Spesso succede che le persone non abbiano chiaro il proprio vissuto, che viene spesso identificato con un generale senso di malessere o di stress. Eppure, al di là del mero esercizio intellettuale di etichettare le nostre emozioni, capire ciò che ci accade è fondamentale per capire chi siamo, cosa vogliamo, e che cosa è meglio per noi. Ecco un esempio.
Tiziana mi racconta che, rispetto alle modalità educative di sua madre, quello che prova e che ha sempre provato, è rabbia. Ma me lo dice in un modo poco convincente, quasi rassegnato. Una qualità del sentire che ha poco a che fare con l’energia della rabbia. Ecco allora che decido di esplorare, col suo consenso, questa emozione.
“Esattamente, Tiziana, cosa senti nel corpo quando pensi a certi modi di porsi di tua madre?”
“Qualcosa nelle braccia…ma più che altro un peso al petto. È come se mi si stringesse qualcosa, nella zona del cuore, fa male…”
Chiedo a Tiziana di rimanere in ascolto di quella sensazione, tenendo l’attenzione su di essa e notando ciò che accade.
Tiziana, a un certo punto, mi dice che sta salendo qualcosa, e prima che possa finire la frase scoppia in un pianto violento, disperato, dirompente. La accompagno e la sostengo mentre si lascia attraversare da questa onda emotiva che, piano piano, si quieta, e la lascia spossata, incredula.
Mi guarda, con aria interrogativa.
“Direi che questo non ha molto a che fare con la rabbia, che dici?”
Tiziana ride e si rende conto: non si era mai permessa di ascoltare davvero quell’emozione e, men che meno, di esprimerla.
Rimando a Tiziana che, a volte, riconoscere e ascoltare la tristezza è molto penoso. A volte ne abbiamo anche paura. Ecco allora che “raccontarci” che quel malessere che sentiamo è “rabbia” è più tollerabile, perché la rabbia è un’emozione più attiva, anche culturalmente più valorizzata nel nostro contesto.
Il vero vissuto di Tiziana ce lo ha potuto raccontare il corpo più che la testa: un profondo senso di dolore, collegato alle ferite ricevute, che Tiziana non si è mai concessa di ascoltare, di legittimare. Tiziana si diceva, “di testa”, di soffrire per il rapporto conflittuale con la madre, ma non ha mai attraversato quel dolore.
Poterlo sperimentare oggi le ha permesso, finalmente, di riconoscere e reintegrare una parte di sé negata. E questo le ha fatto sperimentare un profondo senso di interezza, di libertà. In secondo luogo, l’aver attraversato la sua sofferenza, le ha restituito un senso di potere personale: non ne è stata sopraffatta, come implicitamente temeva, ma ha potuto contenerla.
La difficoltà di Tiziana di ascoltare e accogliere il suo sentire è qualcosa di molto comune oggi. E rimanda a una carenza di “alfabetizzazione emotiva”: un vero e proprio mancato apprendimento del linguaggio del nostro corpo. Ma come e quando dovremmo apprendere questo linguaggio?
Fin dai nostri primi giorni di vita, e per tutta l’infanzia, quando gli adulti di riferimento hanno il ruolo, fondamentale e delicatissimo, di cogliere, dare significato e rispecchiare al bambino i suoi vissuti, fisici e mentali. Se questa funzione è carente, perché magari a loro volta i genitori non ne hanno fatto adeguata esperienza, viene meno la sintonizzazione emotiva tra genitori e bambini. E i figli non potranno che crescere ignorando e fraintendendo un linguaggio, quello del loro corpo, delle sensazioni, che è in realtà la bussola del nostro benessere.