Il contatto con il bambino interiore

Mario è un giovane uomo di 23 anni.
Da subito mi è chiaro che il suo malessere (forti ansie, angoscia, attacchi di panico) è legato ad un iper-investimento della mente, dei pensieri, come probabile fuga da vissuti difficili da affrontare.
Durante un colloquio mi confida che uno dei “temi caldi” delle sue rimuginazioni è dirsi “Sono un incapace e gli altri se ne potrebbero accorgere”. Approfondendo meglio questo pensiero emerge come il vero timore di Mario sia quello di far trapelare la sua vulnerabilità. Mario comprende razionalmente quanto sia inutile e inappropriato giudicare negativamente le sue fragilità, ma non può fare a meno di odiarle. Quando si pensa come debole gli si chiude immediatamente lo stomaco, sente un nodo alla gola, una vampata di calore alla testa e le mani fredde.


Non potendo risolvere un problema di pensiero allo stesso livello in cui si è prodotto (quello mentale), decido di fargli fare un’esperienza emotiva. Gli chiedo di dare una forma a quella che percepisce come la sua parte vulnerabile.
A Mario viene spontaneo immaginarla come un bambino piagnucoloso che non è in grado di fare altro se non rimanere lì dov’è, immobile, incapace di fare qualsiasi cosa. Chiedo a Mario che cosa prova nel “vedere” quel bambino di fronte a sé.
Mario mi dice che guardandolo, dopo un primo momento di irritazione, gli fa pena. Gli verrebbe voglia di avvicinarsi e abbracciarlo. Gli propongo di farlo, sempre in quel campo magico dove tutto può accadere: la nostra immaginazione.
Mario si lascia andare ad una profonda tenerezza mentre, con l’occhio della mente, si concede questa esperienza.
Proiettando fuori di sé l’incarnazione delle sue vulnerabilità, Mario ha potuto avvicinarle. E contattarle in un modo che fosse diverso dal giudizio. Gli propongo di considerare – e cautamente di trasformare – quel bambino della visualizzazione in sé stesso, a quella medesima età.
Mario tentenna. Inizialmente, l’immagine di sé da bambino fatica a formarsi. Ma finalmente arriva. Insieme ad una grande commozione. Non si era mai “rivisto” in questi termini. Prova una stretta al cuore e un sentimento di compassione che non era mai riuscito a provare nei propri confronti, men che meno verso il bambino che è stato.
Invito Mario, anche stavolta, a comportarsi verso quel bambino nel modo che sente più spontaneo. Mario mi dice che anche con lui avverte il bisogno di avvicinarsi e di avere un contatto fisico. Mentre immagina tutto questo, porto la sua attenzione a focalizzarsi sulle sensazioni che gli derivano da questo abbraccio, identificandosi ora con il Mario adulto, ora con il Mario bambino. È un momento molto intenso, che lo tocca parecchio. Lo aiuto a farsi attraversare dalle sensazioni e dalle emozioni del momento. Non potrà dimenticare facilmente quest’esperienza e lo invito, ora che fa parte del suo bagaglio, a ricordarsene nel momento in cui il pensiero giudicante visto sopra si riaffacciasse alla sua mente. Gli suggerisco di tenere presente che quelle parti vulnerabili di sé chiedono solo un riconoscimento, un’accettazione, amore. E quanto più lo ricevono, tanto più si rinforzano. Invece che respingerle, addirittura odiarle, ora sa che hanno solo bisogno d’amore. Quel bambino è dentro di lui, e la parte adulta di sé, oggi, può prendersene cura.


La mente di Mario – come quella di tutti noi – può rappresentare un limite o una risorsa. Diventa vincolante nel momento in cui prende il sopravvento il bisogno di controllo, che porta a valutare, giudicare, ad analizzare. È la parte più razionale che, se non gestita, può portare a una deriva.
C’è poi una parte della psiche, quella legata all’immaginazione, ai simboli, alla creatività, che è un vero e proprio scrigno di tesori. Imparare ad aprirlo e a fruire dei suoi doni è quanto di più bello possiamo fare per noi stessi e per il mondo.

Il pronking: quando ce l’abbiamo fatta!

Il lavoro su un incubo ricorrente

Renata è una donna sulla cinquantina, con un passato estremamente duro ma una capacità di ascolto e di elaborazione notevoli.
Viene da me con la richiesta esplicita di lavorare sui suoi traumi passati attraverso Somatic Experiencing®, un approccio corporeo e neurofisiologico per il superamento dei blocchi emotivi.
Dopo numerose sessioni in cui abbiamo affrontato diversi aspetti del suo vissuto pregresso di abusi, decidiamo di fare qualcosa di insolito: provare a lavorare su un sogno ricorrente, un incubo, che ancora oggi turba il suo riposo notturno. Pur trattandosi di materiale onirico, infatti, si tratta pur sempre di un’esperienza che lascia in lei un profondo vissuto di impotenza e terrore.


La scena dell’incubo la vede chiusa in una stanza buia, incapace di muoversi o di proferire parola. Il vissuto penoso aumenta via via con la sua immobilità. Anche nel raccontare il sogno Renata prova una sensazione di crescente angoscia. Si sente bloccata, in tutto il corpo, e non riesce ad immaginare (né a concretizzare, in seduta) l’idea di poter muovere alcun muscolo. È sopraffatta dalla paura.
Non essendo immediatamente accessibile per lei il movimento le chiedo che cosa, di quello scenario, vorrebbe cambiare se potesse farlo.
Renata immediatamente risponde: “accenderei la luce”.
Le chiedo di agire in tal senso nella sua immaginazione: visualizzare quella scena che si trasforma, illuminandosi.
Renata sembra trasalire: non ci aveva mai pensato e poterlo fare, ora, cambia tutto. Le compare la stanza di quando era piccola. La conosce bene, anche se non ha bei ricordi di quel luogo. Ma nella stanza c’è una porta. Invito Renata, ora più in contatto con le sue potenzialità, ad assecondare ciò che il corpo vorrebbe.
Renata non ha esitazioni: immagina di alzarsi e di uscire da quella porta, per ritrovarsi magicamente in uno scenario naturale con prati, fiori, farfalle e cielo azzurro.
Il cambiamento del suo volto e del suo tono sono evidenti mentre mi racconta questo “finale” modificato.
Sento che la sua energia aumenta e Renata mi conferma, con un certo stupore, che si sente euforica, piena di vita. Vorrebbe correre, saltare, gridare. La invito a farlo, se desidera. Comincia poi a tremare.


Cosa è accaduto a Renata nel giro di pochi minuti?
Ha sperimentato quello che in termini tecnici si chiama “pronking”, ovvero la percezione di avercela fatta. Il rilascio di un potente quantitativo di energia prima bloccata. È un fenomeno che si può anche osservare in natura, quando certe prede sfuggono ai predatori. Si tratta di un vissuto di pura gioia e vitalità.
Arriva quando superiamo un’esperienza traumatica, quando riusciamo ad uscire da una situazione vissuta come estremamente minacciosa per la nostra incolumità, quando facciamo fisicamente l’esperienza di essere fuori da una situazione di pericolo.
L’energia fisiologica attivata dall’organismo per far fronte alla minaccia viene liberata e quello che si percepisce è una vera e propria “scarica” adrenalinica, di euforia.


Cosa ha permesso a Renata di “farcela”?
Renata ha sempre percepito il suo incubo ricorrente come immutabile, incombente, inevitabile. Non lo ha mai “trattato” come uno scenario che potesse trasformare, avendo sempre subito il vissuto profondamente angosciante e paralizzante che esso le trasmetteva. Accedere a una soluzione percepita come concretizzabile (“accendere” – con l’immaginazione – la luce nella stanza) ha rappresentato per lei una via d’uscita risolutiva, a cui non aveva mai pensato. Una soluzione banale ma “mai vista” e considerata, essendo Renata completamente sopraffatta dalle sensazioni – anche fisiche – di impotenza e paralisi.
La semplicità della soluzione e il fatto che l’avesse trovata Renata stessa, dopo essersi defocalizzata dal suo senso di impotenza, le hanno restituito il suo potere personale e un senso di vitalità incontenibile.
Renata mi ha poi raccontato di non aver più fatto quell’incubo notturno. Ciò a dimostrazione del fatto che, siano più o meno “reali” le esperienze che facciamo, ciò che conta è come noi le viviamo, e anche l’esperienza di attraversamento e superamento che ne facciamo. Sia essa “vera” o immaginata. Si tratta pur sempre di esperienza vissuta nel corpo, e quindi di un passo verso una maggiore resilienza.

Viaggiare nel tempo per portare risorse nel presente

Matteo: “Dottoressa glielo dico subito…non voglio perdere tempo con l’analisi della mia infanzia! Quel che è stato è stato, non si possono cambiare le cose, e tutto sommato non mi è andata poi così male. Voglio focalizzarmi sul presente, perché ci sono situazioni in cui mi sento bloccato, e non riesco a uscirne”


Io: “Ho capito Matteo, allora partiamo da quello che c’è oggi, nel presente. Mi può fare un esempio di cosa la mette in difficoltà?”


Matteo: “Ecco, ad esempio, ieri è successo al lavoro: un mio collega davanti al capo ha fatto in modo di scaricare la colpa di un problema lavorativo su di me. Si trattava di qualcosa di cui, in realtà, era responsabile lui, ma ha rigirato la frittata in modo che lo sbaglio sembrasse il mio. Io non ho saputo ribattere niente, zitto, muto come un pesce. Ma dentro di me bollivo dalla rabbia. Ero talmente arrabbiato che quasi quasi mi veniva da piangere. Ci mancava solo quello! Mi capita spesso che, di fronte a un’ingiustizia, a un torto che mi fanno, non riesco a spiccicare una parola, vado in confusione, mi ammutolisco. E poi mi porto dietro la cosa per giorni, ci rimugino, ci ripenso. Mi sento uno smidollato, mi avvilisco per la mia mancanza di reazione, di coraggio. Non so come mai, ma in quei momenti mi sento proprio bloccato, come paralizzato”


Io: “Matteo le chiedo di re-immedesimarsi in quel momento, quando si è sentito sopraffatto dalla rabbia ma quasi congelato, immobilizzato. Vorrei che portasse tutta la sua attenzione alle sensazioni che nota ricordando quel preciso istante. Non mi interessano al momento pensieri o ragionamenti, ma solo le sensazioni che prova nel corpo”


Matteo: “Uhm…difficile…allora se ci penso mi viene subito un nodo alla gola, mi si chiude lo stomaco, è come se una voragine mi inghiottisse, mi va in confusione anche la testa, quasi vedessi tutto nero…” – Matteo si irrigidisce


Io: “Le chiedo lo sforzo di rimanere per qualche istante con quello che prova, senza cercare spiegazioni, ma solo ascoltando cosa accade”


Matteo: “Mi si infuoca la faccia, sento che sto sudando, mi fa anche male la parte destra della faccia…”


Io: “Le fa male la parte destra del viso…ha qualche senso per lei?”


Matteo: “è strano, non so cosa c’entri, ma mi è venuto in mente che è come quando mio fratello, dopo avermi atterrato nel fare la lotta, mi metteva il piede sulla testa e mi teneva giù, dicendomi che ero un pappamolla, così mi chiamava, un pappamolla”


Io: “Bene, se immagina di tornare per un attimo a quel momento, quando lei e suo fratello facevate la lotta, e finiva come mi ha descritto, cosa prova?”


Matteo: “Mi viene un nervoso anche oggi a ripensarci che lo riempirei di botte se fosse qui”


Io: “Provi a immaginare di assistere a quella scena del passato, a visualizzare lei sopraffatto da suo fratello. Quindi nella sua mente risponda a suo fratello coerentemente con quello che sente. Cosa le viene da fare? Può anche immaginarsi di avere dei superpoteri per fronteggiare suo fratello come desidera. E si immedesimi talmente tanto in quello che fa da sentire quasi i muscoli del suo corpo che si attivano e si organizzano nei movimenti che immagina. Se se la sente, le chiedo di agire proprio adesso, a occhi chiusi, i movimenti che immagina, al rallentatore, percependo distintamente ogni gesto e ogni parte del suo corpo coinvolta nel movimento”


Matteo si concede, prima cautamente, poi con sempre più sicurezza, di muovere il corpo in quelli che sembrano spintoni, pugni, calci. Il suo coinvolgimento cresce e gli esce una vocalizzazione che lo invito a ripetere, se ne sente il bisogno. Matteo procede con crescente intensità fino a che, quasi esausto, non si quieta. Gli chiedo come si senta adesso.
Matteo: “è incredibile ma mi sento liberato, forte. Anche se sento le mie gambe tremare. Ma ho un senso di leggerezza e di soddisfazione pazzeschi”


Io: “Bene, Matteo, pare che lei finalmente si sia concesso di mettere in scena e portare a compimento quella risposta che non ha mai potuto mettere in atto nel passato”


Matteo, perplesso: “E meno male che non volevo parlare della mia infanzia!”. Scoppia in una risata.


Gli spiego che, se per diverse ragioni non abbiamo “digerito” qualcosa del passato, quel boccone indigesto rimane dentro di noi, condizionando il nostro libero fluire nel presente. Oggi abbiamo molte più risorse rispetto a quando eravamo bambini e questo ci consente di rispondere agli eventi con maggiori possibilità. Quel ragazzino sopraffatto dalla forza del fratello è rimasto soggiogato dall’idea di non poter reagire. Ma contattando, da adulto, la rabbia di allora, e con le risorse attuali, ha potuto finalmente ribellarsi. Invito Matteo a restare collegato con il senso di potere personale e di leggerezza che sta sperimentando e di tornare al confronto con il collega.


“Cosa prova adesso?”


Matteo: “Sento che potrei dire la mia. Almeno dare la mia versione. Sì, questo lo potrei fare. In questo momento mi pare la cosa più banale del mondo”.


Rifletto e non posso che essere d’accordo con Matteo: parlare tanto del passato non serve un granché, ma riparare, attraverso l’esperienza, a dei vissuti rimasti bloccati, può fare davvero la differenza.

Essere Anima-li: riscoprire il corpo richiama l’Anima

Ho conosciuto Alba in un momento buio della sua vita: una depressione ormai pluriennale “curata” con farmaci, un disturbo di attacchi di panico con cui ormai conviveva da una vita, dolori diffusi, invalidanti e a detta dei medici inspiegabili, che la costringevano a letto per la gran parte della giornata. Ogni cosa di lei, a partire dal suo aspetto diafano, esile, raccontava di un “non esserci”, di una presenza evanescente, tutt’altro che incarnata.

Alba era molto cerebrale: amava la filosofia, la cultura, la lettura e provava una sorta di disprezzo e disgusto per tutto ciò che riguardava la dimensione più terrena, “bassa” dell’esistenza. Facile immaginare come certi aspetti della più cruda umanità la inorridissero: gli istinti, le pulsioni, gli umori e gli odori corporali, le più naturali funzioni fisiologiche, tra cui anche il mangiare, rappresentavano per lei delle oscenità. “Osceno”: fu proprio questa la parola da cui cominciammo ad esplorare il suo sentire. Emerse in riferimento all’opposta attitudine del padre di godersi la vita. Andando un po’ più a fondo della faccenda, emerse che Alba condivideva questa lettura della paterna trivialità con la madre, che da sempre biasimava e deprecava la crudezza e la bassezza del marito. Alba ricordava vividamente un episodio in cui il padre, quando lei era una bambina dell’età di 4/5 anni, le fece così tanto il solletico che lei, per le risate, si fece la pipì addosso. La mamma intervenne rimproverando aspramente e disapprovando il marito davanti a lei, alludendo all’accaduto (aver sollecitato così tanto la bambina) come a qualcosa di indecente e inaccettabile. Alba provò un senso di vergogna così profondo che da allora evitò qualsiasi contatto col padre e cominciò a guardarlo con occhi sprezzanti.

Chiesi ad Alba di provare a sospendere, per qualche istante, il suo giudizio, e di tornare ai primi attimi di quel gioco con il padre. L’emergere di un sorriso fu istantaneo. Questo fu l’inizio di un lavoro in cui, sforzandosi di non cedere ai condizionamenti ricevuti, Alba riscoprì piano piano la legittimità e la piacevolezza delle sue esperienze sensoriali. Il dischiudersi dei vissuti e delle percezioni alla sua coscienza acquisì via via sempre più spazio e intensità. E Alba imparò progressivamente a trovare, in questa nuova attitudine, un’irrinunciabile fonte di vitalità e di serenità. Un giorno, durante uno dei nostri consueti lavori corporei, Alba ebbe una visualizzazione: di avere una membrana, attorno a sé, quasi a formare un guscio, che lei rompeva permettendo alla luce di entrare. Sperimentò una connessione profonda e intensissima con tutto il resto del creato, con la terra, con la natura, con gli altri esseri viventi. Confessò poi di non aver mai contattato nulla di simile prima. Questa sensazione le riempiva in modo incontenibile il petto, le provocava una gioia, una commozione profonde. Le pareva di aver contattato un’altra dimensione, di essere in pace con tutto e tutti. La sua coscienza aveva sperimentato, per la prima volta, uno stato a cui mai prima aveva avuto accesso: una dimensione di profonda serenità, di amore, di apertura.

Il lavoro di riconnessione alla sua corporeità le aveva permesso di reimmergersi nel flusso energetico e vitale dell’esistenza, arrivando perfino a risvegliare una dimensione spirituale della sua vita. Il miracolo che accade quando ci si “incarna” davvero nella dimensione fisica e corporea è che, trovando un profondo radicamento, si apre paradossalmente la possibilità di un’espansione della coscienza, che ci porta a contattare dimensioni anche spirituali. Come se l’espansione di una parte più trascendente traesse giovamento dal contrappeso offerto dal radicamento corporeo. Mi piace pensare che, tornando ad essere più “animali”, recuperiamo di noi non solo la componente più istintiva e corporea a cui la parola allude, ma ci prendiamo cura anche del “nido” in cui poter accogliere, con rinnovata consapevolezza, la parte animica di noi, da cui etimologicamente la parola “anima-le” deriva.

“Imboccare un’uscita dall’autostrada”

Una metafora per uscire dagli automatismi disfunzionali

Febbraio 2020

Quando affrontiamo delle esperienze difficili mettiamo in atto delle strategie di gestione che abbiamo a disposizione al momento, in funzione di tanti fattori: la nostra maturità, le risorse che possediamo in quel preciso istante, i supporti di cui disponiamo, ecc. La modalità in cui affrontiamo una situazione che ha avuto un importante impatto su di noi – soprattutto se si tratta di situazioni relazionali, che si ripetono nel tempo – è come se venisse “memorizzata” e diventasse lo schema automatico con cui affrontiamo eventi simili. Questo perché il nostro sistema tende a “risparmiare” tempo ed energie e ad individuare vere e proprie “autostrade” comportamentali: percorsi ben conosciuti, preferenziali, di risposta a certi stimoli.

Nel momento in cui un evento simile a quello originario si manifesta, ecco che il nostro “pilota automatico”, per ottimizzare le energie, prende il comando e ci porta a reagire come allora: anche se la strategia non è stata la più efficace, ci ha comunque permesso di sopravvivere, dunque dal punto di vista biologico è stata un successo.

Facciamo un esempio: Paola è in crisi con il fidanzato. Ogni volta che discutono, lei si chiude a riccio, non riesce più a parlare, si sente sopraffatta. Vorrebbe dire tante cose al compagno, ma non le escono le parole, è come se una morsa le chiudesse la gola, si sente incapace di reagire, è come se collassasse su se stessa. Ovviamente questo comporta una serie di incomprensioni, di non detti e di vissuti di frustrazione nella relazione di coppia.

Con Paola abbiamo individuato l’origine di questa sua risposta: quando il fidanzato si infervora in una discussione, alza la voce. È proprio questo l’aspetto che la destabilizza di più. Nella sua famiglia di origine il padre aveva imprevedibili scoppi d’ira, accompagnati da grida e dal lancio degli oggetti che trovava intorno a sé. Paola ne era terrorizzata. Ricorda che accadeva già quando lei era molto piccola, a 4/5 anni. Sua madre reagiva con altrettanta rabbia, innescando un’escalation che, non di rado, portava a degli scontri fisici tra i suoi genitori. Lei era paralizzata dal panico, temeva che potessero uccidersi.

In quel frangente, congelata dal terrore, Paola imparò a farsi invisibile, a non muoversi, a non attirare l’attenzione per non peggiorare la situazione. La risposta di freezing (congelamento) e di impotenza divenne per lei una strategia automatica di gestione di quel tipo di esperienza.

Ancora oggi i toni di voce elevati del fidanzato le attivano una risposta di allarme e di paura che la porta a ripercorrere, inesorabilmente, quell’autostrada. Essere consapevole, razionalmente, di ciò che le accade, tuttavia, non basta a far scomparire il problema. Nel momento in cui sente di stare per entrare nella solita autostrada, Paola deve imparare a imboccare una strada diversa.  E si tratta di un allenamento pratico, continuo, per riuscire a delineare percorsi di risposta alternativi. Come fare, concretamente?

Paola ha individuato il momento preciso in cui comincia a sentirsi sopraffatta: la gola le si chiude, sente una vampata nelle viscere e la forza alle gambe le viene meno.

Con Paola lavoriamo su come ritrovare un maggiore radicamento, un maggiore senso di sicurezza e di presenza in quell’istante. Lei trova efficace riportare l’attenzione da ciò che sta accadendo col fidanzato a se stessa, al suo respiro, alla percezione dei suoi piedi, appoggiati a terra. Questo le consente di non essere “trascinata” altrove (al tempo della sua infanzia) e di rimanere presente e più efficace in quel momento. Per ora Paola ha imparato a chiedere uno stop al fidanzato nel momento in cui, durante una discussione, i toni si scaldano. È qualcosa che le permette di non farsi travolgere dalla discussione e di riprendere, ad animi più sereni, le questioni in sospeso. Paola si è posta come obiettivo, tuttavia, quello di riuscire progressivamente a stare nella discussione senza il bisogno di dare subito degli stop. Sa che alzare la voce non è mai una soluzione, e le dispiace che il compagno arrivi a tanto, ma si rende anche conto che in un confronto animato può accadere, e vuole riuscire a gestire da adulta questa eventualità. Paola è in viaggio e sta facendo tutto il possibile per esplorare percorsi diversi da quelli che, in passato, seppur hanno rappresentato dei tentativi di gestione di situazioni difficili, hanno limitato le sue potenzialità.

Una sofferenza senza parole

Il lavoro sui blocchi emotivi al di là delle parole

Simona mi interpella via mail, raccontandomi brevemente il motivo della sua richiesta di aiuto e cercando in me e nel mio modo di lavorare (chiede delle sessioni di Somatic Experiencing) una rassicurazione rispetto alle sue paure: dover affrontare i suoi fantasmi più spaventosi e il terrore di non uscire dal vortice di sofferenza in cui si sente risucchiata.


La modalità di contatto scelta da Simona, un’email, mi dice già molto di lei e dei suoi timori: percepisco il suo primo incerto tentativo di avvicinamento come una sorta di “test”. Simone desidera disperatamente stare meglio, lavorare su di sé, ma teme di essere sopraffatta dai suoi vissuti emotivi. Mi sta implicitamente ma chiaramente chiedendo, attraverso la sua richiesta, di “andarci piano”, di aver bisogno di accostarsi in modo graduale alla sua sofferenza, e anche a me.


Io e Simona ci incontriamo dopo un paio di settimane: è una donna minuta, dall’aria spaventata. Quando si siede, in poltrona, non si appoggia allo schienale, ma rimane seduta “a metà”. Sebbene il suo corpo sia rivolto verso di me, quando mi parla ruota il capo verso destra, costringendola a guardarmi “di traverso”, quasi con la coda dell’occhio. Mi viene in mente l’espressione latina “obtorto collo”, a indicare un vissuto di costrizione, un’imposizione. Sembra che Simona sia lì con me ma che, per qualche verso, si stia forzando ad esserci.


Le mie impressioni non tardano ad avere conferma: Simona mi spiega di aver cercato me proprio per il metodo di lavoro in cui sono formata: Somatic Experiencing. Sa che questo approccio è corporeo, non necessariamente narrativo, e la cosa la rassicura molto. Mi spiega che, al momento, per lei sarebbe sopraffacente raccontare alcuni episodi della sua infanzia che stanno emergendo, per la prima volta, come flashback. Non potrebbe nemmeno farlo, per la verità, perché ha solo dei frammenti di memoria confusi, annebbiati, che però sono stati sufficienti a gettarla in un profondo stato di angoscia.
Ciò che mi chiede, e che per qualche altro terapeuta che ha precedentemente contattato ha rappresentato un limite insuperabile, è di lavorare sul suo passato senza verbalizzarlo, almeno per il momento.
La dimensione della narrazione, della parola, sono per ora troppo attivanti per lei. Non potrebbe tollerarle.
Comprendo profondamente la sua richiesta disperata di aiuto, un aiuto sensibile, delicato, che abbia cura dei suoi abissi interiori e che le consenta di avvicinarli in modo graduale. La rassicuro sul fatto che, se per il momento non vorrà, non avrà bisogno di dare parola ai suoi ricordi, ancora confusi e troppo angoscianti.


Ciò che potremo fare assieme, in una prima fase, sarà lavorare sulle sue risorse e sulle sue capacità di autoregolazione e di contenimento, per poi accedere alle emozioni più penose, che a quel punto sarà maggiormente in grado di contattare ed elaborare. Somatic Experiencing ci permetterà, attraverso un lavoro gentile di tipo corporeo, di rimettere mano ai suoi vissuti senza forzature e ri-traumatizzazioni.


Simona accoglie le mie parole con grande sollievo: per la prima volta si appoggia completamente alla sedia, vi si abbandona e scoppia in un pianto irrefrenabile. Mi avvicino cautamente con la mia poltrona alla sua, rassicurandola, e accosto i miei piedi ai lati dei suoi. Dopo un singhiozzare liberatorio, una volta calmatasi, mi guarda e mi dice: “Finalmente non mi sento più sola nel gestire questa cosa…”. “Non sei sola, Simona, io sono qui con te, al di là delle parole…”.

Come un cavallo nell’arena: il corpo che parla

Stefano è un omone: alto, muscoloso, statuario.
Quello che fin dal nostro primo incontro mi colpisce è che, sul divano di fronte a me, si siede “di tre quarti”. Come se fosse in posa per un ritratto. Non mi guarda mai frontalmente ma sempre “di sbieco”, perché il suo corpo è parzialmente ruotato sulla sua sinistra. L’immagine che mi arriva è quella di un cavallo spagnolo – che ho realmente conosciuto – abituato a entrare nell’arena, che reagiva all’avvicinamento fisico mettendosi “di traverso”, pronto a scartare di lato in caso di attacco.


Mi interrogo sul significato di questa postura: sarà, anche nel caso di Stefano, un atteggiamento difensivo? Non vuole relazionarsi “apertamente” con me? Sarà diffidenza o timidezza? Lascio queste domande in sospeso finché, un giorno, arriva il momento opportuno per condividere questa informazione. Stefano, infatti, parlandomi delle sue difficoltà relazionali, mi spiega che ha la sensazione di trasmettere agli altri un’immagine sbagliata di sé. Non sa come mai, ma crede di passare qualcosa che di cui non è consapevole e che condiziona l’interazione con gli altri.


Mi sembra il momento opportuno per comunicargli l’impressione che ha fatto a me, il suo “stare di traverso”.
Stefano ne rimane stupito, pare non essersi mai reso conto di quanto gli rimando. Si rende conto che questo modo di porsi, fin dalle prime battute di un’interazione sociale, potrebbe indisporre l’altro, a maggior ragione a fronte della sua stazza, di per sé importante, comunicando più chiusura che disponibilità.


Gli chiedo che cosa succederebbe se provasse, gradualmente, a raddrizzarsi.
Stefano è stupito ma curioso. Comincia a ruotare il suo corpo verso di me, frontalmente, e subito si blocca. Mi riferisce di provare, improvvisamente, una profonda angoscia. L’entità delle sue sensazioni mi suggerisce che ci sia un’esperienza traumatica di mezzo.
Gli chiedo se, per caso, non sia successo qualcosa di importante che abbia coinvolto la parte sinistra del suo corpo.
Stefano dopo qualche istante di riflessione sbianca: gli viene alla mente che – lo scorso anno – ha fatto un incidente quasi mortale in moto: un’auto, non rispettando uno stop, gli è arrivata addosso proprio dal lato sinistro. Le cure e la convalescenza sono state durissime.
Spiego a Stefano che, in quell’occasione, ha vissuto la rottura traumatica di un confine corporeo, proprio dal lato che ora, istintivamente, cerca di proteggere, non esponendolo apertamente al mondo.
Stefano è sconvolto: non credeva che quell’incidente fosse ancora così presente nella sua vita, che lo condizionasse a tal punto…senza che neanche lui ne fosse cosciente!


Il lavoro corporeo su quell’episodio permetterà successivamente a Stefano di reintegrare i suoi confini e il suo – intimo e implicito – senso di sicurezza personale.
Di certo questo aspetto non esaurisce la totalità delle fatiche relazionali di Stefano, ma si sa: la prima impressione conta, e Stefano ora può comunicare più liberamente, anche con la postura, il suo desiderio di entrare in relazione.

Paralizzato dalla paura

Quando il corpo si congela per “sopravvivere” a un pericolo

“Dottoressa, non riesco proprio a capacitarmi, una cosa del genere non mi è mai successa, me ne vergogno moltissimo”.

Michele mi racconta che, mentre lui e la sua collega passeggiavano tranquillamente in un parco durante la pausa pranzo, un cane, senza apparente motivo, li ha aggrediti. Michele ha da sempre paura dei cani, e in quel frangente, terrorizzato, si è paralizzato, non riuscendo a reagire. Non è stato capace di muovere un dito nemmeno per difendere la collega, cosa che lo ha sconvolto ancora di più dell’attacco subito.

“Non riuscivo proprio a fare alcun movimento, era come se fossi diventato di marmo. Avrei voluto gridare, fare qualcosa per proteggerci, allontanare quell’animale, ma era come se il mio corpo fosse impietrito…che figura…non potrò mai perdonarmelo”.

La risposta di Michele è una delle diverse possibilità di reazione che ha il nostro organismo a fronte di una minaccia. La prima strategia che attiviamo è quello del supporto sociale: se siamo in pericolo spesso ci viene istintivo chiedere aiuto agli altri. Ma a volte questo sistema di risposta fallisce: o perché non ci sono altre persone cui chiedere sostegno, o perché le persone presenti, per qualche ragione, non vengono percepite come protettive. È quest’ultimo il caso di Michele, che in compagnia di una ragazza minuta e impaurita, in assenza di altri nelle immediate vicinanze, si è sentito in balìa degli eventi.

La seconda possibilità che ha il nostro organismo a fronte di un pericolo è quella di attaccare (se valutiamo di poter avere la meglio sulla minaccia) o di fuggire (se invece riteniamo che lo scontro non deporrebbe a nostro favore).

Ma quando, per svariati motivi, percepiamo che la minaccia non può essere evitata né affrontata, allora il nostro corpo ha un’estrema strategia di risposta: quella di “fingersi morto”, di congelarsi (in termine tecnico chiama freezing). Proprio come fanno alcuni animali quando vengono predati. La strategia della morte apparente allontana il predatore, non interessato a cibarsi di un animale già privo di vita (e quindi potenzialmente non sano). È ciò che è successo a Michele, che si è trovato nell’impossibilità, pur desiderandolo, di muovere un solo muscolo.

Ma come è possibile che un uomo grande e grosso come lui abbia a tal punto paura di un cane, per giunta di piccola taglia, come quello che li ha aggrediti?

La risposta sta nella memoria traumatica di Michele: la sua fobia per i cani deriva proprio da un episodio accadutogli da bambino, attorno ai 4 anni, quando un pastore tedesco lo rincorse e, forse volendo solo giocare con lui, lo atterrò puntandogli il muso contro la gola. Allora Michele fu sopraffatto dal terrore. Nella sua memoria si impressero le sensazioni di non avere scampo e di non poter in alcun modo fronteggiare quell’animale.

La sua mente e il suo corpo, a fronte dell’attacco del cane al parco, hanno reagito come in quell’occasione, come se Michele avesse ancora 4 anni.

“Ora capisco che non ho avuto una reazione poi così anormale…e onestamente mi sento molto meglio…credevo di essere solo uno smidollato”.

Il lavoro sulla fobia di Michele ha radici molto lontane, ma il suo senso di efficacia personale è recuperabile nel presente. La consapevolezza di aver avuto una risposta giustificata e non “codarda” rappresenta il primo passo verso il recupero di una maggiore resilienza.

Senza rinunciare allo splendore: stare, come una ginestra…

Un lavoro sulle nostre risorse interiori

Mila piange, di fronte a me, quasi sopraffatta. Non le rimangono che le sue lacrime e non riesce a vedere una luce, una possibile fine alla sua sofferenza. La conosce bene, è da tanto che la sente, dentro di sé. Così tanto che quasi non ricorda come sia sentirsi in pace.
Ha sempre lottato molto nella vita e ora, le pare, se ne stanno andando le forze.

“Qual è la sensazione, che riesci a immaginare, opposta a quella che stai provando ora?” Le chiedo.

“Di leggerezza, di sollievo…vorrei tanto non sentire più niente…spegnermi. Mi sembra che non ci sia soluzione…”.

Prima che riparta a verbalizzare quanto sta male e le ragioni della sua disperazione, la interrompo dolcemente: “Mila, capisco che vorresti solo far finire tutto questo. Ma non possiamo cancellare nulla. Possiamo solo cercare di trasformare le cose. E quando non possiamo cambiare quello che la vita ci porta, possiamo cercare di cambiare noi stessi. Partiamo da qui: mi descrivi meglio la leggerezza di cui mi parlavi? Vorrei che immaginassi una situazione che rappresenti questa leggerezza”.

Dopo un lungo sospiro: “beh…come quando da bambina andavo sull’altalena, spensierata, gioiosa…una volta con un’amica abbiamo passato quasi tutto un pomeriggio a spingerci, a turno, sull’altalena nel giardino di nonna…un giardino pieno di fiori”. Le compare un sorriso sulle labbra, le spalle si decontraggono, il respiro di regolarizza.

“Bene, Mila, vorrei che ora tu mi descrivessi nei dettagli quell’esperienza: i colori, i suoni, le sensazioni sulla pelle che hai provato, il movimento…”.

Mila comincia la descrizione e man mano che si immedesima in quella scena vedo il viso e il suo fisico cambiare, rilassarsi. Al termine della sua esplorazione le chiedo di notare come stia ora il suo corpo.
Mila si commuove: si rende conto che sta sorridendo e che sente un’espansione nel suo petto, all’altezza del cuore. Erano anni che non si sentiva così. Pensava di non riuscire più a provare certe cose.

Le spiego che questa è una importantissima risorsa che ha il nostro sistema: potersi autoregolare e riacquistare uno stato di maggiore quiete e benessere, a seguito di una forte attivazione nervosa.
Si chiama, con un termine tecnico (derivato dall’approccio di Somatic Experiencing) “pendolazione”: oscillare da momenti di forte sollecitazione a momenti di recupero.
Imparare a farlo intenzionalmente ci rende più forti, aumenta la nostra “resilienza”, ovvero la capacità di far fronte e superare le difficoltà, le perturbazioni, gli ostacoli a cui siamo sottoposti.

In natura possiamo osservare meravigliosi esempi di resilienza, le dico: uno di essi, a noi familiare, è la macchia mediterranea. Forte, resistente, ricompare sempre anche dopo eventi avversi. Una delle piante della macchia mediterranea è la ginestra: ha radici profonde, è flessibile ma robusta, cresce anche su terreni difficili, e per di più fa fiori gialli profumatissimi, intensi come la sua forza vitale. “Ecco, Mila, dobbiamo imparare insieme a stare come le ginestre: vigorose ma adattabili, in pieno sole, senza rinunciare al nostro splendore…”.

Quando dietro una difficoltà scolastica c’è un’esperienza traumatica

“Samuel, so che a volte è faticoso toccare certi argomenti, ma quello che ti succede mi incuriosisce molto e penso sia importante esplorarlo un po’. Vorrei capire insieme a te in che occasione, per la prima volta, ti è successo di associare una parte del corpo a un grosso spavento. Sono qui con te in questa esplorazione, se dovessi incominciare a provare un forte disagio dimmelo.”


Samuel, un ragazzino biondo di 12 anni, un visino da angelo impaurito, si fa pensieroso. Ogni volta che sente anche solo nominare una parte del corpo, prova una nausea fortissima, fino al vomito, che ultimamente gli rende impossibile frequentare alcune lezioni di scienze a scuola.
Alla mia richiesta sembra sorpreso: non aveva mai pensato che il suo disgusto potesse essere legato alla paura.


“Ora che mi dici questo mi viene in mente che da piccolino, avevo 3/4 anni, mi è successo un incidente: giocando al parco sono caduto e mi sono tagliato il sopracciglio. Ero con mio padre. Ricordo che mi è uscito molto sangue e lui si è spaventato tanto.
Siamo corsi in auto al pronto soccorso e lì mi hanno tenuto fermo per mettermi i punti. Io ero terrorizzato, cercavo di liberarmi, ma mi hanno bloccato. Mi sta tornando alla mente l’odore orribile del disinfettante. Mi sta venendo da rimettere.”


Chiedo a Samuel di stoppare la scena, come se fosse un film, e di “evocare” accanto a sé la sua nonna, per lui così importante, immaginando di ricevere da lei ciò che potrebbe al momento rassicurarlo di più.
Samuel è sollevato dal distogliere il suo pensiero da quella scena. Immagina la nonna al suo fianco, il suo profumo, così familiare per lui, e cambia subito colore: le sue guance tornano rosee, il suo sguardo si ammorbidisce, il corpo di distende e vedo il suo respiro farsi più ampio.
Gli propongo di rimanere accanto a nonna per tutto il tempo che gli serve.
Dopo qualche minuto Samuel riapre gli occhi, che aveva chiusi, e con aria stupefatta mi dice: “è la prima volta che pensando al sangue riesco a non rimettere.”


“Certo Samuel, in quell’episodio, da piccolino, tutto è avvenuto troppo in fretta e troppo intensamente. Il tuo organismo in quella circostanza era molto attivato. In questi casi a volte succede qualcosa di inaspettato: degli elementi si mettono assieme, si aggregano in modo imprevisto. Come quando, se mischi troppo velocemente acqua e farina, si formano dei grumi. Per non farli formare, o per scioglierli, diventa allora importante ridurre la velocità con cui mescoli gli ingredienti, fare attenzione, perché possano trasformarsi in qualcosa di digeribile.
La vista del sangue, la tua paura, l’odore disgustoso dei disinfettanti si sono mischiati nell’esperienza che hai fatto di quel momento. E non sei mai riuscito a digerire quei grumi.
Ora hai imparato che alla giusta velocità e con la giusta attenzione puoi tollerare certe immagini. Ci lavoreremo assieme.”