Il silenzio nei colloqui

La relazione tra operatore e cliente è caratterizzata da un bagaglio di emozioni, sguardi, gesti, parole, pensieri, fantasie, immagini, racconti, speranze e sentimenti che creano e disvelano, via via, un mondo sempre più condiviso.

I silenzi, le pause, le attese, punteggiano questi scambi con un significato e una intensità, di volta in volta, diversi e carichi di valore.

Come in ogni altro ambito, il silenzio in colloquio può avere molti significati ma – a differenza dei consueti scambi interpersonali – diventa esso stesso oggetto di attenzione, di cura, e strumento di lavoro. Intuire ciò che non viene detto, rispettare un momento di emozione o di riflessione, concedersi e concedere una pausa al sentire o un tempo per una chiarificazione interna possono diventare perle preziose all’interno del processo di lavoro.

Un silenzio che emerge dal cliente è sempre denso di senso: può rappresentare un momento di riflessione, di emozione. Ci sono silenzi di impotenza, di rassegnazione, di prostrazione dolorosa. Oppure silenzi di imbarazzo, di incertezza, di timidezza o di paura.

Ci sono silenzi manipolatori e silenzi autentici. Silenzi intimoriti e silenzi sfrontati. Silenzi disperati o furenti. Silenzi perpetrati con ostinata determinazione e silenzi di annichilimento.

E ogni volta la comprensione e l’ascolto del senso che esprime un’assenza di parole è qualcosa di prezioso, che diviene oggetto di osservazione e, spesso, di condivisione in colloquio. A volte a un silenzio non occorre nessuna parola di chiarificazione. Esige solo rispetto.

Succede che anche l’operatore, nel corso di un colloquio, decida di tacere.

Quando un grande dolore viene condiviso, o quando è in atto una profonda elaborazione emotiva, le parole non servono. La presenza, il contatto visivo e umano con l’altro, sono tutto ciò che serve.

Dare spazio e saper stare, insieme all’altro, in un’esperienza emotiva intensa, senza bisogno di “razionalizzare”, è qualcosa di estremamente significativo. Riconosce all’altro la legittimità e la preziosità della propria esperienza umana, ridotta all’essenza, in quella forma nucleare e pre-verbale che, per certi versi, rimanda alla prima connessione tra mamma e bambino; una sintonizzazione che, spesso, è stata difficile o problematica.

A volte un silenzio dell’operatore può rappresentare un’esperienza frustrante, ma non necessariamente negativa. Imparare a tollerare la frustrazione e riassumersi la responsabilità del proprio vissuto, senza cercare l’approvazione di quest’ultimo può rappresentare un grande passo evolutivo, soprattutto per chi è particolarmente dipendente dal giudizio e dal consenso altrui.

Un silenzio può diventare anche uno strumento di amplificazione per un messaggio che l’operatore sceglie di dare attraverso un canale non verbale: uno sguardo, un gesto, un’espressione del volto.

Oppure può essere usato come un potente fattore motivante per spingere l’altro fuori dalla sua zona di confort: affinché la persona, infrangendo finalmente il silenzio, riesca a superare la sua chiusura, ad attivarsi, a fare un passo verso l’altro.

Una pausa più o meno prolungata può anche essere utilizzata per introdurre con maggiore enfasi una considerazione, una riflessione, un feedback su cui l’operatore desidera che il paziente riponga tutta la sua attenzione.

L’assenza di parole è, in conclusione, una parte integrante ed estremamente preziosa della relazione di cura. Come accade spesso, pieno e vuoto si alternano in una continua danza: senza momenti di sospensione non ci sarebbero quei passi che rendono possibile la magia.

Voglio raccontare un paio esperienze, che rispecchiano dei possibili livelli di intervento – tra i mille possibili- aventi come obiettivo il supporto e la stimolazione, nella persona che chiede aiuto, delle sue risorse, il superamento dei suoi limiti e dei suoi blocchi emotivi, spesso legati ad esperienze traumatiche che agiscono a livello inconsapevole. Si tratta di due interventi che si avvalgono proprio del potere del silenzio.

Il primo esempio che voglio portare è quello di Marta, una professionista molto in gamba, con un Io sufficientemente strutturato, molte risorse, e un percorso pregresso di analisi classica che le ha dato tante consapevolezze ma non l’ha aiutata fino in fondo a gestire le crisi di ansia che, spesso, la attanagliano. Ha chiesto il mio aiuto sapendo che utilizzo Somatic Experiencing. Il lavoro con lei è stato intenso e molto efficace. L’ansia è stata finalmente superata ma un giorno, durante uno dei nostri colloqui, emerge un dolore profondo al petto. Esplorando questa sensazione, Marta rievoca immediatamente un evento luttuoso e ancora doloroso per lei: la morte – a pochi giorni dalla nascita – del primogenito tanto desiderato e amato. La accompagno ad attraversare questo dolore. Il suo corpo si scuote per i singhiozzi, si ripiega su se stesso, dalla gola esce un lamento strozzato. Sono lunghi minuti di disperazione, di strazio, in cui il suo corpo è piegato e sopraffatto dal dolore. Non c’è nulla da dire. Le chiedo solo il permesso di avvicinarmi, di appoggiarle delicatamente la mano tra le scapole, a sostegno della zona del cuore. Mentre lei cavalca l’onda del suo dolore, lasciandosi attraversare completamente da quest’ultimo, io sono con lei. Accolgo il suo vissuto, gli do un contenimento (rappresentato dalla mia mano a contatto della sua schiena), “scarico” a terra tutta l’energia che si muove in quel campo, sono silenziosa ma testimone partecipe della sua discesa negli abissi. Non una parola, non ce n’è bisogno, sarebbe un’interferenza. Il sentire profondo trova altri canali di espressione, e di comunicazione. Io sono con lei, nel suo inferno, le tengo la mano facendo, per lei, quel lavoro di radicamento e di ancoraggio al presente che impregna il campo e le permette di non lasciarsi inghiottire dal dolore. Fintanto che, cavalcata l’onda, Marta piano piano riemerge, si riassesta lentamente, torna nel qui e ora, e mi ringrazia con un lungo, silenzioso abbraccio. Mi dirà, poi, di non aver mai potuto vivere in questo modo il suo dolore: senza tentativi di consolazione o futili commenti.

Il secondo caso di cui voglio raccontare è quello di Fabio, un ragazzo con una storia difficile di abusi infantili. Fabio ha sviluppato una modalità di funzionamento per cui, a fronte di qualcosa che lo mette a disagio o lo fa stare male, si dissocia dal proprio corpo e inizia a rimuginare in  modo ossessivo e distruttivo. Il nostro lavoro sul recupero del suo sentire è stato lungo e delicato. Tenere Fabio presente a se stesso, anche all’emergere di emozioni spiacevoli, è stato impegnativo e ha richiesto tutta la mia attenzione per evitare di riattivare in lui dei vissuti di intrusione ma, contemporaneamente, stimolarlo a rimanere in ascolto e consapevole del suo sentire. Non dimenticherò mai la prima volta che – dopo molto “allenamento” –  Fabio, contattando un tema doloroso, si è permesso di far scendere delle lacrime dal suo viso. In quel momento abbiamo passato lunghi istanti di silenzio assieme in cui io, lì per lì, non ho fatto altro che posare su di lui in modo discreto il mio sguardo amorevole. In questo caso non c’era né una “sfida” alle sue resistenze, né un contatto (sarebbe stato fuori luogo ed eccessivo per la storia di questo ragazzo). Solo un semplice e rispettoso silenzio di accoglienza, di compartecipazione, di estremo rispetto per ciò che si stava dispiegando. Fabio, commentando poi quei momenti, mi ha confessato che, se avessi parlato, sarebbe “svanito l’incantesimo” e sarebbe scappato – com’era solito fare – nella sua mente.