Dalle parole al sentire: l’esperienza curativa del “cavalcare” la propria rabbia

“Dottoressa sono disperata, ho bisogno urgente di un parere, non so più cosa fare, sono tormentata, da troppo tempo. Se non parlo con qualcuno divento matta. Non so più cosa fare”.

Sara mi chiede in questo modo il primo appuntamento, trasmettendomi tutta la sua agitazione e angoscia. Il modo concitato di parlarmi, e l’urgenza, mi fanno sentire una costrizione al petto, come se avessi qualcosa che, dall’esterno, mi opprime e non mi permette di respirare.

Tenendo presente questa mia reazione, la incontro di lì a qualche giorno.

La stessa sensazione mi si ripresenta durante il nostro primo colloquio: Sara è visibilmente scossa e mi racconta in modo concitato, inondandomi di parole, del suo problema. Una situazione familiare che la sta logorando, che ha sopportato per anni ma che ora non riesce più a tollerare.

“Non so più come gestire la situazione: mia suocera, che vive sotto di noi, mi sta facendo diventare matta e io non so più cosa fare. Non perde occasione per umiliarmi e attaccarmi, e io mando giù…mando giù…ma adesso ci sono dei momenti in cui avrei l’istinto di farle del male. Ho paura di me stessa, non so più che fare…”

Mentre Sara incomincia a raccontarmi nei dettagli le angherie della suocera, tutte le occasioni in cui ha dovuto ingoiare la propria rabbia, la mia sensazione di oppressione al petto cresce. Il fiume di parole che sgorga da lei sembra non avere fine, in un susseguirsi di memorie, considerazioni, dubbi e domande. Dopo aver ascoltato alcune testimonianze della faticosa esperienza di Sara con la madre di suo marito, decido di arginare quella marea di pensieri e parole.

“Sara, mentre mi racconta questi episodi, cosa sente nel corpo?”

Sara, quasi contrariata per il fatto che io l’abbia interrotta, mi guarda con perplessità:

“In che senso cosa sento? Penso che non sia giusto, che non mi merito questo trattamento…”

La interrompo di nuovo, e il suo disagio sembra crescere: “Non le ho chiesto cosa pensa, ma cosa sente”. Il volto interdetto di Sara mi comunica tutto il suo smarrimento.

“Vede – le spiego – ascoltando i suoi racconti io ho sentito crescere in me un senso di oppressione al petto che quasi mi ha tolto il respiro. E questo solo ascoltando, seduta di fronte a lei, la sua esperienza. Mi chiedo come sia essere al suo posto, cosa stia accadendo dentro di lei in questo momento, cosa percepisca nel suo corpo. Vorrei davvero che per un istante lei portasse l’attenzione su questo aspetto.”

Sara, dopo un primo momento di evidente disorientamento, quasi di irritazione, comprende: gli occhi le si riempiono di lacrime, cerca con la schiena l’appoggio della poltrona e con voce rotta mi dice “Non mi capita spesso di fare attenzione a questo genere di cose. Non saprei cosa dire…sento tanta rabbia, ma non posso certo ammazzare mia suocera…”.

Chiedo a Sara uno sforzo ulteriore: se dovesse immaginare di descrivere che cosa sta provando lei in questo momento a una persona che non conosce il significato della parola rabbia, cosa direbbe?

“Un calore alla gola, una specie di formicolio alle braccia, alle mani, come qualcosa che mi si muove dentro”.

Chiedo a Sara di continuare a mantenere l’attenzione su queste sensazioni, come a volerle amplificare. Sara sente aumentare l’energia dentro di sé, serra i pugni, sente un grido nascere dalle viscere. La accompagno nell’esperienza di ascolto e nella sperimentazione dello stare con la sua rabbia, di darle espressione, attraverso il corpo, così come non aveva mai fatto prima.

Quando l’energia nel suo corpo torna a livelli più moderati, Sara si sente sollevata, come liberata da un peso. E senza che io debba spiegarle nulla, commenta: “Certo che se dessi ascolto in questo modo a quello che mi succede, probabilmente non accumulerei tanta rabbia e frustrazione. Se penso adesso a mia suocera mi fa quasi compassione…ma credo che non le permetterò più di trattarmi in un certo modo…”