Porsi le giuste domande

Serena è una ragazza sulla trentina. Visibilmente timida, “posata”, mi racconta della sua situazione familiare (vive ancora con sua mamma, che adora), e mi spiega come ogni cosa, per lei, sia fonte di ansia e inquietudine. Soffre di attacchi di panico, motivo per il quale ha chiesto il mio aiuto.

Di recente il tema che la angoscia di più riguarda come dire a sua madre che sta valutando di chiudere la relazione con il suo fidanzato storico, Daniele. Mi spiega infatti che Daniele è amatissimo dalla sua famiglia e non saprebbe come giustificarsi, cosa raccontare per spiegare la sua decisione.

Candidamente, lì per lì le chiedo: “Ma perché dovresti spiegare la situazione o giustificarti?”

Serena si paralizza, mi guarda sgomenta e balbetta qualche parola. È spiazzata, dice che lo ha sempre fatto e di non aver mai considerato di poterlo evitare.

Verrò a sapere da lei stessa, più avanti nel corso del nostro lavoro, che quella mia domanda ha rappresentato per lei uno squarcio nel suo modo di vedere le cose.

Serena, infatti, non aveva mai messo in discussione il fatto di dover rendere conto di TUTTO a sua madre. E questo, il rapporto simbiotico tra lei e la mamma, si sarebbe poi rivelato il nodo centrale di tutto il suo lavoro, focalizzato sulla sua possibilità (e diritto) di essere se stessa, distinta dai suoi familiari, senza che questo volesse dire tradirli o voler loro meno bene.

Serena da quel mio primo interrogativo ha sentito una scossa che ha messo in discussione il suo consolidato sistema di credenze.

Saper porre le giuste domande, più che avere le risposte, è ciò che smuove di più il terreno del nostro mondo interno. L’arte del porre le domande è uno degli strumenti a mio avviso più importanti nelle mani di ciascuno di noi. Entrare in una prospettiva di cambiamento del punto di vista da cui guardare e approcciare il problema è ciò che ne permette la risoluzione. Per questo da soli, da dentro il problema, è difficile assumere un angolo di osservazione diversa.

Una domanda efficace è quella che mette luce su aspetti fino ad allora rimasti in penombra se non al buio. Come dice anche un noto aneddoto, è facile cercare qualcosa alla luce di un lampione. Ma se non la si trova, è probabile che sia nell’oscurità circostante. Solo un folle o un ubriaco si ostinerebbe a cercarla solo laddove è illuminato.

Una buona domanda accende un faro su una porzione di realtà non ancora considerata. Apparentemente può sembrare una divagazione, ma il più delle volte porta a nuove scoperte. Che poi emergono spontaneamente.

In alcune occasioni, infine, le persone si pongono delle domande addirittura fuorvianti. Chiedersi “che nome abbia il proprio disturbo” o “perché si provi così tanto dolore” non porta alcun vantaggio né alcuna consapevolezza aggiuntiva. In questi casi sarebbe più interessante mettere a tacere la parte razionale e imparare a stare a contatto con il proprio sentire.

Farsi le domande giuste, o smettere di farsi troppe domande razionali o guidate dal bisogno di controllo, è dunque un lavoro centrale in un percorso di crescita personale. Ancora più importante del darsi risposte. Poiché le risposte, spesso, sono tentativi di “sedare” inquietudini che andrebbero solo ascoltate, più che etichettate.

La difficoltà di scegliere

Miriam è in un’impasse. Non sa cosa rispondere a Dario, che le ha chiesto di andare a convivere con lui.

Non ha dubbi sui sentimenti che prova nei suoi confronti, ma teme che le cose tra loro si rovinerebbero. Sebbene si conoscano da diversi anni, infatti, Miriam e Dario hanno sempre mantenuto i loro spazi privati e, agli occhi di Miriam, un passo di questo genere metterebbe alla prova il suo bisogno di indipendenza.

Ma non si sente nemmeno di negare che l’idea la alletterebbe molto.

Un chiaro vissuto di ambivalenza nei confronti di qualcosa che è desiderato ma anche temuto.

Miriam non è nuova a questo genere di conflitti: motivo per cui per lei le scelte sono un vero e proprio strazio. Amante delle routine e refrattaria ai cambiamenti, Miriam è serena quando ha la situazione sotto controllo. E il fatto di sviscerare i pro e i contro di ogni possibilità non la tranquillizza né la fa uscire dall’immobilità. Le domando cosa le impedisce di osare.

“Sono bloccata dalla paura” risponde Miriam.

“Paura di cosa?” chiedo io.

“Ma di fare la scelta sbagliata, ovvio”.

 Io: “Credo si tratti piuttosto della paura di morire”.

Lei: “Addirittura?! Ma cosa c’entra, mica andrei al patibolo!”.

“Eh no – le spiego – ma ogni scelta implica la capacità di lasciar andare qualcosa (quel qualcosa che non scegliamo). E, in fondo è come veder morire un pezzetto di noi. Detto in altri termini: ti fa paura rinunciare al senso di sicurezza che ti dà il mantenere le tue abitudini, le tue routine e il tuo senso di dominio sulla realtà che conosci. Una scelta non è tanto, almeno per le questioni affettive o emotive, un fatto di costi e benefici, un bilancio ragionato dei pro e dei contro. È un atto di fiducia. In se stessi e nella vita. E per vivere appieno bisogna far pace con la paura della morte, delle varie morti: i dolori, gli abbandoni, le lontananze, le trasformazioni. Perché fanno parte inevitabile della vita. La vita esiste in copresenza alla morte”.

“E quindi? Cosa devo fare?” ribatte attonita Miriam, che vuole andare dritta al sodo.

“Non devi fare niente. Devi stare. Stare con quello che provi senza farti sopraffare. Hai paura? Sentila nel corpo, lasciati attraversare dal senso di debolezza, dal tremore, magari dalle lacrime. Non cercare di negarla o di “farci” qualcosa, di allontanarla o di giudicarla. Semplicemente vivila. Fallo adesso. Immagina di aver risposto positivamente a Dario: andrai a vivere con lui. Cosa provi?”

Miriam: “Mi sento agitata, un nodo alla gola, mille pensieri…”

“Lascia andare i pensieri e stai solo con le sensazioni: il nodo alla gola…”

“Sì…mi si stringono anche le budella…”. Dopo qualche istante Miriam aggiunge “Però ora meno, se non seguo i pensieri le sensazioni spiacevoli se ne vanno…”.

“Ecco – dico io – adesso prova a immaginare di avergli detto di no. Cosa senti?”

“Un po’ di tristezza, come se avessi perso un’occasione…mi viene da piangere quasi. Sì però se poi le cose vanno male rimpiangerò per sempre di aver fatto questo errore!”.

“Ma quale errore? – le chiedo – Se prendiamo una decisione sulla base del nostro sentire, in un preciso momento della nostra vita, come potrebbe essere un errore? Quello che proviamo non è sbagliato, e se agiamo in coerenza col nostro sentire non potrà mai essere un errore. Perché avremo seguito una parte autentica di noi. Se poi questa parte evolverà in modi cosiddetti positivi o negativi non lo possiamo sapere. Ma almeno sapremo di aver agito in totale sintonia con la nostra essenza.

Non stiamo parlando di gesti impulsivi, ma di una scelta basata su un sentire accolto, ascoltato.”

Ciò che ci blocca è il vano tentativo di controllare qualcosa che non possiamo controllare. Fare delle scelte, cambiare, implica sempre saper lasciare andare qualcosa, parti di noi. Non possiamo rimanere immutabili nel tempo e nelle circostanze. Vivere è anche un po’ morire, ogni giorno, dal giorno in cui nasciamo. Per questo dico sempre che quando abbiamo paura di fare delle scelte, in quel frangente oppone resistenza la parte di noi che vorrebbe l’immutabilità. Ma l’immutabilità non esiste, neanche nella morte. Tutto si trasforma. Accettarlo è accettare il fluire e la pienezza della vita.

La sospensione del giudizio

Che cosa ha a che fare un concetto che può sembrare squisitamente filosofico – la sospensione del giudizio, per i greci “epoché” – con il benessere emotivo? Tutto.

Mai come oggi osservo quanto le categorie del mentale (il giusto e lo sbagliato, il bene e il male, il senso del dovere, il buono e il cattivo, ecc.) portino a saturazione e condizionino il sentire e la condotta delle persone. Arrivando, inevitabilmente, a produrre sofferenza. Una sofferenza dettata dal fatto che, nell’estremo tentativo di controllare una realtà complessa, caotica, contraddittoria, a tratti incomprensibile e spaventosa, l’essere umano si appella allo strumento che, per eccellenza, è vocato al controllo: la mente razionale. Perdendo completamente di vista che il bisogno di analizzare e di governare il mondo interno ed esterno sposta l’attenzione da ciò che, in verità, rappresenta la nostra opportunità di vivere in armonia con noi stessi e con tutto il resto: la presenza attenta, consapevole, l’ascolto non giudicante di ciò che ci accade, istante per istante. L’amplificazione del mentale è qualcosa che, nel nostro tempo, ha acquisito maggiore intensità forse, come dicevo, per un crescente bisogno di controllo a fronte di una realtà via via più complessa; forse perché l’essere umano ha perso, parallelamente, sempre di più il contatto con il suo sentire e con i misteri della vita. Un mentale ipertrofico e ingestibile, a fronte della difficoltà a stare con il proprio mondo sensoriale ed emotivo, ha portato all’esacerbazione di molti disturbi (di tipo ansioso o volti alla ricerca di un’anestesia del proprio malessere).

Le persone che lavorano con me sanno quanto io insista sull’importanza di non identificarsi con (ovvero non credere ciecamente a) i contenuti mentali che hanno come obiettivo quello di classificare e dominare la realtà. Ma gli ambiti in cui si manifesta un tentativo di controllo, di categorizzazione della mente razionale sono più sottili di quanto si possa immaginare.

Elisabetta, che da un anno lavora con me sull’elaborazione di un passato fortemente traumatico, ha ormai imparato a dare ascolto al suo sentire. Ciclicamente, tuttavia, a fronte di episodi particolarmente “stressanti”, le capita di provare un disturbo, sempre uguale: quando avverte un rumore che lei giudica eccessivo, le scoppia un mal di testa debilitante, che la costringe a letto. Elisabetta è consapevole che, probabilmente, se arriva a quel punto è perché non riesce a mettere i suoi bisogni prima di tutto il resto e si forza a vivere situazioni che preferirebbe evitare. Il mal di testa la “autorizza” a prendersi il suo tempo e il suo spazio. Ma, come nell’ultima occasione, ci sono circostanze in cui non può sottrarsi a certi eventi, per varie ragioni. Mi chiede, in questi casi, come possa fare.

La invito a tornare al momento in cui, l’ultima volta, ha percepito il rumore che ha “dato il via” al suo mal di testa. Le chiedo di osservare cosa fa il suo corpo al ricordo di quel momento.

Elisabetta nota che si irrigidisce, si contrae. Come a voler opporre una resistenza al disturbo che arriva dall’esterno. Le propongo quindi di stare in contatto con quel rumore e di sospendere, per un attimo, il suo giudizio. Di non valutarlo come troppo, come eccessivo, come disturbante, ma come una semplice vibrazione, neutra.

Elisabetta si accorge che, se lascia andare il suo giudizio, la vibrazione può attraversarla senza provocare in lei un dolore. Per lei fare l’esperienza di poter tollerare qualcosa che sembrava impossibile accettare è illuminante.

Le rimando che anche nell’atto percettivo c’è una componente cognitiva, valutativa: ciò che i nostri sensi filtrano della realtà esterna è sottoposto in modo implicito, immediato, ad un’analisi, a una valutazione. Se riusciamo ad accogliere ciò che riceviamo il più possibile senza pre-giudizio, possiamo abbattere le nostre resistenze e rendere l’esperienza meno dolorosa, almeno in parte.

Consideriamo insieme che, in effetti, quando non abbiamo alternative e dobbiamo far fronte a un evento che non possiamo modificare, è più utile affrontarlo senza chiusure o con le minori resistenze possibili.

Una vera sfida in un’epoca in cui ciò che va per la maggiore è l’idea di dover prendere “di petto” le situazioni, reagire, combattere, imporre la propria volontà.

Ma, come recita un detto, bisogna aver la saggezza di distinguere tra ciò che possiamo cambiare e ciò che non possiamo cambiare. In quest’ultimo caso, se affrontiamo l’esperienza con accettazione, rinunciando alla nostra mania di controllo, ne trarremo soltanto giovamento.

I paradossi che curano

Quando ho visto per la prima volta Renato sono rimasta colpita dalla sua rigidità: camminava quasi come un robot e non aveva alcuna espressione facciale.

Il racconto di sé e dei suoi problemi è andato nella stessa direzione delle mie impressioni. Renato è un giovane uomo in carriera, sposato, con una bimba. Ha sempre “fatto il suo dovere”, dice, cercando di mettere il massimo dell’impegno nel raggiungimento dei suoi obiettivi. Mi conferma che il livello di prestazione e il controllo su ogni aspetto della sua esperienza sono fattori di primaria importanza per lui.

“Sono sempre stato un tipo un po’ ansioso, ma da qualche mese la situazione è peggiorata: per lavoro devo a volte parlare in pubblico e la cosa sta diventando insopportabile. Non faccio altro che pensare al disagio che proverò la prossima volta e al fatto che i presenti potrebbero accorgersi del mio nervosismo. Immagino di cominciare a balbettare, di non esporre in modo chiaro le mie argomentazioni, di andare nel panico e di finire per abbandonare la sala onde evitare il peggio oppure, vera catastrofe, di sentirmi male davanti a tutti.”

Renato al solo pensiero si agita, comincia a sudare, sente il battito del cuore aumentare.

Ogni tentativo che faccio per iniziare con lui un lavoro di tipo corporeo fallisce:  mi rendo conto che Renato è molto “di testa” e prima di familiarizzare con un lavoro più fisico ci vorrà molto tempo. Ma Renato è arrivato all’esasperazione: quando sa di dover parlare in pubblico – e questo succede mediamente una volta al mese – comincia a entrare in fermento già settimane prima. Tanto che è arrivato a perdere il sonno. E più ci pensa, più si agita. Conveniamo che il pensiero, l’anticipazione degli eventi, è la causa più superficiale del suo star male. Ma interrompere quei pensieri sembra impossibile.

Come porre fine a questo circolo vizioso?

Poiché Renato ha una forte e apparentemente incrollabile componente razionale, decido di sfidare le sue premesse. Non riesce a non pensarci perché, dice, è più forte di lui? Benissimo, gli chiedo di farlo intensamente e dettagliatamente, per venti minuti, 3 volte al giorno, anche quando non ha in programma conferenze.

Renato mi guarda un po’ perplesso, ma poi commenta: “Sarà facilissimo, lo faccio ogni giorno molto più a lungo dei 20 minuti! Non credo che servirà a molto…ma lo farò”.

Ci siamo rivisti dopo 15 giorni. Renato per la prima volta mi ha sorriso. Mi ha detto che, non sa cosa sia successo, ma il pensiero ossessivo sul parlare in pubblico lo ha abbandonato. Certo, è rimasto in lui il timore di fare brutta figura, ma quel rimuginìo che gli toglieva  il sonno è sparito, come per magia.

Cosa è accaduto?

La mia scelta di prescrivere a Renato il sintomo lo ha messo in una situazione paradossale: seguendo la prescrizione, infatti, egli ha messo in atto volontariamente il sintomo, rendendosi implicitamente conto di non subirlo ma di poter agire attivamente su di esso…e il sintomo ha perso la sua efficacia, è diventato solo un compito fastidioso e intollerabile. Il circolo vizioso del pensiero intrusivo e ricorrente è stato spezzato.

Questa manovra strategica ha inoltre fatto breccia nella facciata rigida e apparentemente inattaccabile di Renato: qualcosa che non ha esattamente compreso – e quindi controllato – ha avuto un effetto benefico su di lui. Ora sembra che Renato sia più fiducioso nei miei confronti e disponibile a esplorare anche aree che inizialmente, a suo modo di vedere, non erano rilevanti.

Ma, come si sa, il sintomo non è che la punta di un iceberg e la prescrizione del sintomo ci ha permesso di smettere di girare continuamente attorno a questa punta, come se fosse l’unica realtà esistente, e cominciare a guardare sotto…