito si renda conto di ciò che si scatena, ogni volta, dentro di lei, quando lascia i calzini in giro?”

Riprendendo fiato: “No, non può saperlo, non ne ha idea”.

“Proprio così. Lei in realtà lei non glielo ha mai detto. Noi lavoreremo sul vissuto di impotenza che ha provato da bambina, ma lei, d’ora in poi, potrà cominciare a comunicare le sue vere emozioni a suo marito, i suoi vissuti più profondi. Solo così la comunicazione tra voi potrà diventare autentica, ed efficace”.

La “tecnica dell’ignorante”: strategie di comunicazione di coppia

“Come è andata, nei dettagli? Cosa vi siete detti?” chiedo alla coppia che, di fronte a me, mi racconta di un recente litigio.

Lei: “Come avevamo concordato con lei, dottoressa, ho chiesto a mio marito se volesse accompagnarmi a fare un giro in bici. Per creare dei momenti di condivisione, per fare qualcosa assieme…Avrei chiamato mia sorella per badare ai bambini, l’avevo già preavvisata. Lui mi ha risposto, come un cane bastonato – per farmi sentire in colpa – che potevo andare da sola se lo desideravo perché lui non se la sentiva. Alla fine ci è riuscito a farmi sentire in colpa e non sono uscita nemmeno io! Mi ha fatto fare pure una figuraccia con mia sorella…”

La interrompo: “Scusi, perché dice che suo marito le ha risposto in quel modo per farla sentire in colpa? Cosa glielo fa pensare?”

“Perché lo conosco!”, incalza lei, “fa sempre così quando vuole farmi sentire in colpa: fa la vittima, l’anima sofferente, come se dovesse farmela pagare…”.

“Ecco, signora, questo è un esempio lampante di quella che, tecnicamente, si chiama “lettura della mente”: si tratta di un errore cognitivo, ovvero di una modalità, errata, con cui la nostra mente interpreta la realtà. Anche se lei crede di conoscere suo marito come le sue tasche, in effetti, non può avere la certezza di quello che realmente gli passi per la mente. Attribuire a suo marito l’intenzione di volerla far sentire in colpa è roba sua, una sua interpretazione.

Potrebbe essere azzeccata ma potrebbe anche non esserlo.”

Il marito, prontamente: “Ma infatti, chi glielo dice a lei che volevo farla sentire in colpa, non c’entra niente: stavo male, se proprio lo devo dire, mi è tornato quel dolore alla schiena che ogni tanto mi blocca, ma non volevo farglielo sapere per non sentire ancora, per l’ennesima volta, i suoi rimproveri sulla mia sedentarietà, sul fatto che mi muovo poco e non mi curo, su quanto mi farebbe bene fare yoga o pilates!”

“Se aveste la possibilità di girare, per la seconda volta, quella scena, stavolta comunicando l’un l’altra solo ciò che REALMENTE vi muove, ciò che provate e desiderate, senza fare presupposizioni o omissioni, cosa direste?”

Lui: “Le direi subito il vero motivo del mio rifiuto…”

Lei: “Beh…credo che gli chiederei il perché della sua risposta…e probabilmente andrei lo stesso a fare il giro in bici, perché non mi sentirei in colpa…”

Dopo una breve pausa:

“Certo che accorgermi dei preconcetti che ho nei suoi confronti non è facile…dovrei fare finta di essere ignorante…sì…usare la tecnica dell’ignorante!”

Scoppiamo tutti a ridere…

“Non pensavo che su questo episodio avrei potuto riderci su”, commenta lei.