“Il persecutore dentro di noi”

Una storia di impotenza appresa

Renata è una bella donna di 36 anni. Da 4 anni ha una relazione estremamente conflittuale con un uomo che la prevarica e la svaluta quotidianamente. È un rapporto non molto diverso, dice lei, da quelli precedenti. Succede ogni volta la stessa cosa: dopo un’iniziale reticenza, Renata finisce per coinvolgersi molto nella relazione di coppia e, proprio quando lei si abbandona ai suoi sentimenti, il partner comincia a maltrattarla psicologicamente, a offenderla, a sminuirla, a farla sentire come un’incapace e una stupida.

Renata sostiene di essere molto sfortunata in amore, e comincia a pensare di meritare questo tipo di uomini, evidentemente perché non è abbastanza interessante.

Mentre Renata mi racconta delle sue pene amorose, le chiedo di individuare un episodio recente in cui è avvenuto uno scambio, col compagno, che l’ha ferita.

Renata non fatica a individuarne uno, accaduto proprio il giorno prima: il suo compagno le ha chiesto di partecipare ad una importante cena di lavoro, proprio nel giorno in cui lei avrebbe dovuto partecipare al compleanno della sorella, con la quale ha un rapporto molto stretto. Lui sapeva di questa ricorrenza ma, al solito, ha messo i propri bisogni davanti a tutto. Quando Renata glielo ha fatto presente, lui ha cominciato ad alzare la voce e ad accusarla di pensare solo a se stessa, di non curarsi di lui, di volerlo umiliare di fronte ai colleghi per invidia rispetto al suo successo lavorativo. Ha dato sfogo ad un monologo durato mezz’ora al termine del quale l’ha fatta sentire talmente in colpa da decidere di rinunciare alla festa della sorella per accompagnarlo alla cena. Renata mi racconta di essersi sentita talmente mortificata per le parole del compagno, di aver provato una confusione tale da non aver saputo ribattere ad una sola parola del fidanzato. Si è sentita piccola, smarrita, una vera idiota che non ne combina una giusta.

Le chiedo di dirmi se questa è una sensazione che le è familiare, che ha incontrato spesso nella sua vita.

Renata mi dice che “sei un’idiota” potrebbe essere il titolo della sua storia.

Le vengono le lacrime agli occhi. Ricorda di quando, da piccola, sua mamma le ripeteva “non sei una principessa, non mi interessa…”. La madre si mostrava affettuosa con lei solo nel momento in cui Renata si comportava esattamente secondo le sue aspettative. Ogni richiesta, ogni movimento che si discostasse dal volere o dal desiderio materno era accompagnato da un commento simile a quello sopra citato.

Faccio notare a Renata come abbia interiorizzato l’immagine svalutante e oppressiva della madre.

Avendo imparato molto presto ad accondiscendere alle richieste altrui per ottenere approvazione, accettazione e amore, ha smesso anche di ascoltare le proprie risposte emotive, i propri bisogni e desideri.

Ecco perché, di fronte alle irragionevoli pretese del compagno, Renata non riesce a contattare le sensazioni che queste ultime scatenano in lei, ma si attiva in automatico un vecchio copione che la vuole “sbagliata”, pretenziosa e inopportuna. Subito compare il senso di impotenza, di inadeguatezza, e di colpa. Renata reagisce come quando, da bambina, la mamma la mortificava. Ma ora è una donna, e può rispondere diversamente al compagno.

Le chiedo di “riavvolgere il nastro” della scena accaduta la sera prima con il fidanzato e di procedere al rallentatore, “mettendo in pausa” subito dopo aver ascoltato la sua richiesta di presenziare alla cena di lavoro, ignorando la sua obiezione legata all’impegno preso con la sorella.

Invito Renata a chiudere gli occhi, a immedesimarsi in quell’istante, e a portare poi l’attenzione dentro di sé, al suo corpo, alle sue sensazioni. Non serve che le chieda cosa provi perché il suo vissuto le si legge letteralmente in faccia: il suo volto viene arrossato da una vampata di calore, le mascelle si serrano e l’espressione che compare in viso è quella della rabbia. Le domando se sia consapevole di quello che le sta accadendo. Renata, presa da un tremito alle braccia, dopo un sussulto, mi confessa: “se fosse qui gli tirerei un pugno in faccia…oddio…sono orribile…come ho potuto dire una cosa simile?”.

Rassicuro Renata rispetto al fatto che non è un mostro: quello che sente, e che probabilmente non è abituata a contattare, è una legittima risposta di rabbia. La rabbia non va giudicata da un punto di vista morale, è soltanto un segnale fisiologico che ci dice che ciò che sta accadendo non ci piace, non va bene per noi. Per questo si manifesta attraverso un flusso di energia che, spesso, “sale”: è il nostro corpo che si prepara a reagire con forza a qualcosa che respingiamo, per evitare che ci ferisca. Renata dovrà imparare, un po’ alla volta, ad ascoltare e a gestire questa emozione, che come un leale messaggero le porta un’informazione su di sé.

Il senso di vuoto dietro una facciata di spensieratezza

Carlo, un uomo di mezza età, arriva da me perché ultimamente soffre di una forma di ansia che, a suo dire, è inspiegabile. Non c’è niente che non vada, apparentemente: ha una carriera brillante, successo sociale, e non gli mancano le donne. Non sa cosa possa essere successo, ma da qualche mese sente un’irrequietezza che lo disturba, che gli fa temere di stare solo, cosa che per lui è sempre stata fondamentale, rigenerante.

Chiedo a Carlo che cosa sia accaduto di significativo, nella sua vita, da qualche mese a questa parte.

Lui risponde di averci pensato, ma che nulla davvero è cambiato nelle sue routine. Solo, mi dice, due delle donne più importanti che stava frequentando, hanno deciso di “fare le preziose” (queste le sue parole).

Mi chiedo e gli chiedo quante donne stesse frequentando.

Carlo: “Non vorrei sembrarle un maschilista ma io non riesco ad avere una sola relazione. Frequento 3/4 donne contemporaneamente perché altrimenti mi annoio. Sono un po’ in imbarazzo perché lei è una donna e dirle queste cose mi sembra scortese…ma non ho mai trovato una donna che mi bastasse, che mi facesse innamorare…”

Io: “Certo Carlo, capisco, non ha mai investito completamente su una sola relazione, ha sempre sentito il bisogno di diluire, per così dire, il suo impegno tra partner diverse. Ma sembra che una paio di queste, di recente, le abbiano dato del filo da torcere. Come la fa sentire questo?”

C: “Niente, come mi deve far sentire? Mi dispiace un po’, ma sono sicuro che sono bizze passeggere, è sempre stato così. Non è davvero un problema, peggio per loro…”

Io: “Eppure ho la sensazione che questa lontananza c’entri con il problema. Sembra che lei tema di riconoscere che una questione sentimentale, o se non altro emotiva, possa toccarla. Forse è per questo che, invece di investire profondamente in un’unica relazione, passa da una donna all’altra? Per investire – e rischiare – il meno possibile dal punto di vista emotivo? Cosa succederebbe se invece lo facesse?”

C: “Ma niente, cosa vuole che succeda? Le ho detto che non ho mai trovato una donna per cui valesse davvero la pena impegnarmi…”

Io: “Forse una donna di questo tipo nella sua vita c’è stata, ma non è andata molto bene? Cosa le viene in mente se le chiedo in che altri momenti della sua vita ha sentito l’angoscia, il senso di vuoto che sta provando in questo periodo?”

Carlo si irrigidisce. I suoi occhi si inumidiscono. Mi guarda, e per un attimo lo vedo piccolo, bambino…

Poi la sua corazza si richiude, velocemente. “Beh…certo…mi viene in mente quando passavo ore da solo dopo la scuola. Mia madre non aveva tempo per me…ma non vedo cosa c’entri questo ora”.

L’armatura di Carlo si è dischiusa per un attimo, in cui ho letto nei suoi occhi la sua fragilità, e si è subito rinsaldata. Ci vorrà un lavoro lungo e paziente per aprire una breccia nelle sue difese e nel suo cuore.

Carlo ha una personalità narcisistica o meglio, se facciamo riferimento al suo stile relazionale, una personalità “briciola”, come la definisce Umberta Telfener in un suo libro. Un uomo che non si concede mai troppo nelle relazioni affettive, che investe in esse il minimo indispensabile per preservare il proprio mondo personale, la propria libertà, i propri equilibri interni. Un reale incontro e confronto con l’altro sarebbero troppo rischiosi. Potrebbero metterlo eccessivamente in discussione: Carlo potrebbe deludere o ricevere dei rifiuti, cosa per lui intollerabile. È un’esperienza che ha fatto precocemente nel suo contesto relazionale di origine (con la madre) e che ha imparato a mascherare, a evitare, a non sentire…nascondendola sotto un’immagine grandiosa e invincibile di sé. Ma quando dal mondo esterno arrivano segnali che disconfermano questa sua onnipotenza – l’allontanamento di due “favorite dell’harem” – il suo fittizio senso di sicurezza comincia a crollare, e Carlo rientra in contatto con un’angoscia originaria e intollerabile. L’accesso a quel mondo interno deve essere rispettoso e cauto.

“È solo un’ipotesi, Carlo, ma teniamo presente che questo senso di angoscia non le è nuovo, forse è più antico di quanto pensi. Ne riparleremo ancora…”.

I calzini della discordia – storie di battaglie coniugali

“Dottoressa, mi fa imbestialire: non lo sopporto più, sembra che lo faccia apposta a farmi saltare i nervi. Come ieri: gli avrò detto milioni di volte che non tollero quando lui, tornando a casa, si cambia e mi lascia i vestiti in giro. E lui ieri che ha fatto? Tornato dal lavoro ha lasciato i suoi calzini puzzolenti sul divano. Sono andata talmente in bestia che mi è venuto da piangere. Appena è uscito dalla doccia lo ho aggredito insultandolo e gridandogli di andarsene di casa se non è in grado nemmeno di rispettare una mia richiesta”.

Sento puzza di bruciato. Possibile che il tema “calzini in giro”, per quanto fastidioso, sia così attivante per lei? Decido di esplorare più a fondo questa faccenda.

“Senta, Clara, mi ha detto che quando ha visto i calzini sul divano le è montata una rabbia irrefrenabile…”.

 “Sì, guardi, dottoressa, se ci ripenso anche adesso mi viene un nervoso che se avessi mio marito per le mani lo smonterei!”.

“Allora, prima che lei smonti suo marito, proviamo ad ascoltare un po’ meglio questa emozione: dove la sente? Che cosa sente?”.

“Sento un nodo fortissimo alla gola, mi si chiude lo stomaco, vorrei urlare con tutte le forze ma allo stesso tempo mi sento senza forze…”.

“Sembra che ci sia quindi anche un senso di impotenza…se rimane connessa con questa sensazione e va indietro nel tempo, cosa le ricorda? Qual è la prima occasione in cui ha memoria di aver provato qualcosa di simile?”

“Se vado indietro mi viene in mente con i miei figli piccoli…o ancora prima con un mio fidanzatino, ero adolescente: pure lui mi faceva imbestialire, non capiva un accidente! Andando ancora a ritroso…- fa una pausa, i suoi occhi si rattristano – …a casa con mia mamma e mio papà. Quando lui rientrava ubriaco e la maltrattava. Io avrei voluto cacciarlo via, difendere mia mamma, ma ero troppo piccola, non potevo fare niente…”. Inizia a piangere.

“Sì, Clara, era troppo piccola, non avrebbe potuto fare niente. Ma le è rimasto ben impresso il senso di ingiustizia e di impotenza legati al comportamento irrispettoso e aggressivo di suo padre.

Sembra quindi che il comportamento di suo marito riattivi in lei quel vissuto: non si tratta solo di un calzino fuori posto, ma di come lei si senta non rispettata, non considerata, non vista da suo marito. Proprio come vedeva accadere tra papà e mamma”.

Clara, in lacrime, annuisce.

“Clara, crede che suo marito si renda conto di ciò che si scatena, ogni volta, dentro di lei, quando lascia i calzini in giro?”

Riprendendo fiato: “No, non può saperlo, non ne ha idea”.

“Proprio così. Lei in realtà lei non glielo ha mai detto. Noi lavoreremo sul vissuto di impotenza che ha provato da bambina, ma lei, d’ora in poi, potrà cominciare a comunicare le sue vere emozioni a suo marito, i suoi vissuti più profondi. Solo così la comunicazione tra voi potrà diventare autentica, ed efficace”.