Il potere del rito

Giulia è una ragazza di 22 anni.

Nata in una famiglia molto instabile, ha sempre avuto la sensazione di “non appartenere a nessuno”. I legami familiari non sono mai stati fonte di sicurezza per lei. Non avere avuto un “contenitore” solido a cui fare riferimento – ne è consapevole – le ha fatto fare esperienze anche impulsive e incaute. Perché – in un contesto caotico – non ha mai imparato ad ascoltarsi e a conoscere veramente se stessa. Ha quindi spesso agito sull’onda del momento, trascinata da eventi da cui si sentiva travolta.

Solo oggi, che prova un malessere generale, un senso di tristezza senza una precisa ragione, ripensa con una diversa consapevolezza a tutti gli episodi che le sono accaduti.

Uno di questi risale a qualche anno prima, quando le accadde di scoprirsi incinta. Per lei fu un momento molto drammatico. Non tanto per il timore della reazione dei suoi genitori (a cui non lo ha mai detto). Ma perché sapeva che avrebbe voluto significare abortire. Non era certo pronta e nelle condizioni di prendersi cura di un bambino. Sentiva – almeno allora – che quella era la sola strada da percorrere. In qualche angolo del suo cuore, però, si nascondeva un dispiacere inascoltato. Almeno finora.

Per la prima volta nella sua vita Giulia tornava a pensare, e a parlare, di quell’episodio.

Ultimamente, a dire il vero, era diventato un chiodo fisso: l’accaduto la perseguitava, non la faceva sentire a posto con la coscienza.

Abbiamo lavorato molto su quanto avvenuto. Esplorando i suoi pensieri e dando spazio alle emozioni. Giulia, se non altro, ora era in grado di riaccedere a quel ricordo senza disperarsi. Ma qualche tassello dentro di lei ancora non era al suo posto.

È stato a quel punto che le ho parlato di come, talvolta, gli eventi tocchino tematiche universali, primordiali, archetipiche. In questi casi, in cui si condensano emozioni, significati profondi, che ci connettono con il  mistero della Vita, è a quel livello – oserei dire sacro – che dobbiamo entrare: in quel campo, dove la morale non è contemplata. Un campo di emozioni sublimi e tremende, di spiriti, di immagini epiche, di forze sovrastanti, di spaventosa bellezza e di innocente grandiosità. Quando qualcosa, a questo livello, è perturbato, può capitare che non basti fare pace con i nostri ricordi e le nostre emozioni. A volte dobbiamo “restituire” qualcosa che nutra e plachi quel campo enigmatico e potente, dove sembra che gli equilibri si siano turbati. In che modo? Parlando il linguaggio, simbolico ed evocativo, di quella terra misteriosa, che qualcuno chiamerebbe inconscio. Ecco allora che il rituale, il rito, rappresenta un ponte tra la dimensione cosciente e quella onirica, simbolica, trascendente.

Giulia lì per lì mi ha guardato un po’ perplessa. Il primo contatto con queste tematiche lascia sedotti o, più spesso, attoniti, smarriti.

Qualche settimana più tardi, però, Giulia mi ha riportato questo fatto: poco prima dell’aborto, caso vuole, le avevano regalato un uccellino. Le era sempre piaciuto molto, ma provava anche una gran pena per quella creaturina destinata a passare la vita in gabbia. Tuttavia non aveva mai avuto il coraggio di liberarlo. Fino a qualche giorno prima. Giulia ha raccontato di aver sentito una spinta fortissima ad avvicinarsi alla gabbia. Guardando il suo uccellino improvvisamente le è stato chiaro cosa fare: ha aperto la gabbia, ha preso delicatamente l’animaletto tra le sue mani. Lo ha ringraziato, gli ha chiesto perdono e gli ha detto che lo amava. In quel momento, mi confessa Giulia: “era come se stessi parlando alla creatura che non ho fatto nascere.”. Infine, ha liberato tra le lacrime l’uccellino. Quel gesto, denso di significato simbolico, ha rimesso “ogni tassello a posto”. Ora Giulia mi racconta di questo episodio con una voce e uno sguardo sereni. Ora, mi confessa, ha capito cosa volevo dire, con quello strano discorso…

Le porte della dimensione più intima e sacra si sono dischiuse e le hanno permesso di ristabilire un equilibrio, come – parole sue – “se rispondessi a una legge naturale”.

Uno, nessuno e centomila

Stefania è una donna di circa 25 anni. Nonostante la giovane età ha fatto un lavoro su di sé molto articolato, profondo, che ancora oggi, dopo un anno circa, prosegue.

Il motivo che l’ha portata da me è stato il vissuto di una devastante perdita di senso. Quando l’ho incontrata era estremamente disorientata, nulla le sembrava che valesse più la pena di essere vissuto.

L’angoscia e lo smarrimento la travolgevano. “Non so più chi sono” (nessuno) era la frase che più spesso ripeteva all’inizio del suo percorso. Io le rispondevo che quando arriva il bàratro, è l’Anima che butta all’aria le carte per farci cambiare gioco: per iniziare una caccia al tesoro in cui la conquista finale è l’Anima stessa.

Il lavoro con Stefania si è focalizzato quindi, per lungo tempo, sul darle gli strumenti per incontrare la parte più autentica di Sé: l’ascolto delle proprie sensazioni, la sospensione del giudizio, il rinforzo e il consolidamento della fiducia in se stessa. Ciò è stato possibile non tanto attraverso disquisizioni o ragionamenti mentali. Ma permettendole di attraversare, con il supporto della mia presenza, le sue emozioni e i suoi sentimenti più difficili e spaventosi. Stefania ha avuto il coraggio di scendere nel suo inferno, in modo molto concreto: lasciando fluire dentro di sé le emozioni progressivamente più temute e facendo l’esperienza di poterle tollerare. Il vissuto non ha bisogno di parole: una volta che accade, nessuno lo può smentire e resta testimonianza di una capacità, di una possibilità che rimane come bagaglio incontestabile dell’individuo.

Stefania è quindi arrivata, dopo diversi mesi, a percepirsi come una persona ricentrata, sufficientemente solida, integra (uno). Ha potuto individuare e riconoscere quel nucleo di sé su cui fare affidamento, a cui tornare in caso di smarrimento, da contattare per ritrovarsi e per recuperare un senso di pace e di fiducia.

A volte i percorsi terapeutici finiscono qui. Quando arriva la sensazione di “avercela fatta”, di aver esplorato e superato la propria “selva” interna, di aver fronteggiato i propri demoni interiori. A volte vanno ancora oltre.

E il lavoro terapeutico diventa, più che un viaggio infero, un’esplorazione che ha anche le sfumature della sperimentazione divertente e divertita.

Succede quando, certi di poter tornare nel nostro “centro”, ci permettiamo di percorrere terreni insoliti, nuovi, che magari mai avremmo creduto di poter attraversare. Non si tratta semplicemente di mettere in atto atteggiamenti o comportamenti diversi da quelli automatici e consolidati: questo è qualcosa che in ogni fase della terapia è oggetto di attenzione.

Ma di riuscire a non identificarsi con rigide immagini di sé, con ruoli, con quella che si ritiene la propria “personalità”. Potrebbe sembrare un obiettivo contraddittorio rispetto a quello di riconnettersi con la propria essenza. Eppure non lo è: il nostro Sé sta “dietro” e al di là di tutte le possibili identificazioni che l’Io mette in scena (centomila). Allenarsi ad andare oltre e al di là di quello che riteniamo essere il nostro “vero Io” è qualcosa che apre a nuove consapevolezze e amplia la coscienza.

Costruire e decostruire è il moto stesso della vita, che per sua natura “pulsa”. Far fluire questa possibilità dentro di noi ci riconnette con una legge dell’universo, dove tutto è onda.

Ecco allora che diventa possibile, in sessione, avere uno scambio del genere:

Stefania: “…Ho capito dottoressa, mi risuona…Ce la posso fare”.

Io: “Certo Stefania, ce la puoi fare, ma anche no…”.

E ridere insieme, consapevoli del fatto che, se anche le esplorazioni di Stefania non ottenessero il risultato che lei spera, andrebbe bene lo stesso.

Il percorso è la mèta.

Porsi le giuste domande

Serena è una ragazza sulla trentina. Visibilmente timida, “posata”, mi racconta della sua situazione familiare (vive ancora con sua mamma, che adora), e mi spiega come ogni cosa, per lei, sia fonte di ansia e inquietudine. Soffre di attacchi di panico, motivo per il quale ha chiesto il mio aiuto.

Di recente il tema che la angoscia di più riguarda come dire a sua madre che sta valutando di chiudere la relazione con il suo fidanzato storico, Daniele. Mi spiega infatti che Daniele è amatissimo dalla sua famiglia e non saprebbe come giustificarsi, cosa raccontare per spiegare la sua decisione.

Candidamente, lì per lì le chiedo: “Ma perché dovresti spiegare la situazione o giustificarti?”

Serena si paralizza, mi guarda sgomenta e balbetta qualche parola. È spiazzata, dice che lo ha sempre fatto e di non aver mai considerato di poterlo evitare.

Verrò a sapere da lei stessa, più avanti nel corso del nostro lavoro, che quella mia domanda ha rappresentato per lei uno squarcio nel suo modo di vedere le cose.

Serena, infatti, non aveva mai messo in discussione il fatto di dover rendere conto di TUTTO a sua madre. E questo, il rapporto simbiotico tra lei e la mamma, si sarebbe poi rivelato il nodo centrale di tutto il suo lavoro, focalizzato sulla sua possibilità (e diritto) di essere se stessa, distinta dai suoi familiari, senza che questo volesse dire tradirli o voler loro meno bene.

Serena da quel mio primo interrogativo ha sentito una scossa che ha messo in discussione il suo consolidato sistema di credenze.

Saper porre le giuste domande, più che avere le risposte, è ciò che smuove di più il terreno del nostro mondo interno. L’arte del porre le domande è uno degli strumenti a mio avviso più importanti nelle mani di ciascuno di noi. Entrare in una prospettiva di cambiamento del punto di vista da cui guardare e approcciare il problema è ciò che ne permette la risoluzione. Per questo da soli, da dentro il problema, è difficile assumere un angolo di osservazione diversa.

Una domanda efficace è quella che mette luce su aspetti fino ad allora rimasti in penombra se non al buio. Come dice anche un noto aneddoto, è facile cercare qualcosa alla luce di un lampione. Ma se non la si trova, è probabile che sia nell’oscurità circostante. Solo un folle o un ubriaco si ostinerebbe a cercarla solo laddove è illuminato.

Una buona domanda accende un faro su una porzione di realtà non ancora considerata. Apparentemente può sembrare una divagazione, ma il più delle volte porta a nuove scoperte. Che poi emergono spontaneamente.

In alcune occasioni, infine, le persone si pongono delle domande addirittura fuorvianti. Chiedersi “che nome abbia il proprio disturbo” o “perché si provi così tanto dolore” non porta alcun vantaggio né alcuna consapevolezza aggiuntiva. In questi casi sarebbe più interessante mettere a tacere la parte razionale e imparare a stare a contatto con il proprio sentire.

Farsi le domande giuste, o smettere di farsi troppe domande razionali o guidate dal bisogno di controllo, è dunque un lavoro centrale in un percorso di crescita personale. Ancora più importante del darsi risposte. Poiché le risposte, spesso, sono tentativi di “sedare” inquietudini che andrebbero solo ascoltate, più che etichettate.

Un approccio integrato: dalla teoria alla pratica

Nel corso del mio percorso professionale ho sempre avuto la curiosità di esplorare nuovi approcci, di integrare nella mia pratica strumenti, modalità e letture che potessero rispecchiare e supportare un orientamento complesso e integrato all’essere umano, inteso come unità di mente, corpo e spirito. La cornice teorica può sembrare chiara e definita. Ma cosa significa esattamente, nella pratica, lavorare con un approccio integrato? Credo che nulla possa essere più chiarificatore di un piccolo esempio clinico.

Marta arriva da me con una storia di abusi infantili. Traumi così profondi richiedono inevitabilmente uno sguardo complesso, attento, integrale alla persona. Nessun dettaglio può essere lasciato al caso o trascurato.

Il lavoro con Marta è stato molto intenso e proficuo fin da subito, avvantaggiato da una sua attitudine alla meditazione, derivata da anni di pratica yoga.

Nel corso di una delle nostre sedute Marta mi racconta del suo disagio quando deve dormire in un hotel o in una casa diversa dalla sua. Esplorando le sensazioni fisiche legate a questo disagio emerge sempre più chiaramente che si tratta di uno stato di allerta, di paura. Ascoltando questo timore Marta riesce a individuare che è legato all’idea che qualcuno possa entrare mentre dorme dalle finestre o dalla porta, cosa che ha sperimentato da bambina. Con Marta quindi siamo partire  da un lavoro di ascolto corporeo per recuperare una cognizione (pensiero), a sua volta legato a un ricordo. Entrambi gli emisferi cerebrali sono coinvolti, così come le aree preposte all’elaborazione delle emozioni (allerta, paura), quelle connesse al processamento più razionale delle informazioni  (il pensiero di un’intrusione) e alla memoria (il rimando all’esperienza infantile). L’attivazione di più circuiti neuronali è un’ottima premessa per la possibilità di riprocessamento dell’esperienza e la creazione di nuovi significati. Marta già realizzando la connessione tra passato e presente riesce a trovare un po’ di sollievo. Ma non basta. Bisogna porre le basi per una nuova risposta, per una nuova gestione della situazione critica. Così chiedo a Marta di connettersi alla sua emozione di paura e di darle una forma, di immaginarla. Marta visualizza una sorta di guscio attorno a sé: un guscio che – dice Marta – rappresenta come lei si sentiva da bambina. Bloccata, impotente, sconnessa dal mondo esterno.

La invito a tenere presente che ora è adulta e che ha molte più risorse, quindi le chiedo di immaginare se c’è qualcosa di diverso che vorrebbe cambiare in quella sua visualizzazione. Marta via via mi descrive un processo che fa accadere nella sua mente: di rompere, con sforzo ma con determinazione, quel guscio. La sua emozione è visibile mentre lei, a occhi chiusi, procede nello scenario immaginario in questa impresa. Riesce finalmente a liberarsi dal guscio, può sentire la luce e il calore sulla sua pelle, può alzarsi, muoversi liberamente. Ma non è ancora terminato il suo processo. Un po’ alla volta vede il guscio sgretolarsi, diventare polvere. Lo scenario improvvisamente e spontaneamente si trasforma: da questo mucchio di polvere, che è il guscio sgretolato, divampa un fuoco, che via via diventa sempre più vigoroso, imponente. Le fiamme ora sono alte e lei, adulta, danza in modo selvaggio e primordiale attorno a questo rogo.

La visualizzazione di una scena così potente e arcaica, quella di una danza ancestrale attorno a un fuoco, il fuoco della vita, mi fa capire che si è attivato un contenuto archetipico, che il suo Sé, o in altre parole la sua Anima, sta parlando, è riemersa, si sta consolidando. Ne avrò conferma da Marta stessa quando, terminata l’esperienza, mi dirà di non aver mai provato nulla di simile, di aver contattato un senso di potenza e di pienezza straordinari, di essersi sentita tutt’uno con la madre terra, col fuoco, con la vita. La sua coscienza ha avuto accesso a un livello diverso, si è aperta ad uno stato di trascendenza che andava al di là di passato e del tempo, in una condizione senza tempo e senza paura.

Questo esempio di lavoro con Marta a mio avviso ben rappresenta cosa significhi lavorare con corpo, mente e anche spirito, in un tutt’uno che apre le porte a uno stato dell’essere nuovo, potente e creativo.

Il silenzio nei colloqui

La relazione tra operatore e cliente è caratterizzata da un bagaglio di emozioni, sguardi, gesti, parole, pensieri, fantasie, immagini, racconti, speranze e sentimenti che creano e disvelano, via via, un mondo sempre più condiviso.

I silenzi, le pause, le attese, punteggiano questi scambi con un significato e una intensità, di volta in volta, diversi e carichi di valore.

Come in ogni altro ambito, il silenzio in colloquio può avere molti significati ma – a differenza dei consueti scambi interpersonali – diventa esso stesso oggetto di attenzione, di cura, e strumento di lavoro. Intuire ciò che non viene detto, rispettare un momento di emozione o di riflessione, concedersi e concedere una pausa al sentire o un tempo per una chiarificazione interna possono diventare perle preziose all’interno del processo di lavoro.

Un silenzio che emerge dal cliente è sempre denso di senso: può rappresentare un momento di riflessione, di emozione. Ci sono silenzi di impotenza, di rassegnazione, di prostrazione dolorosa. Oppure silenzi di imbarazzo, di incertezza, di timidezza o di paura.

Ci sono silenzi manipolatori e silenzi autentici. Silenzi intimoriti e silenzi sfrontati. Silenzi disperati o furenti. Silenzi perpetrati con ostinata determinazione e silenzi di annichilimento.

E ogni volta la comprensione e l’ascolto del senso che esprime un’assenza di parole è qualcosa di prezioso, che diviene oggetto di osservazione e, spesso, di condivisione in colloquio. A volte a un silenzio non occorre nessuna parola di chiarificazione. Esige solo rispetto.

Succede che anche l’operatore, nel corso di un colloquio, decida di tacere.

Quando un grande dolore viene condiviso, o quando è in atto una profonda elaborazione emotiva, le parole non servono. La presenza, il contatto visivo e umano con l’altro, sono tutto ciò che serve.

Dare spazio e saper stare, insieme all’altro, in un’esperienza emotiva intensa, senza bisogno di “razionalizzare”, è qualcosa di estremamente significativo. Riconosce all’altro la legittimità e la preziosità della propria esperienza umana, ridotta all’essenza, in quella forma nucleare e pre-verbale che, per certi versi, rimanda alla prima connessione tra mamma e bambino; una sintonizzazione che, spesso, è stata difficile o problematica.

A volte un silenzio dell’operatore può rappresentare un’esperienza frustrante, ma non necessariamente negativa. Imparare a tollerare la frustrazione e riassumersi la responsabilità del proprio vissuto, senza cercare l’approvazione di quest’ultimo può rappresentare un grande passo evolutivo, soprattutto per chi è particolarmente dipendente dal giudizio e dal consenso altrui.

Un silenzio può diventare anche uno strumento di amplificazione per un messaggio che l’operatore sceglie di dare attraverso un canale non verbale: uno sguardo, un gesto, un’espressione del volto.

Oppure può essere usato come un potente fattore motivante per spingere l’altro fuori dalla sua zona di confort: affinché la persona, infrangendo finalmente il silenzio, riesca a superare la sua chiusura, ad attivarsi, a fare un passo verso l’altro.

Una pausa più o meno prolungata può anche essere utilizzata per introdurre con maggiore enfasi una considerazione, una riflessione, un feedback su cui l’operatore desidera che il paziente riponga tutta la sua attenzione.

L’assenza di parole è, in conclusione, una parte integrante ed estremamente preziosa della relazione di cura. Come accade spesso, pieno e vuoto si alternano in una continua danza: senza momenti di sospensione non ci sarebbero quei passi che rendono possibile la magia.

Voglio raccontare un paio esperienze, che rispecchiano dei possibili livelli di intervento – tra i mille possibili- aventi come obiettivo il supporto e la stimolazione, nella persona che chiede aiuto, delle sue risorse, il superamento dei suoi limiti e dei suoi blocchi emotivi, spesso legati ad esperienze traumatiche che agiscono a livello inconsapevole. Si tratta di due interventi che si avvalgono proprio del potere del silenzio.

Il primo esempio che voglio portare è quello di Marta, una professionista molto in gamba, con un Io sufficientemente strutturato, molte risorse, e un percorso pregresso di analisi classica che le ha dato tante consapevolezze ma non l’ha aiutata fino in fondo a gestire le crisi di ansia che, spesso, la attanagliano. Ha chiesto il mio aiuto sapendo che utilizzo Somatic Experiencing. Il lavoro con lei è stato intenso e molto efficace. L’ansia è stata finalmente superata ma un giorno, durante uno dei nostri colloqui, emerge un dolore profondo al petto. Esplorando questa sensazione, Marta rievoca immediatamente un evento luttuoso e ancora doloroso per lei: la morte – a pochi giorni dalla nascita – del primogenito tanto desiderato e amato. La accompagno ad attraversare questo dolore. Il suo corpo si scuote per i singhiozzi, si ripiega su se stesso, dalla gola esce un lamento strozzato. Sono lunghi minuti di disperazione, di strazio, in cui il suo corpo è piegato e sopraffatto dal dolore. Non c’è nulla da dire. Le chiedo solo il permesso di avvicinarmi, di appoggiarle delicatamente la mano tra le scapole, a sostegno della zona del cuore. Mentre lei cavalca l’onda del suo dolore, lasciandosi attraversare completamente da quest’ultimo, io sono con lei. Accolgo il suo vissuto, gli do un contenimento (rappresentato dalla mia mano a contatto della sua schiena), “scarico” a terra tutta l’energia che si muove in quel campo, sono silenziosa ma testimone partecipe della sua discesa negli abissi. Non una parola, non ce n’è bisogno, sarebbe un’interferenza. Il sentire profondo trova altri canali di espressione, e di comunicazione. Io sono con lei, nel suo inferno, le tengo la mano facendo, per lei, quel lavoro di radicamento e di ancoraggio al presente che impregna il campo e le permette di non lasciarsi inghiottire dal dolore. Fintanto che, cavalcata l’onda, Marta piano piano riemerge, si riassesta lentamente, torna nel qui e ora, e mi ringrazia con un lungo, silenzioso abbraccio. Mi dirà, poi, di non aver mai potuto vivere in questo modo il suo dolore: senza tentativi di consolazione o futili commenti.

Il secondo caso di cui voglio raccontare è quello di Fabio, un ragazzo con una storia difficile di abusi infantili. Fabio ha sviluppato una modalità di funzionamento per cui, a fronte di qualcosa che lo mette a disagio o lo fa stare male, si dissocia dal proprio corpo e inizia a rimuginare in  modo ossessivo e distruttivo. Il nostro lavoro sul recupero del suo sentire è stato lungo e delicato. Tenere Fabio presente a se stesso, anche all’emergere di emozioni spiacevoli, è stato impegnativo e ha richiesto tutta la mia attenzione per evitare di riattivare in lui dei vissuti di intrusione ma, contemporaneamente, stimolarlo a rimanere in ascolto e consapevole del suo sentire. Non dimenticherò mai la prima volta che – dopo molto “allenamento” –  Fabio, contattando un tema doloroso, si è permesso di far scendere delle lacrime dal suo viso. In quel momento abbiamo passato lunghi istanti di silenzio assieme in cui io, lì per lì, non ho fatto altro che posare su di lui in modo discreto il mio sguardo amorevole. In questo caso non c’era né una “sfida” alle sue resistenze, né un contatto (sarebbe stato fuori luogo ed eccessivo per la storia di questo ragazzo). Solo un semplice e rispettoso silenzio di accoglienza, di compartecipazione, di estremo rispetto per ciò che si stava dispiegando. Fabio, commentando poi quei momenti, mi ha confessato che, se avessi parlato, sarebbe “svanito l’incantesimo” e sarebbe scappato – com’era solito fare – nella sua mente.

Il silenzio che parla

Oggi spesso si parla – ad esempio nelle pratiche meditative – del valore di “porre a tacere” la mente. Ciò avviene – non a caso – in un momento storico e culturale in cui, in Occidente, c’è un movimento di rivalorizzazione della de-crescita, della semplificazione; in cui c’è una rivalutazione del “meno”, del vuoto, inteso non come mancanza ma come spazio che possa incontrare e accogliere ciò che arriva.

A fronte della iper-stimolazione a cui siamo quotidianamente sottoposti, non stupisce che nasca un’esigenza di “epurazione”, di ritorno all’essenziale, di quiete, di alternativa al frastuono e all’attività convulsa.

Interrogandomi in questo periodo storico di grandi contraddizioni sul valore del vuoto, sul senso dell’assenza, ho focalizzato la mia attenzione su quanto, anche nella comunicazione verbale – una delle peculiarità dell’essere umano – la mancanza di parole, il silenzio, possa in realtà essere significativo e denso. Ecco, di seguito, alcuni dei significati che il silenzio può assumere.

Nel dubbio…meglio tacere

La mancanza di parole in una conversazione, in risposta a una verbalizzazione o a un comportamento altrui, spesso è percepita come una debolezza, come un’incapacità nel “tener botta” allo scambio con l’altro. Il prendere tempo, per ascoltare se stessi e far chiarezza rispetto a ciò che si desidera o meno, è invece un atto di grande forza, di grande rispetto di sé (perché consente di ritagliarsi uno spazio di ascolto) e dell’altro (perché può impedirci di re-agire, sull’onda dell’emozione, e di rimandare una risposta più centrata ed efficace).

Il silenzio come resistenza passiva

A volte un silenzio ostinato, imperterrito, inesorabile, può diventare una grande arma di provocazione o di svalutazione dell’altro. Il trincerarsi dietro a un imperturbabile mutismo può trasformarsi in un attacco passivo aggressivo, che annulla l’altro e lo rende invisibile, trasparente, inconsistente.

Silenzio come chiusura impotente

Una qualità diversa, ma non meno difficile da gestire, è quella del silenzio derivante da un senso di impotenza, da una sorta di “congelamento” che toglie ogni energia ad azioni e parole. Il rumore del silenzio può diventare assordante, sovrastare ogni altra possibilità e far cadere chi lo prova in un profondo senso di sconfitta e prostrazione.

Il silenzio come spauracchio della morte

Qualcuno non tollera l’assenza di parole, di suoni, di rumori, tanto da vivere con estremo disagio il silenzio. Quello che si potrebbe definire come un “horror vacui” acustico, in realtà, tradisce un terrore ben più profondo: quello del vuoto interno, dell’angoscia, del senso di morte.

Silenzio come ascolto, di sé e dell’altro

Tacere, per dare uno spazio di ascolto a sé o all’altro, rappresenta uno dei valori più preziosi del silenzio. Solo in un tempo di sospensione del dire e del fare, e in un momento di attenzione e percezione di quanto accade dentro e fuori di sé è possibile davvero sentire se stessi e gli altri. Un sentire che non ha bisogno di dichiarazioni o fatti. Un esserci, con la nostra presenza, la nostra consapevolezza e il nostro vissuto.

Un silenzio carico di emozione

A volte le parole non arrivano quando c’è una grande emozione. Non solo un’emozione negativa, ma anche positiva. Essere inondati da un’emozione può essere estremamente sopraffacente o esaltante, e quando si toccano questi estremi dell’esperienza emotiva spesso la voce ci manca, le parole si bloccano, il pensiero stesso sembra svanire. Diventiamo puro sentire. In qualche occasione questa esperienza può essere difficile da sostenere. Ecco perché è importante avere gli strumenti per riuscire ad autoregolarsi.

Silenzio contemplativo

Un’esperienza del tutto particolare è quella in cui percepiamo una sorta di stato “di grazia”, di quiete e di serenità profondi, in cui ci sentiamo connessi con tutto il resto dell’universo. In questo caso il silenzio, sacro e contemplativo, sembra la condizione naturale dell’essere. Non servono parole, e anche descrivere verbalmente questo vissuto diventa riduttivo.

Silenzio in terapia…ma questa è un’altra storia

Un significato del tutto particolare assume il silenzio in terapia, ma questo sarà tema di riflessione in un prossimo articolo.

“Intrappolata nella tela”

Un caso di aracnofobia

Monica ha lavorato con me (quando ancora ero psicoterapeuta) per diverso tempo, e la tematica per cui è arrivata l’ha portata a numerose consapevolezze e a un cambiamento sostanziale della sua vita e del suo modo di affrontarla.

Proprio sull’onda delle nuove pieghe che ha preso la sua esistenza, a un certo punto si è decisa ad affrontare un’avventura che rappresentava per lei il sogno di una vita: addentrarsi nella foresta amazzonica con un gruppo di viaggiatori. Aveva sempre rimandato la realizzazione di questo sogno per quello che viveva come un vero e proprio handicap: un terrore incontenibile per i ragni. Al solo pensiero provava un disgusto e una paura tali da iniziare a sudare e sentirsi svenire. Di fatto, quando ne vedeva uno, spesso perdeva i sensi.

Monica sapeva che, tra gli strumenti di lavoro che utilizzavo, rientrava anche l’EMDR (Eye Movement and Desensitization Reprocessing), e mi chiese di lavorare con questa tecnica sulla sua fobia.

Monica accettò di lavorare sull’episodio più antico che ricordava in proposito: quando, a soli 8 anni, in campeggio coi genitori, ebbe la disavventura di posare lo sguardo su un ragno grande quanto una pallina da ping pong, peloso, al centro di una ragnatela. In quell’occasione Monica svenne e da quel momento rifiutò di rimanere oltre in campeggio, provocando grande scompiglio in famiglia.

Durante il lavoro, mentre Monica manteneva il focus sull’immagine di quel ragno, che ricordava come se lo avesse visto ieri, faticava a non sentirsi male.  

Le tornavano alla mente le sensazioni che aveva provato in quel momento, il senso di mancamento, la voce e poi il viso dei genitori al suo risveglio…sua madre…improvvisamente ebbe un sussulto.

Monica è un’appassionata d’arte e le venne in mente l’opera di Louise Bourgeois, un’enorme scultura rappresentante proprio un ragno, intitolata “maman” (mamma, in francese). D’un tratto qualcosa scattò dentro di lei, trasalì. Appena riuscì a trovare le parole mi riferì di aver colto, per la prima volta, un’associazione tra la sua paura per i ragni e la sensazione di essere in trappola che lei provava con la madre, donna estremamente forte, severa ed esigente nei suoi confronti. Le tornò alla mente quando, alle elementari, tornando a casa con una nota della maestra – per essere stata troppo chiacchierona a lezione – al pensiero di dover confessare la cosa alla madre le prese un terrore tale da farle venire un mal di pancia che la costrinse due giorni a letto, in preda a terribili crampi.

Monica rimase sconcertata nel constatare che, da qualche parte nella sua mente, il suo vissuto di essere costantemente sotto minaccia, tra le “grinfie” intransigenti e spaventose della madre (che aveva scoppi di ira terribili) si era sovrapposto all’immagine delle zampe di un ragno, all’idea di essere intrappolata in una tela mortale, di non poter avere scampo e di poter essere avvinghiata e avvelenata da una creatura (la parte persecutoria della madre) che sbuca silenziosa da qualche angolo, quando meno te lo aspetti.

Monica era sconcertata, mai avrebbe pensato ad una cosa simile. Improvvisamente l’idea dei ragni non la ripugnava più…scoppiò in un pianto liberatorio, che la scosse per diversi minuti. Poi, dai singhiozzi, una risata:

“Certo che se avessi realizzato questa cosa prima, quel ragno lo avrei schiacciato!”.

Al di là della battuta, Monica ora poteva rispondere con le risorse che sapeva di avere a quell’antico senso di sopraffazione e di morte. Per lei sarebbe stato più facile addentrarsi nel mezzo della foresta…

Un’esperienza da registi: ri-creare la propria realtà

Sandra lavora con me da qualche mese su alcune esperienze traumatiche vissute nella sua infanzia. Un giorno mi porta un sogno ricorrente, che fa da quando era ragazza, e che per diverso tempo l’ha perseguitata, ogni notte. Anche oggi, di tanto in tanto, la sveglia nel cuore del sonno e ci vuole parecchio prima che, con l’aiuto di suo marito, lei possa calmarsi. La narrazione è semplice e chiara: Sandra è in casa, sente dei rumori ma, improvvisamente, tutto diventa buio e lei non riesce a capire cosa stia accadendo, se ci sia qualcuno, si sente paralizzata e terrorizzata.

A livello conscio stiamo lavorando sulle sue risorse per ripristinare il suo senso di sicurezza e di potere personali. Ma poiché in questo caso si tratta di un sogno, decido di accedere a un livello di lavoro più implicito e simbolico. Le chiedo quindi di chiudere gli occhi, immergersi nel sogno, che conosce così bene, e descrivermi che cosa sente.

Sandra impiega qualche minuto per “rientrare” in quella scena e mi accorgo subito quando è “dentro”: si irrigidisce, la respirazione diventa più superficiale, appare un’espressione di angoscia sul suo viso.

Le chiedo di raccontarmi qual è la sensazione più disturbante che sta provando in questo momento, a livello corporeo. Mi dice che è la sensazione di immobilità, per via della paura e del fatto che tutto, attorno a lei, è buio.

“Ascolta bene, Sandra: in questo momento, all’interno della scena che stai vivendo, che cosa cambieresti? Proprio come se tu fossi la regista di un cortometraggio e potessi decidere come far procedere le inquadrature…”.

Sandra: “Sicuramente accenderei la luce, mi guarderei attorno, e mi muoverei..”.

Io: “Puoi farlo? Intendo puoi farlo accadere nella tua mente, viverlo nella tua immaginazione, ora? Fai tutto ciò che ti farebbe sentire meglio in quella scena”.

Sandra annuisce. Posso osservare il suo cambiamento: il corpo di ammorbidisce, il volto si rilassa, appare perfino un sorriso sulle sue labbra.

“Sì! – esclama – accenderei la luce e andrei verso la porta di casa…e potrei vedere il mondo, là fuori, e respirare…”. Il suo torace si gonfia d’aria, sembra euforica, l’euforia che arriva dopo il terrore, quando sentiamo che ce l’abbiamo fatta.

Io: “Ottimo Sandra, ora ti chiedo di individuare una parola che possa descrivere tutto questo, che racchiuda il senso di ciò che hai provato, del processo che hai vissuto, con gli occhi della mente”.

“Libertà! Direi che la parola più adatta è proprio libertà”.

Io: “Vorrei che tu raccontassi a tuo marito l’esperienza che hai fatto oggi, con me, e che gli chiedessi, se ti dovesse capitare ancora di fare quest’incubo, di aiutarti, ricordandoti in quel frangente la parola libertà”.

Sandra sembra sbalordita e meravigliata dalla semplicità e allo stesso tempo dall’intensità dell’esperienza che ha fatto in seduta. Ha potuto modificare l’esito del suo incubo e ne è rimasta incredibilmente sorpresa: l’ha invasa un senso di forza, di speranza e di euforia che non credeva possibili.

Le spiego che, quando riusciamo a immaginare intensamente qualcosa, immedesimandoci profondamente in essa, nel nostro cervello si attivano le aree pressoché identiche a quelle che si attiverebbero se facessimo davvero l’esperienza. È il principio che ha reso tanto di successo i film o le animazioni in 3D.

La sua mente, quindi, ha potuto per la prima volta individuare e vivere un esito diverso di quella scena angosciante.

Ciò ha accresciuto il suo senso di potere personale e di successo, arrivando a farle sperimentare il “pronking”, ovvero la percezione di avercela fatta. Il rilascio di un potente quantitativo di energia prima bloccata. È un fenomeno che si può anche osservare in natura, quando certe prede sfuggono ai predatori. Si tratta di un vissuto di pura gioia e vitalità.

Arriva quando superiamo un’esperienza traumatica, quando riusciamo ad uscire da una situazione vissuta come estremamente minacciosa per la nostra incolumità, quando facciamo fisicamente l’esperienza di essere fuori da una situazione di pericolo.

L’energia fisiologica attivata dall’organismo per far fronte alla minaccia viene liberata e quello che si percepisce è una vera e propria “scarica” adrenalinica, di euforia.

Cosa ha permesso a Renata di “farcela”?

Renata ha sempre percepito il suo incubo ricorrente come immutabile, incombente, inevitabile. Non lo ha mai “trattato” come uno scenario che potesse trasformare, avendo sempre subito il vissuto profondamente angosciante e paralizzante che esso le trasmetteva. Accedere a una soluzione percepita come concretizzabile (“accendere” – con l’immaginazione – la luce nella stanza) ha rappresentato per lei una via d’uscita risolutiva, a cui non aveva mai pensato. Una soluzione banale ma “mai vista” e considerata, essendo Renata completamente sopraffatta dalle sensazioni – anche fisiche – di impotenza e paralisi.

La semplicità della soluzione e il fatto che l’avesse trovata Renata stessa, dopo essersi defocalizzata dal suo senso di impotenza, le hanno restituito il suo potere personale e un senso di vitalità incontenibile.

Renata mi ha poi raccontato di non aver più fatto quell’incubo notturno. Ciò a dimostrazione del fatto che, siano più o meno “reali” le esperienze che facciamo, ciò che conta è come noi le viviamo, e anche l’esperienza di attraversamento e superamento che ne facciamo. Sia essa “vera” o immaginata. Si tratta pur sempre di esperienza vissuta nel corpo, e quindi di un passo verso una maggiore resilienza.

I paradossi che curano

Quando ho visto per la prima volta Renato sono rimasta colpita dalla sua rigidità: camminava quasi come un robot e non aveva alcuna espressione facciale.

Il racconto di sé e dei suoi problemi è andato nella stessa direzione delle mie impressioni. Renato è un giovane uomo in carriera, sposato, con una bimba. Ha sempre “fatto il suo dovere”, dice, cercando di mettere il massimo dell’impegno nel raggiungimento dei suoi obiettivi. Mi conferma che il livello di prestazione e il controllo su ogni aspetto della sua esperienza sono fattori di primaria importanza per lui.

“Sono sempre stato un tipo un po’ ansioso, ma da qualche mese la situazione è peggiorata: per lavoro devo a volte parlare in pubblico e la cosa sta diventando insopportabile. Non faccio altro che pensare al disagio che proverò la prossima volta e al fatto che i presenti potrebbero accorgersi del mio nervosismo. Immagino di cominciare a balbettare, di non esporre in modo chiaro le mie argomentazioni, di andare nel panico e di finire per abbandonare la sala onde evitare il peggio oppure, vera catastrofe, di sentirmi male davanti a tutti.”

Renato al solo pensiero si agita, comincia a sudare, sente il battito del cuore aumentare.

Ogni tentativo che faccio per iniziare con lui un lavoro di tipo corporeo fallisce:  mi rendo conto che Renato è molto “di testa” e prima di familiarizzare con un lavoro più fisico ci vorrà molto tempo. Ma Renato è arrivato all’esasperazione: quando sa di dover parlare in pubblico – e questo succede mediamente una volta al mese – comincia a entrare in fermento già settimane prima. Tanto che è arrivato a perdere il sonno. E più ci pensa, più si agita. Conveniamo che il pensiero, l’anticipazione degli eventi, è la causa più superficiale del suo star male. Ma interrompere quei pensieri sembra impossibile.

Come porre fine a questo circolo vizioso?

Poiché Renato ha una forte e apparentemente incrollabile componente razionale, decido di sfidare le sue premesse. Non riesce a non pensarci perché, dice, è più forte di lui? Benissimo, gli chiedo di farlo intensamente e dettagliatamente, per venti minuti, 3 volte al giorno, anche quando non ha in programma conferenze.

Renato mi guarda un po’ perplesso, ma poi commenta: “Sarà facilissimo, lo faccio ogni giorno molto più a lungo dei 20 minuti! Non credo che servirà a molto…ma lo farò”.

Ci siamo rivisti dopo 15 giorni. Renato per la prima volta mi ha sorriso. Mi ha detto che, non sa cosa sia successo, ma il pensiero ossessivo sul parlare in pubblico lo ha abbandonato. Certo, è rimasto in lui il timore di fare brutta figura, ma quel rimuginìo che gli toglieva  il sonno è sparito, come per magia.

Cosa è accaduto?

La mia scelta di prescrivere a Renato il sintomo lo ha messo in una situazione paradossale: seguendo la prescrizione, infatti, egli ha messo in atto volontariamente il sintomo, rendendosi implicitamente conto di non subirlo ma di poter agire attivamente su di esso…e il sintomo ha perso la sua efficacia, è diventato solo un compito fastidioso e intollerabile. Il circolo vizioso del pensiero intrusivo e ricorrente è stato spezzato.

Questa manovra strategica ha inoltre fatto breccia nella facciata rigida e apparentemente inattaccabile di Renato: qualcosa che non ha esattamente compreso – e quindi controllato – ha avuto un effetto benefico su di lui. Ora sembra che Renato sia più fiducioso nei miei confronti e disponibile a esplorare anche aree che inizialmente, a suo modo di vedere, non erano rilevanti.

Ma, come si sa, il sintomo non è che la punta di un iceberg e la prescrizione del sintomo ci ha permesso di smettere di girare continuamente attorno a questa punta, come se fosse l’unica realtà esistente, e cominciare a guardare sotto…

Dare corpo a un aspetto di sé: il gioco delle parti

Domenico (D): “Dottoressa non riesco ad ascoltare quello che sta accadendo nel mio corpo in questo momento: nella mia testa si sono affollate decine di pensieri contemporaneamente. Sono andato in confusione…”

Io: “Che genere di pensieri?”

D: “Ci sono come due voci dentro di me: una mi dice che ce la posso fare, che non succederà nulla di brutto. L’altra è come se volesse intralciare la prima: mi dice che non è vero niente, che non ce la farò mai, che sta per succedere qualcosa di brutto. Ora che ne parlo mi rendo conto che è quello che succede ogni volta, prima di un attacco d’ansia. Dentro di me ci sono due forze che lavorano in modo opposto, continuamente”.

Io: “Bene Domenico, se ti focalizzi sulla voce disturbante cosa provi nel corpo?”

D: “Un movimento nel petto, qualcosa che si agita”

Io: “Prova a dare una forma, un’immagine a questa sensazione e a collocarla fuori di te. Che aspetto avrebbe?”

D: “Un drago infuriato, mi pare di vederlo. Vuole solo ferirmi. È crudele, non gli importa niente di farmi soffrire”

Io: “Cosa vorresti dirgli?”

D: “Di lasciarmi in pace, di andare via. Non può continuare a farmi stare così male”

Io: “Ora prova a metterti nei panni del drago: che effetto ti farebbe sentire queste tue parole?”

D: “E’ difficile…penso che se mi mettessi nei panni del drago mi arrabbierei ancora di più, farei di tutto per impormi…vorrei solo farmi valere, essere rispettato…sì ecco, vorrei essere rispettato: nessuno mi considera, nessuno mi capisce!”

Io: “Cosa sente di fare il drago per te?”

D: “Il drago in fondo mi protegge. Se non ci fosse potrei fare delle sciocchezze…ne ho fatte tante nella mia vita, e le ho pagate care…”

Io: “Quindi sembra che il drago non ti voglia distruggere ma che voglia aiutarti. Se considerassi questo aspetto cosa proveresti verso il drago?”

D: “Sì, è vero…se considerassi questo mi farebbe un po’ pena, perché si agita tanto e sbraita a fin di bene ma nessuno lo vuole, nessuno lo capisce…”. Domenico scoppia a piangere. Realizza che è proprio come si sentiva lui da bambino, un bambino iperattivo e oppositivo…ma che in realtà aveva tanta paura di sbagliare e desiderava solo essere ascoltato e rassicurato.

Ora Domenico può cominciare a fare pace con quel drago e imparare ad ascoltarlo e contenerlo.