Uno, nessuno e centomila

Stefania è una donna di circa 25 anni. Nonostante la giovane età ha fatto un lavoro su di sé molto articolato, profondo, che ancora oggi, dopo un anno circa, prosegue.

Il motivo che l’ha portata da me è stato il vissuto di una devastante perdita di senso. Quando l’ho incontrata era estremamente disorientata, nulla le sembrava che valesse più la pena di essere vissuto.

L’angoscia e lo smarrimento la travolgevano. “Non so più chi sono” (nessuno) era la frase che più spesso ripeteva all’inizio del suo percorso. Io le rispondevo che quando arriva il bàratro, è l’Anima che butta all’aria le carte per farci cambiare gioco: per iniziare una caccia al tesoro in cui la conquista finale è l’Anima stessa.

Il lavoro con Stefania si è focalizzato quindi, per lungo tempo, sul darle gli strumenti per incontrare la parte più autentica di Sé: l’ascolto delle proprie sensazioni, la sospensione del giudizio, il rinforzo e il consolidamento della fiducia in se stessa. Ciò è stato possibile non tanto attraverso disquisizioni o ragionamenti mentali. Ma permettendole di attraversare, con il supporto della mia presenza, le sue emozioni e i suoi sentimenti più difficili e spaventosi. Stefania ha avuto il coraggio di scendere nel suo inferno, in modo molto concreto: lasciando fluire dentro di sé le emozioni progressivamente più temute e facendo l’esperienza di poterle tollerare. Il vissuto non ha bisogno di parole: una volta che accade, nessuno lo può smentire e resta testimonianza di una capacità, di una possibilità che rimane come bagaglio incontestabile dell’individuo.

Stefania è quindi arrivata, dopo diversi mesi, a percepirsi come una persona ricentrata, sufficientemente solida, integra (uno). Ha potuto individuare e riconoscere quel nucleo di sé su cui fare affidamento, a cui tornare in caso di smarrimento, da contattare per ritrovarsi e per recuperare un senso di pace e di fiducia.

A volte i percorsi terapeutici finiscono qui. Quando arriva la sensazione di “avercela fatta”, di aver esplorato e superato la propria “selva” interna, di aver fronteggiato i propri demoni interiori. A volte vanno ancora oltre.

E il lavoro terapeutico diventa, più che un viaggio infero, un’esplorazione che ha anche le sfumature della sperimentazione divertente e divertita.

Succede quando, certi di poter tornare nel nostro “centro”, ci permettiamo di percorrere terreni insoliti, nuovi, che magari mai avremmo creduto di poter attraversare. Non si tratta semplicemente di mettere in atto atteggiamenti o comportamenti diversi da quelli automatici e consolidati: questo è qualcosa che in ogni fase della terapia è oggetto di attenzione.

Ma di riuscire a non identificarsi con rigide immagini di sé, con ruoli, con quella che si ritiene la propria “personalità”. Potrebbe sembrare un obiettivo contraddittorio rispetto a quello di riconnettersi con la propria essenza. Eppure non lo è: il nostro Sé sta “dietro” e al di là di tutte le possibili identificazioni che l’Io mette in scena (centomila). Allenarsi ad andare oltre e al di là di quello che riteniamo essere il nostro “vero Io” è qualcosa che apre a nuove consapevolezze e amplia la coscienza.

Costruire e decostruire è il moto stesso della vita, che per sua natura “pulsa”. Far fluire questa possibilità dentro di noi ci riconnette con una legge dell’universo, dove tutto è onda.

Ecco allora che diventa possibile, in sessione, avere uno scambio del genere:

Stefania: “…Ho capito dottoressa, mi risuona…Ce la posso fare”.

Io: “Certo Stefania, ce la puoi fare, ma anche no…”.

E ridere insieme, consapevoli del fatto che, se anche le esplorazioni di Stefania non ottenessero il risultato che lei spera, andrebbe bene lo stesso.

Il percorso è la mèta.

Abbiamo tutti (anche) un lato oscuro

Spesso ci indigniamo quando qualcuno ci fa un torto o nel vedere i comportamenti di certe persone. A tutti sarà capitato di commentare, rispetto a qualche individuo: “Quello lì non lo posso proprio sopportare!”.

In questi casi agisce la nostra mente, che da una parte ci porta ad identificarci con alcune caratteristiche di personalità; dall’altra giudica gli altri e il mondo in base a certi criteri, acquisiti magari dalla nostra cultura, educazione o morale. È inevitabile, è il lavoro del nostro cervello, nella sua parte razionale, che serve ad analizzare, distinguere, discernere e possibilmente controllare la realtà esterna e interna. Ma l’attività mentale non è finalizzata primariamente al benessere della persona, o almeno non ha questo fine tale tipo di attività mentale. Essa ha lo scopo di mantenere il controllo, possibilmente con il minimo sforzo (da cui la facilità con cui si rischia di cadere in stereotipi, generalizzazioni o errori cognitivi).

Pertanto, quando la mente, il giudizio si impone alla nostra coscienza, abbiamo due possibilità: credergli – vale a dire ritenere che ciò che si esprime nel pensiero sia vero, sia la VERITA’ – o semplicemente osservarlo come un prodotto della nostra mente. Se riusciamo a disidentificarci dal contenuto dei nostri pensieri, essi cominciano ad assumere un valore relativo. Allora, forse, possiamo via via renderci conto che, con gli strumenti della mente, possiamo credere – e argomentare! – tutto e il contrario di tutto. Che l’oggettività è una chimera, più di quanto siamo disposti a riconoscere.

Proseguendo in questo viaggio ai confini della realtà (la nostra realtà mentale), potremmo anche arrivare a mettere in discussione la nostra identificazione con certe qualità che noi riteniamo ci appartengano inequivocabilmente. Potremmo anche chiederci se, a questo punto, persino le caratteristiche che noi detestiamo di più al mondo siano davvero così lontane da noi. In breve, il cammino virtuale partito con il relativizzare il ruolo dei nostri pensieri potrebbe inaspettatamente portarci a considerare che anche ciò con cui più strenuamente ci identifichiamo (e che chiamiamo personalità – da persona, la cui etimologia, guarda un po’, fa riferimento alle MASCHERE con cui gli attori teatrali un tempo calcavano le scene), possa essere più mutevole o complesso di quanto crediamo.

Potremmo scoprire che, forse, le riflessioni degli antichi in merito alla copresenza degli opposti, all’illusorietà della separazione, e alla manifestazione dell’unicità nel molteplice e del molteplice nell’uno forse non sono solo voli pindarici di qualche filosofo farneticante ma hanno un fondamento più che legittimo e di valore.

E quindi? Non è forse anche tutto questo discorso un prodotto mentale?

Potrebbe esserlo, se non avesse un risvolto pratico estremamente importante. E quale sarebbe la ricaduta pratica nelle nostre esistenze? Quella di non considerare come realtà vera e inconfutabile ciò che dicono i nostri pensieri, né in merito al mondo esterno, né in merito al nostro mondo interno.

Cioè?

Per dirla fuori dai denti: siamo proprio sicuri che quando ci identifichiamo con delle qualità che riteniamo ci appartengano, sia proprio così? E se invece quelle fossero solo delle possibilità del nostro modo di essere? Non è invece che in noi ci siano anche delle qualità che rifiutiamo categoricamente di vedere, di accettare, di riconoscerci?

Si dice che gli altri siano il nostro specchio. Ebbene, e se le caratteristiche che non possiamo sopportare nell’altro ci stessero solo rimandando qualcosa di noi? Se la rabbia, l’insofferenza per i tratti di qualcuno fossero così poco tollerabili proprio perché vanno a mettere il dito nella piaga (ovvero nel fatto che quegli stessi tratti facciano parte anche di noi, sebbene non vogliamo ammetterlo)?

Ecco allora un’indicazione pratica che deriva da questa riflessione: ogni volta che ci sentiamo irritati da un comportamento o da una persona, domandiamoci quanto quell’aspetto che critichiamo o che francamente biasimiamo ci possa in realtà appartenere, anche se in forma potenziale. In forma potenziale vuol dire che, a certe condizioni e in certe circostanze, forse anche noi potremmo esprimerlo. Anche se finora magari non è (ancora) successo. E a che scopo fare queste considerazioni?

Per uno scopo importantissimo: relativizzare le nostre credenze e cominciare a renderci conto che davvero le categorie mentali, seppur in tanti casi utili, possono diventare delle gabbie in cui chiudiamo noi stessi. E per iniziare a familiarizzare, sempre di più,  con la consapevolezza che il mondo, la vita, le creature, sono meno separate di quanto pensiamo e avere maggiore compassione per noi stessi e per gli altri, poiché in ognuno di noi è racchiusa la complessità dell’esistenza, nei suoi aspetti più piacevoli e più dolorosi.