Essere Anima-li: riscoprire il corpo richiama l’Anima

Ho conosciuto Alba in un momento buio della sua vita: una depressione ormai pluriennale “curata” con farmaci, un disturbo di attacchi di panico con cui ormai conviveva da una vita, dolori diffusi, invalidanti e a detta dei medici inspiegabili, che la costringevano a letto per la gran parte della giornata. Ogni cosa di lei, a partire dal suo aspetto diafano, esile, raccontava di un “non esserci”, di una presenza evanescente, tutt’altro che incarnata.

Alba era molto cerebrale: amava la filosofia, la cultura, la lettura e provava una sorta di disprezzo e disgusto per tutto ciò che riguardava la dimensione più terrena, “bassa” dell’esistenza. Facile immaginare come certi aspetti della più cruda umanità la inorridissero: gli istinti, le pulsioni, gli umori e gli odori corporali, le più naturali funzioni fisiologiche, tra cui anche il mangiare, rappresentavano per lei delle oscenità. “Osceno”: fu proprio questa la parola da cui cominciammo ad esplorare il suo sentire. Emerse in riferimento all’opposta attitudine del padre di godersi la vita. Andando un po’ più a fondo della faccenda, emerse che Alba condivideva questa lettura della paterna trivialità con la madre, che da sempre biasimava e deprecava la crudezza e la bassezza del marito. Alba ricordava vividamente un episodio in cui il padre, quando lei era una bambina dell’età di 4/5 anni, le fece così tanto il solletico che lei, per le risate, si fece la pipì addosso. La mamma intervenne rimproverando aspramente e disapprovando il marito davanti a lei, alludendo all’accaduto (aver sollecitato così tanto la bambina) come a qualcosa di indecente e inaccettabile. Alba provò un senso di vergogna così profondo che da allora evitò qualsiasi contatto col padre e cominciò a guardarlo con occhi sprezzanti.

Chiesi ad Alba di provare a sospendere, per qualche istante, il suo giudizio, e di tornare ai primi attimi di quel gioco con il padre. L’emergere di un sorriso fu istantaneo. Questo fu l’inizio di un lavoro in cui, sforzandosi di non cedere ai condizionamenti ricevuti, Alba riscoprì piano piano la legittimità e la piacevolezza delle sue esperienze sensoriali. Il dischiudersi dei vissuti e delle percezioni alla sua coscienza acquisì via via sempre più spazio e intensità. E Alba imparò progressivamente a trovare, in questa nuova attitudine, un’irrinunciabile fonte di vitalità e di serenità. Un giorno, durante uno dei nostri consueti lavori corporei, Alba ebbe una visualizzazione: di avere una membrana, attorno a sé, quasi a formare un guscio, che lei rompeva permettendo alla luce di entrare. Sperimentò una connessione profonda e intensissima con tutto il resto del creato, con la terra, con la natura, con gli altri esseri viventi. Confessò poi di non aver mai contattato nulla di simile prima. Questa sensazione le riempiva in modo incontenibile il petto, le provocava una gioia, una commozione profonde. Le pareva di aver contattato un’altra dimensione, di essere in pace con tutto e tutti. La sua coscienza aveva sperimentato, per la prima volta, uno stato a cui mai prima aveva avuto accesso: una dimensione di profonda serenità, di amore, di apertura.

Il lavoro di riconnessione alla sua corporeità le aveva permesso di reimmergersi nel flusso energetico e vitale dell’esistenza, arrivando perfino a risvegliare una dimensione spirituale della sua vita. Il miracolo che accade quando ci si “incarna” davvero nella dimensione fisica e corporea è che, trovando un profondo radicamento, si apre paradossalmente la possibilità di un’espansione della coscienza, che ci porta a contattare dimensioni anche spirituali. Come se l’espansione di una parte più trascendente traesse giovamento dal contrappeso offerto dal radicamento corporeo. Mi piace pensare che, tornando ad essere più “animali”, recuperiamo di noi non solo la componente più istintiva e corporea a cui la parola allude, ma ci prendiamo cura anche del “nido” in cui poter accogliere, con rinnovata consapevolezza, la parte animica di noi, da cui etimologicamente la parola “anima-le” deriva.

Il silenzio nei colloqui

La relazione tra operatore e cliente è caratterizzata da un bagaglio di emozioni, sguardi, gesti, parole, pensieri, fantasie, immagini, racconti, speranze e sentimenti che creano e disvelano, via via, un mondo sempre più condiviso.

I silenzi, le pause, le attese, punteggiano questi scambi con un significato e una intensità, di volta in volta, diversi e carichi di valore.

Come in ogni altro ambito, il silenzio in colloquio può avere molti significati ma – a differenza dei consueti scambi interpersonali – diventa esso stesso oggetto di attenzione, di cura, e strumento di lavoro. Intuire ciò che non viene detto, rispettare un momento di emozione o di riflessione, concedersi e concedere una pausa al sentire o un tempo per una chiarificazione interna possono diventare perle preziose all’interno del processo di lavoro.

Un silenzio che emerge dal cliente è sempre denso di senso: può rappresentare un momento di riflessione, di emozione. Ci sono silenzi di impotenza, di rassegnazione, di prostrazione dolorosa. Oppure silenzi di imbarazzo, di incertezza, di timidezza o di paura.

Ci sono silenzi manipolatori e silenzi autentici. Silenzi intimoriti e silenzi sfrontati. Silenzi disperati o furenti. Silenzi perpetrati con ostinata determinazione e silenzi di annichilimento.

E ogni volta la comprensione e l’ascolto del senso che esprime un’assenza di parole è qualcosa di prezioso, che diviene oggetto di osservazione e, spesso, di condivisione in colloquio. A volte a un silenzio non occorre nessuna parola di chiarificazione. Esige solo rispetto.

Succede che anche l’operatore, nel corso di un colloquio, decida di tacere.

Quando un grande dolore viene condiviso, o quando è in atto una profonda elaborazione emotiva, le parole non servono. La presenza, il contatto visivo e umano con l’altro, sono tutto ciò che serve.

Dare spazio e saper stare, insieme all’altro, in un’esperienza emotiva intensa, senza bisogno di “razionalizzare”, è qualcosa di estremamente significativo. Riconosce all’altro la legittimità e la preziosità della propria esperienza umana, ridotta all’essenza, in quella forma nucleare e pre-verbale che, per certi versi, rimanda alla prima connessione tra mamma e bambino; una sintonizzazione che, spesso, è stata difficile o problematica.

A volte un silenzio dell’operatore può rappresentare un’esperienza frustrante, ma non necessariamente negativa. Imparare a tollerare la frustrazione e riassumersi la responsabilità del proprio vissuto, senza cercare l’approvazione di quest’ultimo può rappresentare un grande passo evolutivo, soprattutto per chi è particolarmente dipendente dal giudizio e dal consenso altrui.

Un silenzio può diventare anche uno strumento di amplificazione per un messaggio che l’operatore sceglie di dare attraverso un canale non verbale: uno sguardo, un gesto, un’espressione del volto.

Oppure può essere usato come un potente fattore motivante per spingere l’altro fuori dalla sua zona di confort: affinché la persona, infrangendo finalmente il silenzio, riesca a superare la sua chiusura, ad attivarsi, a fare un passo verso l’altro.

Una pausa più o meno prolungata può anche essere utilizzata per introdurre con maggiore enfasi una considerazione, una riflessione, un feedback su cui l’operatore desidera che il paziente riponga tutta la sua attenzione.

L’assenza di parole è, in conclusione, una parte integrante ed estremamente preziosa della relazione di cura. Come accade spesso, pieno e vuoto si alternano in una continua danza: senza momenti di sospensione non ci sarebbero quei passi che rendono possibile la magia.

Voglio raccontare un paio esperienze, che rispecchiano dei possibili livelli di intervento – tra i mille possibili- aventi come obiettivo il supporto e la stimolazione, nella persona che chiede aiuto, delle sue risorse, il superamento dei suoi limiti e dei suoi blocchi emotivi, spesso legati ad esperienze traumatiche che agiscono a livello inconsapevole. Si tratta di due interventi che si avvalgono proprio del potere del silenzio.

Il primo esempio che voglio portare è quello di Marta, una professionista molto in gamba, con un Io sufficientemente strutturato, molte risorse, e un percorso pregresso di analisi classica che le ha dato tante consapevolezze ma non l’ha aiutata fino in fondo a gestire le crisi di ansia che, spesso, la attanagliano. Ha chiesto il mio aiuto sapendo che utilizzo Somatic Experiencing. Il lavoro con lei è stato intenso e molto efficace. L’ansia è stata finalmente superata ma un giorno, durante uno dei nostri colloqui, emerge un dolore profondo al petto. Esplorando questa sensazione, Marta rievoca immediatamente un evento luttuoso e ancora doloroso per lei: la morte – a pochi giorni dalla nascita – del primogenito tanto desiderato e amato. La accompagno ad attraversare questo dolore. Il suo corpo si scuote per i singhiozzi, si ripiega su se stesso, dalla gola esce un lamento strozzato. Sono lunghi minuti di disperazione, di strazio, in cui il suo corpo è piegato e sopraffatto dal dolore. Non c’è nulla da dire. Le chiedo solo il permesso di avvicinarmi, di appoggiarle delicatamente la mano tra le scapole, a sostegno della zona del cuore. Mentre lei cavalca l’onda del suo dolore, lasciandosi attraversare completamente da quest’ultimo, io sono con lei. Accolgo il suo vissuto, gli do un contenimento (rappresentato dalla mia mano a contatto della sua schiena), “scarico” a terra tutta l’energia che si muove in quel campo, sono silenziosa ma testimone partecipe della sua discesa negli abissi. Non una parola, non ce n’è bisogno, sarebbe un’interferenza. Il sentire profondo trova altri canali di espressione, e di comunicazione. Io sono con lei, nel suo inferno, le tengo la mano facendo, per lei, quel lavoro di radicamento e di ancoraggio al presente che impregna il campo e le permette di non lasciarsi inghiottire dal dolore. Fintanto che, cavalcata l’onda, Marta piano piano riemerge, si riassesta lentamente, torna nel qui e ora, e mi ringrazia con un lungo, silenzioso abbraccio. Mi dirà, poi, di non aver mai potuto vivere in questo modo il suo dolore: senza tentativi di consolazione o futili commenti.

Il secondo caso di cui voglio raccontare è quello di Fabio, un ragazzo con una storia difficile di abusi infantili. Fabio ha sviluppato una modalità di funzionamento per cui, a fronte di qualcosa che lo mette a disagio o lo fa stare male, si dissocia dal proprio corpo e inizia a rimuginare in  modo ossessivo e distruttivo. Il nostro lavoro sul recupero del suo sentire è stato lungo e delicato. Tenere Fabio presente a se stesso, anche all’emergere di emozioni spiacevoli, è stato impegnativo e ha richiesto tutta la mia attenzione per evitare di riattivare in lui dei vissuti di intrusione ma, contemporaneamente, stimolarlo a rimanere in ascolto e consapevole del suo sentire. Non dimenticherò mai la prima volta che – dopo molto “allenamento” –  Fabio, contattando un tema doloroso, si è permesso di far scendere delle lacrime dal suo viso. In quel momento abbiamo passato lunghi istanti di silenzio assieme in cui io, lì per lì, non ho fatto altro che posare su di lui in modo discreto il mio sguardo amorevole. In questo caso non c’era né una “sfida” alle sue resistenze, né un contatto (sarebbe stato fuori luogo ed eccessivo per la storia di questo ragazzo). Solo un semplice e rispettoso silenzio di accoglienza, di compartecipazione, di estremo rispetto per ciò che si stava dispiegando. Fabio, commentando poi quei momenti, mi ha confessato che, se avessi parlato, sarebbe “svanito l’incantesimo” e sarebbe scappato – com’era solito fare – nella sua mente.

“Non lo sopporto!”

Imparare a tollerare le frustrazioni

Marco è un uomo sulla cinquantina, sposato con due figli.

È da un paio d’anni che lavoro con lui, per problemi di alcolismo. La sua tendenza a bere è rientrata, dopo aver esplorato insieme il bisogno più profondo che lo spingeva a stordirsi. Marco ha preso consapevolezza delle sue emozioni, dell’impatto che la sua storia familiare ha avuto su di lui, dell’importanza che ha, oggi, la sua nuova famiglia, a lungo trascurata per stare al bar con gli amici.

Il suo ruolo di marito e di padre sono molto cambiati nel corso di questi due anni, ma non è tutto rose e fiori. Il maggiore dei suoi figli – che oggi si affaccia alla preadolescenza –  ha ricevuto qualche anno fa una diagnosi di ADHD (disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività). La gestione del figlio è sempre stata estremamente problematica per i genitori, che all’inizio erano esasperati. Ora le cose vanno molto meglio, ma ci sono periodi in cui il comportamento difficile del ragazzo li mette ancora a dura prova.

L’ultimo mese è stato davvero stressante per Marco: al lavoro ha dovuto fare turni snervanti, la madre ha avuto grossi problemi di salute, hanno cambiato casa e, se non bastasse, pure il figlio è tornato a dare problemi, mostrandosi molto scontroso e oppositivo tanto a scuola quanto a casa.

Marco mi confessa di avere avuto più volte la tentazione di bere ultimamente. Ma non lo ha fatto per non buttare al vento due anni di duro lavoro su di sé.

“A tratti – mi dice – è come se non riuscissi ad accettare che le cose stiano andando così male. Dopo tutti gli sforzi e il percorso fatti. Soprattutto quando Matteo (il figlio maggiore), fa una delle sue scenate e tira su un putiferio per qualche sciocchezza, magari perché gli vietiamo di giocare per ore ai videogiochi. Sembra che non ci sia nulla in grado di calmarlo. In quei momenti mi assale lo sconforto e la tentazione di bere si riaffaccia nella mia mente.”.

“Marco – gli dico io – ti rispondo ora in un modo che potresti riproporre anche tu con Matteo: come puoi aiutarti a rendere più sopportabile quel preciso momento? Che cosa potrebbe esserti utile per riuscire a tollerare soltanto un po’ di più quell’attimo di frustrazione?”.

Marco ci pensa un po’ su e poi i tratti del suo viso si distendono: “pensare alla mia montagna…”, mi dice “mi dà un immediato sollievo”. Dopo qualche istante di riflessione aggiunge: “Ho capito: si tratta di spostare l’attenzione dall’aspetto esclusivamente negativo di quel momento. E trovare qualcosa DENTRO DI ME che possa aiutarmi a superarlo. La stessa cosa potrei proporla, in effetti, a Matteo; potrebbe anche diventare un gioco: confrontarci su come riusciamo a superare i momenti più difficili da accettare, scambiarci i consigli”.

Marco ha colto perfettamente la mia proposta. Quella di non arrovellarsi tentando di cambiare una realtà che non dipende totalmente da lui, ma cercando dentro di sé le risorse per imparare a tollerare ciò che gli accade. È un’attitudine, questa, che può sollecitare anche nei propri figli, evitando triti ragionamenti “di testa” che tentino di convincerli a farsi una ragione di alcune cose, ma spostando l’attenzione sugli aspetti di risorsa; virando il focus da un piano di pensiero a quello delle sensazioni.

Un detto cita “Quando possiamo cambiare la realtà, facciamo di tutto per cambiarla. Quando non possiamo fare nulla, non ci resta che accettarla”. Ed è in quel momento che il focus diventa il nostro mondo interno, con le potenzialità e le capacità che custodisce.

Marco, la volta dopo, mi riferisce di aver sperimentato questa strategia con Matteo. In un primo momento Matteo non ha voluto ascoltare la proposta di Marco. Che però non si è dato per vinto ed è rimasto accanto al figlio. Dopo qualche istante Matteo ha borbottato che la sola cosa che avrebbe voluto fare sarebbe stata tirare dei pugni. Marco si è prestato al gioco e sono finiti a “fare la lotta”, cosa che non succedeva da tanto, tanto tempo. E tra spintoni e risate hanno ritrovato una complicità che mancava da molto.

“Il persecutore dentro di noi”

Una storia di impotenza appresa

Renata è una bella donna di 36 anni. Da 4 anni ha una relazione estremamente conflittuale con un uomo che la prevarica e la svaluta quotidianamente. È un rapporto non molto diverso, dice lei, da quelli precedenti. Succede ogni volta la stessa cosa: dopo un’iniziale reticenza, Renata finisce per coinvolgersi molto nella relazione di coppia e, proprio quando lei si abbandona ai suoi sentimenti, il partner comincia a maltrattarla psicologicamente, a offenderla, a sminuirla, a farla sentire come un’incapace e una stupida.

Renata sostiene di essere molto sfortunata in amore, e comincia a pensare di meritare questo tipo di uomini, evidentemente perché non è abbastanza interessante.

Mentre Renata mi racconta delle sue pene amorose, le chiedo di individuare un episodio recente in cui è avvenuto uno scambio, col compagno, che l’ha ferita.

Renata non fatica a individuarne uno, accaduto proprio il giorno prima: il suo compagno le ha chiesto di partecipare ad una importante cena di lavoro, proprio nel giorno in cui lei avrebbe dovuto partecipare al compleanno della sorella, con la quale ha un rapporto molto stretto. Lui sapeva di questa ricorrenza ma, al solito, ha messo i propri bisogni davanti a tutto. Quando Renata glielo ha fatto presente, lui ha cominciato ad alzare la voce e ad accusarla di pensare solo a se stessa, di non curarsi di lui, di volerlo umiliare di fronte ai colleghi per invidia rispetto al suo successo lavorativo. Ha dato sfogo ad un monologo durato mezz’ora al termine del quale l’ha fatta sentire talmente in colpa da decidere di rinunciare alla festa della sorella per accompagnarlo alla cena. Renata mi racconta di essersi sentita talmente mortificata per le parole del compagno, di aver provato una confusione tale da non aver saputo ribattere ad una sola parola del fidanzato. Si è sentita piccola, smarrita, una vera idiota che non ne combina una giusta.

Le chiedo di dirmi se questa è una sensazione che le è familiare, che ha incontrato spesso nella sua vita.

Renata mi dice che “sei un’idiota” potrebbe essere il titolo della sua storia.

Le vengono le lacrime agli occhi. Ricorda di quando, da piccola, sua mamma le ripeteva “non sei una principessa, non mi interessa…”. La madre si mostrava affettuosa con lei solo nel momento in cui Renata si comportava esattamente secondo le sue aspettative. Ogni richiesta, ogni movimento che si discostasse dal volere o dal desiderio materno era accompagnato da un commento simile a quello sopra citato.

Faccio notare a Renata come abbia interiorizzato l’immagine svalutante e oppressiva della madre.

Avendo imparato molto presto ad accondiscendere alle richieste altrui per ottenere approvazione, accettazione e amore, ha smesso anche di ascoltare le proprie risposte emotive, i propri bisogni e desideri.

Ecco perché, di fronte alle irragionevoli pretese del compagno, Renata non riesce a contattare le sensazioni che queste ultime scatenano in lei, ma si attiva in automatico un vecchio copione che la vuole “sbagliata”, pretenziosa e inopportuna. Subito compare il senso di impotenza, di inadeguatezza, e di colpa. Renata reagisce come quando, da bambina, la mamma la mortificava. Ma ora è una donna, e può rispondere diversamente al compagno.

Le chiedo di “riavvolgere il nastro” della scena accaduta la sera prima con il fidanzato e di procedere al rallentatore, “mettendo in pausa” subito dopo aver ascoltato la sua richiesta di presenziare alla cena di lavoro, ignorando la sua obiezione legata all’impegno preso con la sorella.

Invito Renata a chiudere gli occhi, a immedesimarsi in quell’istante, e a portare poi l’attenzione dentro di sé, al suo corpo, alle sue sensazioni. Non serve che le chieda cosa provi perché il suo vissuto le si legge letteralmente in faccia: il suo volto viene arrossato da una vampata di calore, le mascelle si serrano e l’espressione che compare in viso è quella della rabbia. Le domando se sia consapevole di quello che le sta accadendo. Renata, presa da un tremito alle braccia, dopo un sussulto, mi confessa: “se fosse qui gli tirerei un pugno in faccia…oddio…sono orribile…come ho potuto dire una cosa simile?”.

Rassicuro Renata rispetto al fatto che non è un mostro: quello che sente, e che probabilmente non è abituata a contattare, è una legittima risposta di rabbia. La rabbia non va giudicata da un punto di vista morale, è soltanto un segnale fisiologico che ci dice che ciò che sta accadendo non ci piace, non va bene per noi. Per questo si manifesta attraverso un flusso di energia che, spesso, “sale”: è il nostro corpo che si prepara a reagire con forza a qualcosa che respingiamo, per evitare che ci ferisca. Renata dovrà imparare, un po’ alla volta, ad ascoltare e a gestire questa emozione, che come un leale messaggero le porta un’informazione su di sé.

Cos’è quello che sento? Alfabetizzazione emotiva

Spesso succede che le persone non abbiano chiaro il proprio vissuto, che viene spesso identificato con un generale senso di malessere o di stress. Eppure, al di là del mero esercizio intellettuale di etichettare le nostre emozioni, capire ciò che ci accade è fondamentale per capire chi siamo, cosa vogliamo, e che cosa è meglio per noi. Ecco un esempio.

Tiziana mi racconta che, rispetto alle modalità educative di sua madre, quello che prova e che ha sempre provato, è rabbia. Ma me lo dice in un modo poco convincente, quasi rassegnato. Una qualità del sentire che ha poco a che fare con l’energia della rabbia. Ecco allora che decido di esplorare, col suo consenso, questa emozione.

“Esattamente, Tiziana, cosa senti nel corpo quando pensi a certi modi di porsi di tua madre?”

“Qualcosa nelle braccia…ma più che altro un peso al petto. È come se mi si stringesse qualcosa, nella zona del cuore, fa male…”

Chiedo a Tiziana di rimanere in ascolto di quella sensazione, tenendo l’attenzione su di essa e notando ciò che accade.

Tiziana, a un certo punto, mi dice che sta salendo qualcosa, e prima che possa finire la frase scoppia in un pianto violento, disperato, dirompente. La accompagno e la sostengo mentre si lascia attraversare da questa onda emotiva che, piano piano, si quieta, e la lascia spossata, incredula.

Mi guarda, con aria interrogativa.

“Direi che questo non ha molto a che fare con la rabbia, che dici?”

Tiziana ride e si rende conto: non si era mai permessa di ascoltare davvero quell’emozione e, men che meno, di esprimerla.

Rimando a Tiziana che, a volte, riconoscere e ascoltare la tristezza è molto penoso. A volte ne abbiamo anche paura. Ecco allora che “raccontarci” che quel malessere che sentiamo è “rabbia” è più tollerabile, perché la rabbia è un’emozione più attiva, anche culturalmente più valorizzata nel nostro contesto.

Il vero vissuto di Tiziana ce lo ha potuto raccontare il corpo più che la testa: un profondo senso di dolore, collegato alle ferite ricevute, che Tiziana non si è mai concessa di ascoltare, di legittimare. Tiziana si diceva, “di testa”, di soffrire per il rapporto conflittuale con la madre, ma non ha mai attraversato quel dolore.

Poterlo sperimentare oggi le ha permesso, finalmente, di riconoscere e reintegrare una parte di sé negata. E questo le ha fatto sperimentare un profondo senso di interezza, di libertà. In secondo luogo, l’aver attraversato la sua sofferenza, le ha restituito un senso di potere personale: non ne è stata sopraffatta, come implicitamente temeva, ma ha potuto contenerla.

La difficoltà di Tiziana di ascoltare e accogliere il suo sentire è qualcosa di molto comune oggi. E rimanda a una carenza di “alfabetizzazione emotiva”: un vero e proprio mancato apprendimento del linguaggio del nostro corpo. Ma come e quando dovremmo apprendere questo linguaggio?

Fin dai nostri primi giorni di vita, e per tutta l’infanzia, quando gli adulti di riferimento hanno il ruolo, fondamentale e delicatissimo, di cogliere, dare significato e rispecchiare al bambino i suoi vissuti, fisici e mentali. Se questa funzione è carente, perché magari a loro volta i genitori non ne hanno fatto adeguata esperienza, viene meno la sintonizzazione emotiva tra genitori e bambini. E i figli non potranno che crescere ignorando e fraintendendo un linguaggio, quello del loro corpo, delle sensazioni, che è in realtà la bussola del nostro benessere.

Un’esperienza da registi: ri-creare la propria realtà

Sandra lavora con me da qualche mese su alcune esperienze traumatiche vissute nella sua infanzia. Un giorno mi porta un sogno ricorrente, che fa da quando era ragazza, e che per diverso tempo l’ha perseguitata, ogni notte. Anche oggi, di tanto in tanto, la sveglia nel cuore del sonno e ci vuole parecchio prima che, con l’aiuto di suo marito, lei possa calmarsi. La narrazione è semplice e chiara: Sandra è in casa, sente dei rumori ma, improvvisamente, tutto diventa buio e lei non riesce a capire cosa stia accadendo, se ci sia qualcuno, si sente paralizzata e terrorizzata.

A livello conscio stiamo lavorando sulle sue risorse per ripristinare il suo senso di sicurezza e di potere personali. Ma poiché in questo caso si tratta di un sogno, decido di accedere a un livello di lavoro più implicito e simbolico. Le chiedo quindi di chiudere gli occhi, immergersi nel sogno, che conosce così bene, e descrivermi che cosa sente.

Sandra impiega qualche minuto per “rientrare” in quella scena e mi accorgo subito quando è “dentro”: si irrigidisce, la respirazione diventa più superficiale, appare un’espressione di angoscia sul suo viso.

Le chiedo di raccontarmi qual è la sensazione più disturbante che sta provando in questo momento, a livello corporeo. Mi dice che è la sensazione di immobilità, per via della paura e del fatto che tutto, attorno a lei, è buio.

“Ascolta bene, Sandra: in questo momento, all’interno della scena che stai vivendo, che cosa cambieresti? Proprio come se tu fossi la regista di un cortometraggio e potessi decidere come far procedere le inquadrature…”.

Sandra: “Sicuramente accenderei la luce, mi guarderei attorno, e mi muoverei..”.

Io: “Puoi farlo? Intendo puoi farlo accadere nella tua mente, viverlo nella tua immaginazione, ora? Fai tutto ciò che ti farebbe sentire meglio in quella scena”.

Sandra annuisce. Posso osservare il suo cambiamento: il corpo di ammorbidisce, il volto si rilassa, appare perfino un sorriso sulle sue labbra.

“Sì! – esclama – accenderei la luce e andrei verso la porta di casa…e potrei vedere il mondo, là fuori, e respirare…”. Il suo torace si gonfia d’aria, sembra euforica, l’euforia che arriva dopo il terrore, quando sentiamo che ce l’abbiamo fatta.

Io: “Ottimo Sandra, ora ti chiedo di individuare una parola che possa descrivere tutto questo, che racchiuda il senso di ciò che hai provato, del processo che hai vissuto, con gli occhi della mente”.

“Libertà! Direi che la parola più adatta è proprio libertà”.

Io: “Vorrei che tu raccontassi a tuo marito l’esperienza che hai fatto oggi, con me, e che gli chiedessi, se ti dovesse capitare ancora di fare quest’incubo, di aiutarti, ricordandoti in quel frangente la parola libertà”.

Sandra sembra sbalordita e meravigliata dalla semplicità e allo stesso tempo dall’intensità dell’esperienza che ha fatto in seduta. Ha potuto modificare l’esito del suo incubo e ne è rimasta incredibilmente sorpresa: l’ha invasa un senso di forza, di speranza e di euforia che non credeva possibili.

Le spiego che, quando riusciamo a immaginare intensamente qualcosa, immedesimandoci profondamente in essa, nel nostro cervello si attivano le aree pressoché identiche a quelle che si attiverebbero se facessimo davvero l’esperienza. È il principio che ha reso tanto di successo i film o le animazioni in 3D.

La sua mente, quindi, ha potuto per la prima volta individuare e vivere un esito diverso di quella scena angosciante.

Ciò ha accresciuto il suo senso di potere personale e di successo, arrivando a farle sperimentare il “pronking”, ovvero la percezione di avercela fatta. Il rilascio di un potente quantitativo di energia prima bloccata. È un fenomeno che si può anche osservare in natura, quando certe prede sfuggono ai predatori. Si tratta di un vissuto di pura gioia e vitalità.

Arriva quando superiamo un’esperienza traumatica, quando riusciamo ad uscire da una situazione vissuta come estremamente minacciosa per la nostra incolumità, quando facciamo fisicamente l’esperienza di essere fuori da una situazione di pericolo.

L’energia fisiologica attivata dall’organismo per far fronte alla minaccia viene liberata e quello che si percepisce è una vera e propria “scarica” adrenalinica, di euforia.

Cosa ha permesso a Renata di “farcela”?

Renata ha sempre percepito il suo incubo ricorrente come immutabile, incombente, inevitabile. Non lo ha mai “trattato” come uno scenario che potesse trasformare, avendo sempre subito il vissuto profondamente angosciante e paralizzante che esso le trasmetteva. Accedere a una soluzione percepita come concretizzabile (“accendere” – con l’immaginazione – la luce nella stanza) ha rappresentato per lei una via d’uscita risolutiva, a cui non aveva mai pensato. Una soluzione banale ma “mai vista” e considerata, essendo Renata completamente sopraffatta dalle sensazioni – anche fisiche – di impotenza e paralisi.

La semplicità della soluzione e il fatto che l’avesse trovata Renata stessa, dopo essersi defocalizzata dal suo senso di impotenza, le hanno restituito il suo potere personale e un senso di vitalità incontenibile.

Renata mi ha poi raccontato di non aver più fatto quell’incubo notturno. Ciò a dimostrazione del fatto che, siano più o meno “reali” le esperienze che facciamo, ciò che conta è come noi le viviamo, e anche l’esperienza di attraversamento e superamento che ne facciamo. Sia essa “vera” o immaginata. Si tratta pur sempre di esperienza vissuta nel corpo, e quindi di un passo verso una maggiore resilienza.

Dalle parole al sentire: l’esperienza curativa del “cavalcare” la propria rabbia

“Dottoressa sono disperata, ho bisogno urgente di un parere, non so più cosa fare, sono tormentata, da troppo tempo. Se non parlo con qualcuno divento matta. Non so più cosa fare”.

Sara mi chiede in questo modo il primo appuntamento, trasmettendomi tutta la sua agitazione e angoscia. Il modo concitato di parlarmi, e l’urgenza, mi fanno sentire una costrizione al petto, come se avessi qualcosa che, dall’esterno, mi opprime e non mi permette di respirare.

Tenendo presente questa mia reazione, la incontro di lì a qualche giorno.

La stessa sensazione mi si ripresenta durante il nostro primo colloquio: Sara è visibilmente scossa e mi racconta in modo concitato, inondandomi di parole, del suo problema. Una situazione familiare che la sta logorando, che ha sopportato per anni ma che ora non riesce più a tollerare.

“Non so più come gestire la situazione: mia suocera, che vive sotto di noi, mi sta facendo diventare matta e io non so più cosa fare. Non perde occasione per umiliarmi e attaccarmi, e io mando giù…mando giù…ma adesso ci sono dei momenti in cui avrei l’istinto di farle del male. Ho paura di me stessa, non so più che fare…”

Mentre Sara incomincia a raccontarmi nei dettagli le angherie della suocera, tutte le occasioni in cui ha dovuto ingoiare la propria rabbia, la mia sensazione di oppressione al petto cresce. Il fiume di parole che sgorga da lei sembra non avere fine, in un susseguirsi di memorie, considerazioni, dubbi e domande. Dopo aver ascoltato alcune testimonianze della faticosa esperienza di Sara con la madre di suo marito, decido di arginare quella marea di pensieri e parole.

“Sara, mentre mi racconta questi episodi, cosa sente nel corpo?”

Sara, quasi contrariata per il fatto che io l’abbia interrotta, mi guarda con perplessità:

“In che senso cosa sento? Penso che non sia giusto, che non mi merito questo trattamento…”

La interrompo di nuovo, e il suo disagio sembra crescere: “Non le ho chiesto cosa pensa, ma cosa sente”. Il volto interdetto di Sara mi comunica tutto il suo smarrimento.

“Vede – le spiego – ascoltando i suoi racconti io ho sentito crescere in me un senso di oppressione al petto che quasi mi ha tolto il respiro. E questo solo ascoltando, seduta di fronte a lei, la sua esperienza. Mi chiedo come sia essere al suo posto, cosa stia accadendo dentro di lei in questo momento, cosa percepisca nel suo corpo. Vorrei davvero che per un istante lei portasse l’attenzione su questo aspetto.”

Sara, dopo un primo momento di evidente disorientamento, quasi di irritazione, comprende: gli occhi le si riempiono di lacrime, cerca con la schiena l’appoggio della poltrona e con voce rotta mi dice “Non mi capita spesso di fare attenzione a questo genere di cose. Non saprei cosa dire…sento tanta rabbia, ma non posso certo ammazzare mia suocera…”.

Chiedo a Sara uno sforzo ulteriore: se dovesse immaginare di descrivere che cosa sta provando lei in questo momento a una persona che non conosce il significato della parola rabbia, cosa direbbe?

“Un calore alla gola, una specie di formicolio alle braccia, alle mani, come qualcosa che mi si muove dentro”.

Chiedo a Sara di continuare a mantenere l’attenzione su queste sensazioni, come a volerle amplificare. Sara sente aumentare l’energia dentro di sé, serra i pugni, sente un grido nascere dalle viscere. La accompagno nell’esperienza di ascolto e nella sperimentazione dello stare con la sua rabbia, di darle espressione, attraverso il corpo, così come non aveva mai fatto prima.

Quando l’energia nel suo corpo torna a livelli più moderati, Sara si sente sollevata, come liberata da un peso. E senza che io debba spiegarle nulla, commenta: “Certo che se dessi ascolto in questo modo a quello che mi succede, probabilmente non accumulerei tanta rabbia e frustrazione. Se penso adesso a mia suocera mi fa quasi compassione…ma credo che non le permetterò più di trattarmi in un certo modo…”

L’arte di lasciare andare…ma cosa?

Spesso nel mio lavoro incontro la fatica delle persone nel distogliere lo sguardo – e a volte addirittura la presa – dal passato. Le memorie delle esperienze passate possono incistarsi in modo così profondo, dentro di noi, da impedirci di focalizzare la nostra attenzione al momento presente, che è l’unico realmente esistente.

Se non si lavora su un doppio binario, quello mentale e quello corporeo, il rischio è che uno dei due aspetti possa sabotare l’altro.

Può succedere, infatti, come a Sabrina: dopo decenni di analisi arriva da me sapendo tutto del perché, del per come, del significato simbolico e psicologico dei suoi sintomi, ma non riesce a gestirli lo stesso. Come mai? Il corpo di Sabrina ha appreso delle vie di risposta ormai automatizzate, del tutto inconsapevoli, che lei pur volendo non sa come interrompere. La sua comprensione del suo disagio non è stata sufficiente a risolverlo. Con Sabrina è necessario fare un lavoro di tipo corporeo che le insegni a conoscere e gestire le sue reazioni fisiche (da collegare alla categoria di articoli “ascolto delle emozioni” e alla sezione “Somatic Experiencing”): a volte sapere di dover uscire da un circolo vizioso senza sapere come farlo praticamente, può essere un grosso problema. Sabrina ha dovuto apprendere e rinforzare nel tempo nuovi circuiti di risposta, partendo da un profondo lavoro di ascolto e di conoscenza dei suoi vissuti corporei.

Oppure può accadere come a Massimo: è tutto testa, tutto pensieri, spende la maggior parte del suo tempo in rimuginazioni. Pensa, pensa, ripensa ma non trova mai il bandolo della matassa.
Massimo ha sentito spesso parlare dell’importanza di andare oltre, del lasciar andare…ma lasciare andare cosa?? Non ha mai capito che cosa dovesse lasciar andare, ed ecco che la macchina del suo pensiero ha trovato un altro argomento su cui elucubrare, all’infinito…

Un aneddoto che utilizzo spesso con questo tipo di persone, per cui è prioritario “placare” la fame di razionalità, è il racconto della zattera del Buddha:
“Supponiamo che un uomo sia di fronte ad un grande fiume e debba attraversarlo per raggiungere l’altra riva, ma non c’è una barca per farlo; cosa fa? Taglia alcuni alberi, li lega insieme e costruisce una zattera. Quindi si siede sulla zattera e usando le mani o aiutandosi con un bastone, si sposta per attraversare il fiume. Una volta raggiunta l’altra sponda cosa fa? Abbandona la zattera perché non ne ha più bisogno. Quello che non farebbe mai, pensando a quanto gli sia stata utile, è caricarla sulle spalle e continuare il viaggio con lei sulla schiena.”.
La riva da cui partiamo e quella su cui approdiamo rappresentano un punto di partenza e uno di arrivo. La zattera è il simbolo di tutto ciò che serve per passare da uno stato all’altro. Una volta raggiunta la riva opposta non ha senso tenersi stretti ciò che è servito per arrivarci, potrebbe essere solo un inutile peso. Lasciar andare, quindi, si riferisce alla possibilità di non ancorarsi rigidamente a strumenti, strategie, modalità che abbiamo utilizzato – pur con successo – nel passato ma che ci impediscono di sviluppare appieno il nostro potenziale nel presente. Rimuginare è un modo per tenersi la zattera.

Massimo, così logico e rigoroso, al sentire questo aneddoto ha fatto un sobbalzo.
“Eh già…non fa una piega…ma come fare?”. Ancora una volta rispondo: “Come fare lo vedremo assieme”.

Senza rinunciare allo splendore: stare, come una ginestra…

Un lavoro sulle nostre risorse interiori

Mila piange, di fronte a me, quasi sopraffatta. Non le rimangono che le sue lacrime e non riesce a vedere una luce, una possibile fine alla sua sofferenza. La conosce bene, è da tanto che la sente, dentro di sé. Così tanto che quasi non ricorda come sia sentirsi in pace.
Ha sempre lottato molto nella vita e ora, le pare, se ne stanno andando le forze.

“Qual è la sensazione, che riesci a immaginare, opposta a quella che stai provando ora?” Le chiedo.

“Di leggerezza, di sollievo…vorrei tanto non sentire più niente…spegnermi. Mi sembra che non ci sia soluzione…”.

Prima che riparta a verbalizzare quanto sta male e le ragioni della sua disperazione, la interrompo dolcemente: “Mila, capisco che vorresti solo far finire tutto questo. Ma non possiamo cancellare nulla. Possiamo solo cercare di trasformare le cose. E quando non possiamo cambiare quello che la vita ci porta, possiamo cercare di cambiare noi stessi. Partiamo da qui: mi descrivi meglio la leggerezza di cui mi parlavi? Vorrei che immaginassi una situazione che rappresenti questa leggerezza”.

Dopo un lungo sospiro: “beh…come quando da bambina andavo sull’altalena, spensierata, gioiosa…una volta con un’amica abbiamo passato quasi tutto un pomeriggio a spingerci, a turno, sull’altalena nel giardino di nonna…un giardino pieno di fiori”. Le compare un sorriso sulle labbra, le spalle si decontraggono, il respiro di regolarizza.

“Bene, Mila, vorrei che ora tu mi descrivessi nei dettagli quell’esperienza: i colori, i suoni, le sensazioni sulla pelle che hai provato, il movimento…”.

Mila comincia la descrizione e man mano che si immedesima in quella scena vedo il viso e il suo fisico cambiare, rilassarsi. Al termine della sua esplorazione le chiedo di notare come stia ora il suo corpo.
Mila si commuove: si rende conto che sta sorridendo e che sente un’espansione nel suo petto, all’altezza del cuore. Erano anni che non si sentiva così. Pensava di non riuscire più a provare certe cose.

Le spiego che questa è una importantissima risorsa che ha il nostro sistema: potersi autoregolare e riacquistare uno stato di maggiore quiete e benessere, a seguito di una forte attivazione nervosa.
Si chiama, con un termine tecnico (derivato dall’approccio di Somatic Experiencing) “pendolazione”: oscillare da momenti di forte sollecitazione a momenti di recupero.
Imparare a farlo intenzionalmente ci rende più forti, aumenta la nostra “resilienza”, ovvero la capacità di far fronte e superare le difficoltà, le perturbazioni, gli ostacoli a cui siamo sottoposti.

In natura possiamo osservare meravigliosi esempi di resilienza, le dico: uno di essi, a noi familiare, è la macchia mediterranea. Forte, resistente, ricompare sempre anche dopo eventi avversi. Una delle piante della macchia mediterranea è la ginestra: ha radici profonde, è flessibile ma robusta, cresce anche su terreni difficili, e per di più fa fiori gialli profumatissimi, intensi come la sua forza vitale. “Ecco, Mila, dobbiamo imparare insieme a stare come le ginestre: vigorose ma adattabili, in pieno sole, senza rinunciare al nostro splendore…”.

Dare corpo a un aspetto di sé: il gioco delle parti

Domenico (D): “Dottoressa non riesco ad ascoltare quello che sta accadendo nel mio corpo in questo momento: nella mia testa si sono affollate decine di pensieri contemporaneamente. Sono andato in confusione…”

Io: “Che genere di pensieri?”

D: “Ci sono come due voci dentro di me: una mi dice che ce la posso fare, che non succederà nulla di brutto. L’altra è come se volesse intralciare la prima: mi dice che non è vero niente, che non ce la farò mai, che sta per succedere qualcosa di brutto. Ora che ne parlo mi rendo conto che è quello che succede ogni volta, prima di un attacco d’ansia. Dentro di me ci sono due forze che lavorano in modo opposto, continuamente”.

Io: “Bene Domenico, se ti focalizzi sulla voce disturbante cosa provi nel corpo?”

D: “Un movimento nel petto, qualcosa che si agita”

Io: “Prova a dare una forma, un’immagine a questa sensazione e a collocarla fuori di te. Che aspetto avrebbe?”

D: “Un drago infuriato, mi pare di vederlo. Vuole solo ferirmi. È crudele, non gli importa niente di farmi soffrire”

Io: “Cosa vorresti dirgli?”

D: “Di lasciarmi in pace, di andare via. Non può continuare a farmi stare così male”

Io: “Ora prova a metterti nei panni del drago: che effetto ti farebbe sentire queste tue parole?”

D: “E’ difficile…penso che se mi mettessi nei panni del drago mi arrabbierei ancora di più, farei di tutto per impormi…vorrei solo farmi valere, essere rispettato…sì ecco, vorrei essere rispettato: nessuno mi considera, nessuno mi capisce!”

Io: “Cosa sente di fare il drago per te?”

D: “Il drago in fondo mi protegge. Se non ci fosse potrei fare delle sciocchezze…ne ho fatte tante nella mia vita, e le ho pagate care…”

Io: “Quindi sembra che il drago non ti voglia distruggere ma che voglia aiutarti. Se considerassi questo aspetto cosa proveresti verso il drago?”

D: “Sì, è vero…se considerassi questo mi farebbe un po’ pena, perché si agita tanto e sbraita a fin di bene ma nessuno lo vuole, nessuno lo capisce…”. Domenico scoppia a piangere. Realizza che è proprio come si sentiva lui da bambino, un bambino iperattivo e oppositivo…ma che in realtà aveva tanta paura di sbagliare e desiderava solo essere ascoltato e rassicurato.

Ora Domenico può cominciare a fare pace con quel drago e imparare ad ascoltarlo e contenerlo.