Il contatto con il bambino interiore

Mario è un giovane uomo di 23 anni.
Da subito mi è chiaro che il suo malessere (forti ansie, angoscia, attacchi di panico) è legato ad un iper-investimento della mente, dei pensieri, come probabile fuga da vissuti difficili da affrontare.
Durante un colloquio mi confida che uno dei “temi caldi” delle sue rimuginazioni è dirsi “Sono un incapace e gli altri se ne potrebbero accorgere”. Approfondendo meglio questo pensiero emerge come il vero timore di Mario sia quello di far trapelare la sua vulnerabilità. Mario comprende razionalmente quanto sia inutile e inappropriato giudicare negativamente le sue fragilità, ma non può fare a meno di odiarle. Quando si pensa come debole gli si chiude immediatamente lo stomaco, sente un nodo alla gola, una vampata di calore alla testa e le mani fredde.


Non potendo risolvere un problema di pensiero allo stesso livello in cui si è prodotto (quello mentale), decido di fargli fare un’esperienza emotiva. Gli chiedo di dare una forma a quella che percepisce come la sua parte vulnerabile.
A Mario viene spontaneo immaginarla come un bambino piagnucoloso che non è in grado di fare altro se non rimanere lì dov’è, immobile, incapace di fare qualsiasi cosa. Chiedo a Mario che cosa prova nel “vedere” quel bambino di fronte a sé.
Mario mi dice che guardandolo, dopo un primo momento di irritazione, gli fa pena. Gli verrebbe voglia di avvicinarsi e abbracciarlo. Gli propongo di farlo, sempre in quel campo magico dove tutto può accadere: la nostra immaginazione.
Mario si lascia andare ad una profonda tenerezza mentre, con l’occhio della mente, si concede questa esperienza.
Proiettando fuori di sé l’incarnazione delle sue vulnerabilità, Mario ha potuto avvicinarle. E contattarle in un modo che fosse diverso dal giudizio. Gli propongo di considerare – e cautamente di trasformare – quel bambino della visualizzazione in sé stesso, a quella medesima età.
Mario tentenna. Inizialmente, l’immagine di sé da bambino fatica a formarsi. Ma finalmente arriva. Insieme ad una grande commozione. Non si era mai “rivisto” in questi termini. Prova una stretta al cuore e un sentimento di compassione che non era mai riuscito a provare nei propri confronti, men che meno verso il bambino che è stato.
Invito Mario, anche stavolta, a comportarsi verso quel bambino nel modo che sente più spontaneo. Mario mi dice che anche con lui avverte il bisogno di avvicinarsi e di avere un contatto fisico. Mentre immagina tutto questo, porto la sua attenzione a focalizzarsi sulle sensazioni che gli derivano da questo abbraccio, identificandosi ora con il Mario adulto, ora con il Mario bambino. È un momento molto intenso, che lo tocca parecchio. Lo aiuto a farsi attraversare dalle sensazioni e dalle emozioni del momento. Non potrà dimenticare facilmente quest’esperienza e lo invito, ora che fa parte del suo bagaglio, a ricordarsene nel momento in cui il pensiero giudicante visto sopra si riaffacciasse alla sua mente. Gli suggerisco di tenere presente che quelle parti vulnerabili di sé chiedono solo un riconoscimento, un’accettazione, amore. E quanto più lo ricevono, tanto più si rinforzano. Invece che respingerle, addirittura odiarle, ora sa che hanno solo bisogno d’amore. Quel bambino è dentro di lui, e la parte adulta di sé, oggi, può prendersene cura.


La mente di Mario – come quella di tutti noi – può rappresentare un limite o una risorsa. Diventa vincolante nel momento in cui prende il sopravvento il bisogno di controllo, che porta a valutare, giudicare, ad analizzare. È la parte più razionale che, se non gestita, può portare a una deriva.
C’è poi una parte della psiche, quella legata all’immaginazione, ai simboli, alla creatività, che è un vero e proprio scrigno di tesori. Imparare ad aprirlo e a fruire dei suoi doni è quanto di più bello possiamo fare per noi stessi e per il mondo.

Uno, nessuno e centomila

Stefania è una donna di circa 25 anni. Nonostante la giovane età ha fatto un lavoro su di sé molto articolato, profondo, che ancora oggi, dopo un anno circa, prosegue.

Il motivo che l’ha portata da me è stato il vissuto di una devastante perdita di senso. Quando l’ho incontrata era estremamente disorientata, nulla le sembrava che valesse più la pena di essere vissuto.

L’angoscia e lo smarrimento la travolgevano. “Non so più chi sono” (nessuno) era la frase che più spesso ripeteva all’inizio del suo percorso. Io le rispondevo che quando arriva il bàratro, è l’Anima che butta all’aria le carte per farci cambiare gioco: per iniziare una caccia al tesoro in cui la conquista finale è l’Anima stessa.

Il lavoro con Stefania si è focalizzato quindi, per lungo tempo, sul darle gli strumenti per incontrare la parte più autentica di Sé: l’ascolto delle proprie sensazioni, la sospensione del giudizio, il rinforzo e il consolidamento della fiducia in se stessa. Ciò è stato possibile non tanto attraverso disquisizioni o ragionamenti mentali. Ma permettendole di attraversare, con il supporto della mia presenza, le sue emozioni e i suoi sentimenti più difficili e spaventosi. Stefania ha avuto il coraggio di scendere nel suo inferno, in modo molto concreto: lasciando fluire dentro di sé le emozioni progressivamente più temute e facendo l’esperienza di poterle tollerare. Il vissuto non ha bisogno di parole: una volta che accade, nessuno lo può smentire e resta testimonianza di una capacità, di una possibilità che rimane come bagaglio incontestabile dell’individuo.

Stefania è quindi arrivata, dopo diversi mesi, a percepirsi come una persona ricentrata, sufficientemente solida, integra (uno). Ha potuto individuare e riconoscere quel nucleo di sé su cui fare affidamento, a cui tornare in caso di smarrimento, da contattare per ritrovarsi e per recuperare un senso di pace e di fiducia.

A volte i percorsi terapeutici finiscono qui. Quando arriva la sensazione di “avercela fatta”, di aver esplorato e superato la propria “selva” interna, di aver fronteggiato i propri demoni interiori. A volte vanno ancora oltre.

E il lavoro terapeutico diventa, più che un viaggio infero, un’esplorazione che ha anche le sfumature della sperimentazione divertente e divertita.

Succede quando, certi di poter tornare nel nostro “centro”, ci permettiamo di percorrere terreni insoliti, nuovi, che magari mai avremmo creduto di poter attraversare. Non si tratta semplicemente di mettere in atto atteggiamenti o comportamenti diversi da quelli automatici e consolidati: questo è qualcosa che in ogni fase della terapia è oggetto di attenzione.

Ma di riuscire a non identificarsi con rigide immagini di sé, con ruoli, con quella che si ritiene la propria “personalità”. Potrebbe sembrare un obiettivo contraddittorio rispetto a quello di riconnettersi con la propria essenza. Eppure non lo è: il nostro Sé sta “dietro” e al di là di tutte le possibili identificazioni che l’Io mette in scena (centomila). Allenarsi ad andare oltre e al di là di quello che riteniamo essere il nostro “vero Io” è qualcosa che apre a nuove consapevolezze e amplia la coscienza.

Costruire e decostruire è il moto stesso della vita, che per sua natura “pulsa”. Far fluire questa possibilità dentro di noi ci riconnette con una legge dell’universo, dove tutto è onda.

Ecco allora che diventa possibile, in sessione, avere uno scambio del genere:

Stefania: “…Ho capito dottoressa, mi risuona…Ce la posso fare”.

Io: “Certo Stefania, ce la puoi fare, ma anche no…”.

E ridere insieme, consapevoli del fatto che, se anche le esplorazioni di Stefania non ottenessero il risultato che lei spera, andrebbe bene lo stesso.

Il percorso è la mèta.

La difficoltà di scegliere

Miriam è in un’impasse. Non sa cosa rispondere a Dario, che le ha chiesto di andare a convivere con lui.

Non ha dubbi sui sentimenti che prova nei suoi confronti, ma teme che le cose tra loro si rovinerebbero. Sebbene si conoscano da diversi anni, infatti, Miriam e Dario hanno sempre mantenuto i loro spazi privati e, agli occhi di Miriam, un passo di questo genere metterebbe alla prova il suo bisogno di indipendenza.

Ma non si sente nemmeno di negare che l’idea la alletterebbe molto.

Un chiaro vissuto di ambivalenza nei confronti di qualcosa che è desiderato ma anche temuto.

Miriam non è nuova a questo genere di conflitti: motivo per cui per lei le scelte sono un vero e proprio strazio. Amante delle routine e refrattaria ai cambiamenti, Miriam è serena quando ha la situazione sotto controllo. E il fatto di sviscerare i pro e i contro di ogni possibilità non la tranquillizza né la fa uscire dall’immobilità. Le domando cosa le impedisce di osare.

“Sono bloccata dalla paura” risponde Miriam.

“Paura di cosa?” chiedo io.

“Ma di fare la scelta sbagliata, ovvio”.

 Io: “Credo si tratti piuttosto della paura di morire”.

Lei: “Addirittura?! Ma cosa c’entra, mica andrei al patibolo!”.

“Eh no – le spiego – ma ogni scelta implica la capacità di lasciar andare qualcosa (quel qualcosa che non scegliamo). E, in fondo è come veder morire un pezzetto di noi. Detto in altri termini: ti fa paura rinunciare al senso di sicurezza che ti dà il mantenere le tue abitudini, le tue routine e il tuo senso di dominio sulla realtà che conosci. Una scelta non è tanto, almeno per le questioni affettive o emotive, un fatto di costi e benefici, un bilancio ragionato dei pro e dei contro. È un atto di fiducia. In se stessi e nella vita. E per vivere appieno bisogna far pace con la paura della morte, delle varie morti: i dolori, gli abbandoni, le lontananze, le trasformazioni. Perché fanno parte inevitabile della vita. La vita esiste in copresenza alla morte”.

“E quindi? Cosa devo fare?” ribatte attonita Miriam, che vuole andare dritta al sodo.

“Non devi fare niente. Devi stare. Stare con quello che provi senza farti sopraffare. Hai paura? Sentila nel corpo, lasciati attraversare dal senso di debolezza, dal tremore, magari dalle lacrime. Non cercare di negarla o di “farci” qualcosa, di allontanarla o di giudicarla. Semplicemente vivila. Fallo adesso. Immagina di aver risposto positivamente a Dario: andrai a vivere con lui. Cosa provi?”

Miriam: “Mi sento agitata, un nodo alla gola, mille pensieri…”

“Lascia andare i pensieri e stai solo con le sensazioni: il nodo alla gola…”

“Sì…mi si stringono anche le budella…”. Dopo qualche istante Miriam aggiunge “Però ora meno, se non seguo i pensieri le sensazioni spiacevoli se ne vanno…”.

“Ecco – dico io – adesso prova a immaginare di avergli detto di no. Cosa senti?”

“Un po’ di tristezza, come se avessi perso un’occasione…mi viene da piangere quasi. Sì però se poi le cose vanno male rimpiangerò per sempre di aver fatto questo errore!”.

“Ma quale errore? – le chiedo – Se prendiamo una decisione sulla base del nostro sentire, in un preciso momento della nostra vita, come potrebbe essere un errore? Quello che proviamo non è sbagliato, e se agiamo in coerenza col nostro sentire non potrà mai essere un errore. Perché avremo seguito una parte autentica di noi. Se poi questa parte evolverà in modi cosiddetti positivi o negativi non lo possiamo sapere. Ma almeno sapremo di aver agito in totale sintonia con la nostra essenza.

Non stiamo parlando di gesti impulsivi, ma di una scelta basata su un sentire accolto, ascoltato.”

Ciò che ci blocca è il vano tentativo di controllare qualcosa che non possiamo controllare. Fare delle scelte, cambiare, implica sempre saper lasciare andare qualcosa, parti di noi. Non possiamo rimanere immutabili nel tempo e nelle circostanze. Vivere è anche un po’ morire, ogni giorno, dal giorno in cui nasciamo. Per questo dico sempre che quando abbiamo paura di fare delle scelte, in quel frangente oppone resistenza la parte di noi che vorrebbe l’immutabilità. Ma l’immutabilità non esiste, neanche nella morte. Tutto si trasforma. Accettarlo è accettare il fluire e la pienezza della vita.

Il pronking: quando ce l’abbiamo fatta!

Il lavoro su un incubo ricorrente

Renata è una donna sulla cinquantina, con un passato estremamente duro ma una capacità di ascolto e di elaborazione notevoli.
Viene da me con la richiesta esplicita di lavorare sui suoi traumi passati attraverso Somatic Experiencing®, un approccio corporeo e neurofisiologico per il superamento dei blocchi emotivi.
Dopo numerose sessioni in cui abbiamo affrontato diversi aspetti del suo vissuto pregresso di abusi, decidiamo di fare qualcosa di insolito: provare a lavorare su un sogno ricorrente, un incubo, che ancora oggi turba il suo riposo notturno. Pur trattandosi di materiale onirico, infatti, si tratta pur sempre di un’esperienza che lascia in lei un profondo vissuto di impotenza e terrore.


La scena dell’incubo la vede chiusa in una stanza buia, incapace di muoversi o di proferire parola. Il vissuto penoso aumenta via via con la sua immobilità. Anche nel raccontare il sogno Renata prova una sensazione di crescente angoscia. Si sente bloccata, in tutto il corpo, e non riesce ad immaginare (né a concretizzare, in seduta) l’idea di poter muovere alcun muscolo. È sopraffatta dalla paura.
Non essendo immediatamente accessibile per lei il movimento le chiedo che cosa, di quello scenario, vorrebbe cambiare se potesse farlo.
Renata immediatamente risponde: “accenderei la luce”.
Le chiedo di agire in tal senso nella sua immaginazione: visualizzare quella scena che si trasforma, illuminandosi.
Renata sembra trasalire: non ci aveva mai pensato e poterlo fare, ora, cambia tutto. Le compare la stanza di quando era piccola. La conosce bene, anche se non ha bei ricordi di quel luogo. Ma nella stanza c’è una porta. Invito Renata, ora più in contatto con le sue potenzialità, ad assecondare ciò che il corpo vorrebbe.
Renata non ha esitazioni: immagina di alzarsi e di uscire da quella porta, per ritrovarsi magicamente in uno scenario naturale con prati, fiori, farfalle e cielo azzurro.
Il cambiamento del suo volto e del suo tono sono evidenti mentre mi racconta questo “finale” modificato.
Sento che la sua energia aumenta e Renata mi conferma, con un certo stupore, che si sente euforica, piena di vita. Vorrebbe correre, saltare, gridare. La invito a farlo, se desidera. Comincia poi a tremare.


Cosa è accaduto a Renata nel giro di pochi minuti?
Ha sperimentato quello che in termini tecnici si chiama “pronking”, ovvero la percezione di avercela fatta. Il rilascio di un potente quantitativo di energia prima bloccata. È un fenomeno che si può anche osservare in natura, quando certe prede sfuggono ai predatori. Si tratta di un vissuto di pura gioia e vitalità.
Arriva quando superiamo un’esperienza traumatica, quando riusciamo ad uscire da una situazione vissuta come estremamente minacciosa per la nostra incolumità, quando facciamo fisicamente l’esperienza di essere fuori da una situazione di pericolo.
L’energia fisiologica attivata dall’organismo per far fronte alla minaccia viene liberata e quello che si percepisce è una vera e propria “scarica” adrenalinica, di euforia.


Cosa ha permesso a Renata di “farcela”?
Renata ha sempre percepito il suo incubo ricorrente come immutabile, incombente, inevitabile. Non lo ha mai “trattato” come uno scenario che potesse trasformare, avendo sempre subito il vissuto profondamente angosciante e paralizzante che esso le trasmetteva. Accedere a una soluzione percepita come concretizzabile (“accendere” – con l’immaginazione – la luce nella stanza) ha rappresentato per lei una via d’uscita risolutiva, a cui non aveva mai pensato. Una soluzione banale ma “mai vista” e considerata, essendo Renata completamente sopraffatta dalle sensazioni – anche fisiche – di impotenza e paralisi.
La semplicità della soluzione e il fatto che l’avesse trovata Renata stessa, dopo essersi defocalizzata dal suo senso di impotenza, le hanno restituito il suo potere personale e un senso di vitalità incontenibile.
Renata mi ha poi raccontato di non aver più fatto quell’incubo notturno. Ciò a dimostrazione del fatto che, siano più o meno “reali” le esperienze che facciamo, ciò che conta è come noi le viviamo, e anche l’esperienza di attraversamento e superamento che ne facciamo. Sia essa “vera” o immaginata. Si tratta pur sempre di esperienza vissuta nel corpo, e quindi di un passo verso una maggiore resilienza.

La sospensione del giudizio

Che cosa ha a che fare un concetto che può sembrare squisitamente filosofico – la sospensione del giudizio, per i greci “epoché” – con il benessere emotivo? Tutto.

Mai come oggi osservo quanto le categorie del mentale (il giusto e lo sbagliato, il bene e il male, il senso del dovere, il buono e il cattivo, ecc.) portino a saturazione e condizionino il sentire e la condotta delle persone. Arrivando, inevitabilmente, a produrre sofferenza. Una sofferenza dettata dal fatto che, nell’estremo tentativo di controllare una realtà complessa, caotica, contraddittoria, a tratti incomprensibile e spaventosa, l’essere umano si appella allo strumento che, per eccellenza, è vocato al controllo: la mente razionale. Perdendo completamente di vista che il bisogno di analizzare e di governare il mondo interno ed esterno sposta l’attenzione da ciò che, in verità, rappresenta la nostra opportunità di vivere in armonia con noi stessi e con tutto il resto: la presenza attenta, consapevole, l’ascolto non giudicante di ciò che ci accade, istante per istante. L’amplificazione del mentale è qualcosa che, nel nostro tempo, ha acquisito maggiore intensità forse, come dicevo, per un crescente bisogno di controllo a fronte di una realtà via via più complessa; forse perché l’essere umano ha perso, parallelamente, sempre di più il contatto con il suo sentire e con i misteri della vita. Un mentale ipertrofico e ingestibile, a fronte della difficoltà a stare con il proprio mondo sensoriale ed emotivo, ha portato all’esacerbazione di molti disturbi (di tipo ansioso o volti alla ricerca di un’anestesia del proprio malessere).

Le persone che lavorano con me sanno quanto io insista sull’importanza di non identificarsi con (ovvero non credere ciecamente a) i contenuti mentali che hanno come obiettivo quello di classificare e dominare la realtà. Ma gli ambiti in cui si manifesta un tentativo di controllo, di categorizzazione della mente razionale sono più sottili di quanto si possa immaginare.

Elisabetta, che da un anno lavora con me sull’elaborazione di un passato fortemente traumatico, ha ormai imparato a dare ascolto al suo sentire. Ciclicamente, tuttavia, a fronte di episodi particolarmente “stressanti”, le capita di provare un disturbo, sempre uguale: quando avverte un rumore che lei giudica eccessivo, le scoppia un mal di testa debilitante, che la costringe a letto. Elisabetta è consapevole che, probabilmente, se arriva a quel punto è perché non riesce a mettere i suoi bisogni prima di tutto il resto e si forza a vivere situazioni che preferirebbe evitare. Il mal di testa la “autorizza” a prendersi il suo tempo e il suo spazio. Ma, come nell’ultima occasione, ci sono circostanze in cui non può sottrarsi a certi eventi, per varie ragioni. Mi chiede, in questi casi, come possa fare.

La invito a tornare al momento in cui, l’ultima volta, ha percepito il rumore che ha “dato il via” al suo mal di testa. Le chiedo di osservare cosa fa il suo corpo al ricordo di quel momento.

Elisabetta nota che si irrigidisce, si contrae. Come a voler opporre una resistenza al disturbo che arriva dall’esterno. Le propongo quindi di stare in contatto con quel rumore e di sospendere, per un attimo, il suo giudizio. Di non valutarlo come troppo, come eccessivo, come disturbante, ma come una semplice vibrazione, neutra.

Elisabetta si accorge che, se lascia andare il suo giudizio, la vibrazione può attraversarla senza provocare in lei un dolore. Per lei fare l’esperienza di poter tollerare qualcosa che sembrava impossibile accettare è illuminante.

Le rimando che anche nell’atto percettivo c’è una componente cognitiva, valutativa: ciò che i nostri sensi filtrano della realtà esterna è sottoposto in modo implicito, immediato, ad un’analisi, a una valutazione. Se riusciamo ad accogliere ciò che riceviamo il più possibile senza pre-giudizio, possiamo abbattere le nostre resistenze e rendere l’esperienza meno dolorosa, almeno in parte.

Consideriamo insieme che, in effetti, quando non abbiamo alternative e dobbiamo far fronte a un evento che non possiamo modificare, è più utile affrontarlo senza chiusure o con le minori resistenze possibili.

Una vera sfida in un’epoca in cui ciò che va per la maggiore è l’idea di dover prendere “di petto” le situazioni, reagire, combattere, imporre la propria volontà.

Ma, come recita un detto, bisogna aver la saggezza di distinguere tra ciò che possiamo cambiare e ciò che non possiamo cambiare. In quest’ultimo caso, se affrontiamo l’esperienza con accettazione, rinunciando alla nostra mania di controllo, ne trarremo soltanto giovamento.

La funzione “specchio” dell’Altro

Simona è un ragazza sulla trentina con cui ho fatto un importante percorso che l’ha condotta, da una struttura profondamente ossessiva, ad una possibilità di espressione di sé e di esplorazione sufficientemente sicura e curiosa del mondo. Tanto che, dopo un lungo periodo di “congelamento” affettivo, si è innamorata di un uomo. Simona è consapevole che non si tratta della cosiddetta “persona giusta” per lei: si tratta di un uomo che si potrebbe facilmente descrivere come un narcisista. Fortemente centrato su di sé, bisognoso di continue conferme della propria presunta eccezionalità, poco stabile emotivamente, in grado di farla oscillare tra abisso ed estasi. Eppure è successo, ne è caduta vittima. Non sa spiegarsi come sia stato possibile, ma è proprio ciò che è avvenuto.

 “Anni di lavoro personale sembra che non siano bastati – mi dice affranta un giorno – a farmi capire cosa è giusto e cosa è sbagliato per me”.

Mi fermo, la fermo.

“Non è questo il nostro scopo, Simona. L’obiettivo di un lavoro personale non è evitare le vicende della vita, ma viverle con sempre maggiore consapevolezza e affrontare le proprie paure, i propri demoni. Ascoltare ciò che le emozioni ci dicono e farne tesoro per entrare in contatto con la nostra Anima. Se ti sei innamorata, non lo hai scelto: è successo. E se è successo puoi imparare qualcosa.”

Simona di fronte a queste mie parole sembra un po’ confusa.

“Tutto quello che ho capito di me, delle relazioni, però, non mi ha impedito di cadere in questo pasticcio. Allora a cosa è servito?”.

Rimando a Simona che la cosa più importante che lei abbia fatto, in questo suo percorso, non è tanto “capire”. Certo, questo è stato qualcosa che ha placato dubbi e domande mentali. Ma la cosa più preziosa che lei abbia fatto è stato imparare a NON vivere solo attraverso le categorie mentali, che la imprigionavano in un labirinto senza fine. Ma a riscoprire il valore delle emozioni, il modo di ascoltarle e di lasciarsi attraversare da esse. Evidentemente questa esperienza le serve per affrontare qualche altro aspetto di Sé, per far evolvere ulteriormente la sua consapevolezza, per liberare sempre di più la sua Anima. La invito quindi a vivere questa vicenda con gli occhi della coscienza ben aperti, con attitudine di ascolto più che di comprensione.

Passa qualche settimana, durante la quale Simona mi racconta le difficili vicissitudini della relazione con quest’uomo.

Un giorno, Simona arriva in seduta visibilmente provata ma quieta, serena.

“Ho visto”. Mi dice. “Qualche giorno fa è successa una cosa incredibile. Ero con lui. Stava facendo sfoggio, come suo solito, delle sue qualità, della sua bravura in campo lavorativo. Ma, ad un tratto, i suoi occhi si sono quasi intristiti. Come se anche la parte più profonda di lui sapesse che quello di cui mi stava parlando, di cui si vantava, non contasse realmente molto. Come se non bastasse. Come se non fosse sufficiente a colmare quel suo senso di vuoto interiore, quel bisogno incommensurabile di amore, di riconoscimento.

Era come se, nella connessione con quel suo vissuto, potessi sentire tutta la sua emozione. E a un certo punto tutto mi è stato chiaro: il suo dolore, il suo bisogno, era il mio. Identico, ugualmente divorante, disperato. Lui lo aveva “coperto”, nella sua vita, con quella maschera da superuomo. Io ingabbiandomi per anni nei miei pensieri, nelle mie distorte convinzioni e nei miei autosabotaggi. Lui aveva messo sopra la sua ferita uno schermo fittizio di grandiosità. Io invece, in quella ferita, ci ero caduta dentro trovando dei “persecutori” esterni a cui dare la responsabilità della mia infelicità. E facendo di tutto per non sentire quell’abisso interno. Ma sia io che lui abbiamo, dentro, quell’abisso. Siamo due facce della stessa medaglia. Ecco il senso che ha il suo ingresso nella mia vita. Dovevo contattare questo. E ora mi trovo a sentire la mia ferita. In parte è cicatrizzata, ma in parte no. Dovevo tornare lì e lasciare che tutta l’emozione che questa esperienza mi “bruciasse” dentro. Per darmi l’energia di andare oltre.”.

Simona usa ormai, nella stanza dei colloqui, un linguaggio condiviso. Ha compreso appieno il senso del suo lavoro e del processo di cambiamento. Il suo lavoro personale non le risparmierà i dolori e le difficoltà, ma sempre di più andrà nella direzione di ricontattare la sua vera essenza, di sanare gli antichi dolori, per poter liberare la sua Anima, lasciarle lo spazio di esprimersi e di riconnettersi con il senso ultimo, sacro della vita.

La relazione con un narcisista

Ilenia è una donna sulla trentina, con alle spalle diverse relazioni finite male. Non essendo nuova al lavoro personale ed essendo appassionata di temi di psicologia, ha una certa cultura e una certa consapevolezza rispetto al fatto che nelle relazioni si giochi una parte importante di noi, di quello che abbiamo interiorizzato rispetto a noi stessi, agli altri e al rapporto con il mondo. In breve, Ilenia conosce i concetti fondamentali della teoria dell’attaccamento e quindi non si scompone all’idea che, nei rapporti affettivi, lei si avvicini a uomini che, per qualche aspetto, corrispondono a propri bisogni più o meno consapevoli e con i quali lei rimette in gioco vecchi schemi, appresi con le sue figure affettive originarie, ovvero con i suoi genitori.

Non si spiega, tuttavia, come sia possibile che lei, sensibile, altruista, anche un po’ timida, sia cascata, ultimamente, nella rete di quello che riconosce essere un narcisista, pieno di sé, spavaldo, autocentrato e assolutamente contraddittorio nella relazione con lei. Ammette che quest’uomo ha un aspetto carismatico, affascinante, di persona sicura di sé, a cui lei non è stata insensibile. Ma conoscendolo meglio ha potuto entrare in contatto anche con tutto il resto: i cambi repentini di atteggiamento nei suoi confronti, la freddezza e il distanziamento improvvisi, apparentemente immotivati, la sottile manipolazione, la svalutazione, la colpevolizzazione e molto altro ancora. Poco per volta Ilenia ha capito con che soggetto avesse a che fare: un narcisista fatto e finito!

Pur comprendendo razionalmente le dinamiche in cui si è trovata invischiata, Ilenia non riesce a capacitarsi del coinvolgimento emotivo che, tuttora, prova nei confronti di questa persona. C’è una parte di lui, quella più fragile, bisognosa, che emerge ogni tanto, e che ogni volta la fa capitolare.

Propongo a Ilenia di riflettere su questo punto: se è vero che in ogni persona possiamo riconoscere parti di noi stessi, e proprio quelle più intollerabili dell’altro dicono di parti inaccettabili di noi, cosa le racconta di sé la parte narcisistica di quest’uomo? La invito a partire, in questa esplorazione, dal sentire. Ovvero di focalizzarsi sull’aspetto di questa persona che è più difficile da accettare per lei e notare che cosa provoca in lei, a livello corporeo.

Ilenia sceglie l’aspetto di rifiuto, di arroganza e di freddezza che ciclicamente vede in quest’uomo e che per lei è inspiegabile, inconcepibile. Si pone in ascolto. Contatta, immediatamente, una sensazione di pugno allo stomaco, che poi diviene, più distintamente, una sorta di voragine che le inghiotte i visceri. Un buco nero, angosciante, mortifero. Improvvisamente, un insight, una consapevolezza: lui e lei provano la stessa cosa, una ferita profondissima, indicibile, un vuoto smisurato, intollerabile, a cui hanno solo dato delle forme esteriori diverse, un abito apparentemente differente ma, nella sostanza, fatto dello stesso tessuto, di un analogo intreccio di trame e orditi antichi, persi nella memoria, fatti di mancanze, di paure, di bisogni viscerali mai appagati, di rabbie furibonde e di atmosfere ghiaccianti, desolanti, senza speranza…

Il viaggio di Ilenia dentro il suo sentire è così toccante che non può fare a meno di scivolare in un’angoscia e in un dolore senza parole, senza tempo, senza confini. Ma per fortuna Ilenia dei confini ce li ha: ha un corpo, che vive nel presente, che respira, che è attraversato da una vita piena e pulsante. La aiuto a riconnettersi a questo, per riemergere dall’abisso della sua pena più profonda. E piano piano Ilenia riemerge, grata di poterlo fare, di essere qui, ora, con tutto il resto della sua esperienza, con tutto il resto di sé. E si rende conto di come, accanto ad uno sguardo più compassionevole verso quello che poco prima vedeva come una sorta di persecutore, l’uomo di cui è innamorata, sia affiorata in lei anche la consapevolezza che lui, questa esperienza di “riemersione” dal buco nero, forse non l’ha mai fatta, non è in grado di farla, perché teme troppo quel luogo angoscioso dentro di sé da cui fugge, continuamente, rifugiandosi in mille maschere.

Una profonda tristezza la attraversa, ma è una tristezza benevola, figlia di una presa di coscienza sulla realtà. Una realtà che non può cambiare, ma che può scegliere se tenere nella sua vita o meno.

Un approccio integrato: dalla teoria alla pratica

Nel corso del mio percorso professionale ho sempre avuto la curiosità di esplorare nuovi approcci, di integrare nella mia pratica strumenti, modalità e letture che potessero rispecchiare e supportare un orientamento complesso e integrato all’essere umano, inteso come unità di mente, corpo e spirito. La cornice teorica può sembrare chiara e definita. Ma cosa significa esattamente, nella pratica, lavorare con un approccio integrato? Credo che nulla possa essere più chiarificatore di un piccolo esempio clinico.

Marta arriva da me con una storia di abusi infantili. Traumi così profondi richiedono inevitabilmente uno sguardo complesso, attento, integrale alla persona. Nessun dettaglio può essere lasciato al caso o trascurato.

Il lavoro con Marta è stato molto intenso e proficuo fin da subito, avvantaggiato da una sua attitudine alla meditazione, derivata da anni di pratica yoga.

Nel corso di una delle nostre sedute Marta mi racconta del suo disagio quando deve dormire in un hotel o in una casa diversa dalla sua. Esplorando le sensazioni fisiche legate a questo disagio emerge sempre più chiaramente che si tratta di uno stato di allerta, di paura. Ascoltando questo timore Marta riesce a individuare che è legato all’idea che qualcuno possa entrare mentre dorme dalle finestre o dalla porta, cosa che ha sperimentato da bambina. Con Marta quindi siamo partire  da un lavoro di ascolto corporeo per recuperare una cognizione (pensiero), a sua volta legato a un ricordo. Entrambi gli emisferi cerebrali sono coinvolti, così come le aree preposte all’elaborazione delle emozioni (allerta, paura), quelle connesse al processamento più razionale delle informazioni  (il pensiero di un’intrusione) e alla memoria (il rimando all’esperienza infantile). L’attivazione di più circuiti neuronali è un’ottima premessa per la possibilità di riprocessamento dell’esperienza e la creazione di nuovi significati. Marta già realizzando la connessione tra passato e presente riesce a trovare un po’ di sollievo. Ma non basta. Bisogna porre le basi per una nuova risposta, per una nuova gestione della situazione critica. Così chiedo a Marta di connettersi alla sua emozione di paura e di darle una forma, di immaginarla. Marta visualizza una sorta di guscio attorno a sé: un guscio che – dice Marta – rappresenta come lei si sentiva da bambina. Bloccata, impotente, sconnessa dal mondo esterno.

La invito a tenere presente che ora è adulta e che ha molte più risorse, quindi le chiedo di immaginare se c’è qualcosa di diverso che vorrebbe cambiare in quella sua visualizzazione. Marta via via mi descrive un processo che fa accadere nella sua mente: di rompere, con sforzo ma con determinazione, quel guscio. La sua emozione è visibile mentre lei, a occhi chiusi, procede nello scenario immaginario in questa impresa. Riesce finalmente a liberarsi dal guscio, può sentire la luce e il calore sulla sua pelle, può alzarsi, muoversi liberamente. Ma non è ancora terminato il suo processo. Un po’ alla volta vede il guscio sgretolarsi, diventare polvere. Lo scenario improvvisamente e spontaneamente si trasforma: da questo mucchio di polvere, che è il guscio sgretolato, divampa un fuoco, che via via diventa sempre più vigoroso, imponente. Le fiamme ora sono alte e lei, adulta, danza in modo selvaggio e primordiale attorno a questo rogo.

La visualizzazione di una scena così potente e arcaica, quella di una danza ancestrale attorno a un fuoco, il fuoco della vita, mi fa capire che si è attivato un contenuto archetipico, che il suo Sé, o in altre parole la sua Anima, sta parlando, è riemersa, si sta consolidando. Ne avrò conferma da Marta stessa quando, terminata l’esperienza, mi dirà di non aver mai provato nulla di simile, di aver contattato un senso di potenza e di pienezza straordinari, di essersi sentita tutt’uno con la madre terra, col fuoco, con la vita. La sua coscienza ha avuto accesso a un livello diverso, si è aperta ad uno stato di trascendenza che andava al di là di passato e del tempo, in una condizione senza tempo e senza paura.

Questo esempio di lavoro con Marta a mio avviso ben rappresenta cosa significhi lavorare con corpo, mente e anche spirito, in un tutt’uno che apre le porte a uno stato dell’essere nuovo, potente e creativo.

Esistono emozioni “sbagliate”?

Molto spesso mi capita di confrontarmi, con le persone che fanno dei percorsi con me, sul tema delle emozioni “giuste” o “sbagliate”. Ricordo, tra le tante esperienze cliniche, una donna che, pur essendo molto infelice all’interno della relazione con il marito, mi chiedeva di “aggiustarla”, ritenendo che ci fosse qualcosa di sbagliato in lei, per permetterle di cambiare il suo sentire e continuare a vivere, però felicemente, con il marito. La sua convinzione circa la difettosità delle sue emozioni, e il desiderio di “sistemare” quel qualcosa che non andava in lei erano così radicati  che mi ci volle molto tempo per farle capire che la sua era una richiesta impossibile.

Perché? Perché non si possono pretendere le emozioni. O i sentimenti. Né da se stessi, né dagli altri.

L’emozione, o ancora prima una sensazione che ci arriva dal corpo, è un messaggio. Su noi stessi. È la saggezza della nostra Anima che, attraverso il linguaggio involontario e incontrollabile del corpo, vuole inviarci un segnale, un messaggio su ciò che è buono o meno buono per noi. Pretendere che non sia così sarebbe come arrabbiarsi per il fatto di provare caldo, freddo, fame, o non accettare che ci scappi la pipì. Possiamo certamente indispettirci, ma ciò non farà sparire quella sensazione, e con essa il messaggio che porta, il bisogno che esprime.

Ma se qualcosa ci fa stare male, che fare dunque? Ascoltare. E provare ad accogliere il messaggio che ci arriva; non scappare, prenderci la responsabilità di quello che siamo, non forzandoci ad essere qualcosa di diverso, perché prima o poi i nodi arriveranno al pettine…

Nel caso di Lorena, la donna che ho citato in precedenza, la “resa” fu tutt’altro che semplice. E parlo di resa, non di rinuncia. La resa ha a che fare con l’accettazione di quello che c’è. Non significa rassegnazione, ma disponibilità a stare nel flusso che la vita ci offre e, stando in quel flusso, trovare il nostro modo migliore per starci, per lasciarlo scorrere dentro di noi e andare avanti, andare oltre, verso ciò cui la nostra Anima è chiamata per esprimere al meglio se stessa.

Lorena era mortificata per il fatto di non provare più niente per il marito, una persona buona, generosa, amabile. Eppure lei, che lo aveva sposato proprio apprezzando le qualità di integrità e onestà che vedeva in lui, non poteva fare a meno di notare che, nel tempo, in quella relazione si era spenta sempre di più, fino a non provare più niente, né per lui né per nient’altro.

Sposarlo aveva voluto dire trasferirsi con lui dalla sua città natale, in campagna, alla periferia di Milano, tra palazzoni di cemento e rumore. Aveva voluto dire forzarsi a fare un lavoro che detestava, rinunciare ai suoi sogni. Aveva accettato tutto questo per quello che credeva fosse l’amore. Ma nel tempo ha realizzato che il rapporto con il marito non le bastava. Nel tempo ha sperimentato che il legame con quest’uomo, a cui voleva sicuramente bene, si era trasformato da un iniziale entusiasmo a una tiepida convivenza. Ogni elemento vitale si era spento. E la ricerca di Lorena di voler tornare ad amare il marito si trasformò, poco a poco, nel tentativo di tornare ad amare se stessa, di riprendere il contatto con il suo sentire, con i suoi desideri, con la sua essenza.

Questo percorso, partì proprio da un indispensabile cambiamento di atteggiamento: l’abbandono del giudizio rispetto a ciò che provava e il recupero di un’attitudine curiosa e benevola verso ciò che il corpo tentava di esprimere.

Ogni emozione è “giusta”. O meglio, abbandonando il registro morale, sarebbe più utile dire che ogni emozione è significativa, ci parla di noi. Abbiamo imparato a ignorare, reprimere o addirittura distorcere le nostre emozioni, ma il nostro corpo, il nostro migliore alleato, non si arrende, e – se non viene ascoltato – alza la voce, grida…

Viaggiare nel tempo per portare risorse nel presente

Matteo: “Dottoressa glielo dico subito…non voglio perdere tempo con l’analisi della mia infanzia! Quel che è stato è stato, non si possono cambiare le cose, e tutto sommato non mi è andata poi così male. Voglio focalizzarmi sul presente, perché ci sono situazioni in cui mi sento bloccato, e non riesco a uscirne”


Io: “Ho capito Matteo, allora partiamo da quello che c’è oggi, nel presente. Mi può fare un esempio di cosa la mette in difficoltà?”


Matteo: “Ecco, ad esempio, ieri è successo al lavoro: un mio collega davanti al capo ha fatto in modo di scaricare la colpa di un problema lavorativo su di me. Si trattava di qualcosa di cui, in realtà, era responsabile lui, ma ha rigirato la frittata in modo che lo sbaglio sembrasse il mio. Io non ho saputo ribattere niente, zitto, muto come un pesce. Ma dentro di me bollivo dalla rabbia. Ero talmente arrabbiato che quasi quasi mi veniva da piangere. Ci mancava solo quello! Mi capita spesso che, di fronte a un’ingiustizia, a un torto che mi fanno, non riesco a spiccicare una parola, vado in confusione, mi ammutolisco. E poi mi porto dietro la cosa per giorni, ci rimugino, ci ripenso. Mi sento uno smidollato, mi avvilisco per la mia mancanza di reazione, di coraggio. Non so come mai, ma in quei momenti mi sento proprio bloccato, come paralizzato”


Io: “Matteo le chiedo di re-immedesimarsi in quel momento, quando si è sentito sopraffatto dalla rabbia ma quasi congelato, immobilizzato. Vorrei che portasse tutta la sua attenzione alle sensazioni che nota ricordando quel preciso istante. Non mi interessano al momento pensieri o ragionamenti, ma solo le sensazioni che prova nel corpo”


Matteo: “Uhm…difficile…allora se ci penso mi viene subito un nodo alla gola, mi si chiude lo stomaco, è come se una voragine mi inghiottisse, mi va in confusione anche la testa, quasi vedessi tutto nero…” – Matteo si irrigidisce


Io: “Le chiedo lo sforzo di rimanere per qualche istante con quello che prova, senza cercare spiegazioni, ma solo ascoltando cosa accade”


Matteo: “Mi si infuoca la faccia, sento che sto sudando, mi fa anche male la parte destra della faccia…”


Io: “Le fa male la parte destra del viso…ha qualche senso per lei?”


Matteo: “è strano, non so cosa c’entri, ma mi è venuto in mente che è come quando mio fratello, dopo avermi atterrato nel fare la lotta, mi metteva il piede sulla testa e mi teneva giù, dicendomi che ero un pappamolla, così mi chiamava, un pappamolla”


Io: “Bene, se immagina di tornare per un attimo a quel momento, quando lei e suo fratello facevate la lotta, e finiva come mi ha descritto, cosa prova?”


Matteo: “Mi viene un nervoso anche oggi a ripensarci che lo riempirei di botte se fosse qui”


Io: “Provi a immaginare di assistere a quella scena del passato, a visualizzare lei sopraffatto da suo fratello. Quindi nella sua mente risponda a suo fratello coerentemente con quello che sente. Cosa le viene da fare? Può anche immaginarsi di avere dei superpoteri per fronteggiare suo fratello come desidera. E si immedesimi talmente tanto in quello che fa da sentire quasi i muscoli del suo corpo che si attivano e si organizzano nei movimenti che immagina. Se se la sente, le chiedo di agire proprio adesso, a occhi chiusi, i movimenti che immagina, al rallentatore, percependo distintamente ogni gesto e ogni parte del suo corpo coinvolta nel movimento”


Matteo si concede, prima cautamente, poi con sempre più sicurezza, di muovere il corpo in quelli che sembrano spintoni, pugni, calci. Il suo coinvolgimento cresce e gli esce una vocalizzazione che lo invito a ripetere, se ne sente il bisogno. Matteo procede con crescente intensità fino a che, quasi esausto, non si quieta. Gli chiedo come si senta adesso.
Matteo: “è incredibile ma mi sento liberato, forte. Anche se sento le mie gambe tremare. Ma ho un senso di leggerezza e di soddisfazione pazzeschi”


Io: “Bene, Matteo, pare che lei finalmente si sia concesso di mettere in scena e portare a compimento quella risposta che non ha mai potuto mettere in atto nel passato”


Matteo, perplesso: “E meno male che non volevo parlare della mia infanzia!”. Scoppia in una risata.


Gli spiego che, se per diverse ragioni non abbiamo “digerito” qualcosa del passato, quel boccone indigesto rimane dentro di noi, condizionando il nostro libero fluire nel presente. Oggi abbiamo molte più risorse rispetto a quando eravamo bambini e questo ci consente di rispondere agli eventi con maggiori possibilità. Quel ragazzino sopraffatto dalla forza del fratello è rimasto soggiogato dall’idea di non poter reagire. Ma contattando, da adulto, la rabbia di allora, e con le risorse attuali, ha potuto finalmente ribellarsi. Invito Matteo a restare collegato con il senso di potere personale e di leggerezza che sta sperimentando e di tornare al confronto con il collega.


“Cosa prova adesso?”


Matteo: “Sento che potrei dire la mia. Almeno dare la mia versione. Sì, questo lo potrei fare. In questo momento mi pare la cosa più banale del mondo”.


Rifletto e non posso che essere d’accordo con Matteo: parlare tanto del passato non serve un granché, ma riparare, attraverso l’esperienza, a dei vissuti rimasti bloccati, può fare davvero la differenza.