Ho conosciuto Alba in un momento buio della sua vita: una depressione ormai pluriennale “curata” con farmaci, un disturbo di attacchi di panico con cui ormai conviveva da una vita, dolori diffusi, invalidanti e a detta dei medici inspiegabili, che la costringevano a letto per la gran parte della giornata. Ogni cosa di lei, a partire dal suo aspetto diafano, esile, raccontava di un “non esserci”, di una presenza evanescente, tutt’altro che incarnata.
Alba era molto cerebrale: amava la filosofia, la cultura, la lettura e provava una sorta di disprezzo e disgusto per tutto ciò che riguardava la dimensione più terrena, “bassa” dell’esistenza. Facile immaginare come certi aspetti della più cruda umanità la inorridissero: gli istinti, le pulsioni, gli umori e gli odori corporali, le più naturali funzioni fisiologiche, tra cui anche il mangiare, rappresentavano per lei delle oscenità. “Osceno”: fu proprio questa la parola da cui cominciammo ad esplorare il suo sentire. Emerse in riferimento all’opposta attitudine del padre di godersi la vita. Andando un po’ più a fondo della faccenda, emerse che Alba condivideva questa lettura della paterna trivialità con la madre, che da sempre biasimava e deprecava la crudezza e la bassezza del marito. Alba ricordava vividamente un episodio in cui il padre, quando lei era una bambina dell’età di 4/5 anni, le fece così tanto il solletico che lei, per le risate, si fece la pipì addosso. La mamma intervenne rimproverando aspramente e disapprovando il marito davanti a lei, alludendo all’accaduto (aver sollecitato così tanto la bambina) come a qualcosa di indecente e inaccettabile. Alba provò un senso di vergogna così profondo che da allora evitò qualsiasi contatto col padre e cominciò a guardarlo con occhi sprezzanti.
Chiesi ad Alba di provare a sospendere, per qualche istante, il suo giudizio, e di tornare ai primi attimi di quel gioco con il padre. L’emergere di un sorriso fu istantaneo. Questo fu l’inizio di un lavoro in cui, sforzandosi di non cedere ai condizionamenti ricevuti, Alba riscoprì piano piano la legittimità e la piacevolezza delle sue esperienze sensoriali. Il dischiudersi dei vissuti e delle percezioni alla sua coscienza acquisì via via sempre più spazio e intensità. E Alba imparò progressivamente a trovare, in questa nuova attitudine, un’irrinunciabile fonte di vitalità e di serenità. Un giorno, durante uno dei nostri consueti lavori corporei, Alba ebbe una visualizzazione: di avere una membrana, attorno a sé, quasi a formare un guscio, che lei rompeva permettendo alla luce di entrare. Sperimentò una connessione profonda e intensissima con tutto il resto del creato, con la terra, con la natura, con gli altri esseri viventi. Confessò poi di non aver mai contattato nulla di simile prima. Questa sensazione le riempiva in modo incontenibile il petto, le provocava una gioia, una commozione profonde. Le pareva di aver contattato un’altra dimensione, di essere in pace con tutto e tutti. La sua coscienza aveva sperimentato, per la prima volta, uno stato a cui mai prima aveva avuto accesso: una dimensione di profonda serenità, di amore, di apertura.
Il lavoro di riconnessione alla sua corporeità le aveva permesso di reimmergersi nel flusso energetico e vitale dell’esistenza, arrivando perfino a risvegliare una dimensione spirituale della sua vita. Il miracolo che accade quando ci si “incarna” davvero nella dimensione fisica e corporea è che, trovando un profondo radicamento, si apre paradossalmente la possibilità di un’espansione della coscienza, che ci porta a contattare dimensioni anche spirituali. Come se l’espansione di una parte più trascendente traesse giovamento dal contrappeso offerto dal radicamento corporeo. Mi piace pensare che, tornando ad essere più “animali”, recuperiamo di noi non solo la componente più istintiva e corporea a cui la parola allude, ma ci prendiamo cura anche del “nido” in cui poter accogliere, con rinnovata consapevolezza, la parte animica di noi, da cui etimologicamente la parola “anima-le” deriva.