Il contatto con il bambino interiore

Mario è un giovane uomo di 23 anni.
Da subito mi è chiaro che il suo malessere (forti ansie, angoscia, attacchi di panico) è legato ad un iper-investimento della mente, dei pensieri, come probabile fuga da vissuti difficili da affrontare.
Durante un colloquio mi confida che uno dei “temi caldi” delle sue rimuginazioni è dirsi “Sono un incapace e gli altri se ne potrebbero accorgere”. Approfondendo meglio questo pensiero emerge come il vero timore di Mario sia quello di far trapelare la sua vulnerabilità. Mario comprende razionalmente quanto sia inutile e inappropriato giudicare negativamente le sue fragilità, ma non può fare a meno di odiarle. Quando si pensa come debole gli si chiude immediatamente lo stomaco, sente un nodo alla gola, una vampata di calore alla testa e le mani fredde.


Non potendo risolvere un problema di pensiero allo stesso livello in cui si è prodotto (quello mentale), decido di fargli fare un’esperienza emotiva. Gli chiedo di dare una forma a quella che percepisce come la sua parte vulnerabile.
A Mario viene spontaneo immaginarla come un bambino piagnucoloso che non è in grado di fare altro se non rimanere lì dov’è, immobile, incapace di fare qualsiasi cosa. Chiedo a Mario che cosa prova nel “vedere” quel bambino di fronte a sé.
Mario mi dice che guardandolo, dopo un primo momento di irritazione, gli fa pena. Gli verrebbe voglia di avvicinarsi e abbracciarlo. Gli propongo di farlo, sempre in quel campo magico dove tutto può accadere: la nostra immaginazione.
Mario si lascia andare ad una profonda tenerezza mentre, con l’occhio della mente, si concede questa esperienza.
Proiettando fuori di sé l’incarnazione delle sue vulnerabilità, Mario ha potuto avvicinarle. E contattarle in un modo che fosse diverso dal giudizio. Gli propongo di considerare – e cautamente di trasformare – quel bambino della visualizzazione in sé stesso, a quella medesima età.
Mario tentenna. Inizialmente, l’immagine di sé da bambino fatica a formarsi. Ma finalmente arriva. Insieme ad una grande commozione. Non si era mai “rivisto” in questi termini. Prova una stretta al cuore e un sentimento di compassione che non era mai riuscito a provare nei propri confronti, men che meno verso il bambino che è stato.
Invito Mario, anche stavolta, a comportarsi verso quel bambino nel modo che sente più spontaneo. Mario mi dice che anche con lui avverte il bisogno di avvicinarsi e di avere un contatto fisico. Mentre immagina tutto questo, porto la sua attenzione a focalizzarsi sulle sensazioni che gli derivano da questo abbraccio, identificandosi ora con il Mario adulto, ora con il Mario bambino. È un momento molto intenso, che lo tocca parecchio. Lo aiuto a farsi attraversare dalle sensazioni e dalle emozioni del momento. Non potrà dimenticare facilmente quest’esperienza e lo invito, ora che fa parte del suo bagaglio, a ricordarsene nel momento in cui il pensiero giudicante visto sopra si riaffacciasse alla sua mente. Gli suggerisco di tenere presente che quelle parti vulnerabili di sé chiedono solo un riconoscimento, un’accettazione, amore. E quanto più lo ricevono, tanto più si rinforzano. Invece che respingerle, addirittura odiarle, ora sa che hanno solo bisogno d’amore. Quel bambino è dentro di lui, e la parte adulta di sé, oggi, può prendersene cura.


La mente di Mario – come quella di tutti noi – può rappresentare un limite o una risorsa. Diventa vincolante nel momento in cui prende il sopravvento il bisogno di controllo, che porta a valutare, giudicare, ad analizzare. È la parte più razionale che, se non gestita, può portare a una deriva.
C’è poi una parte della psiche, quella legata all’immaginazione, ai simboli, alla creatività, che è un vero e proprio scrigno di tesori. Imparare ad aprirlo e a fruire dei suoi doni è quanto di più bello possiamo fare per noi stessi e per il mondo.

Il pronking: quando ce l’abbiamo fatta!

Il lavoro su un incubo ricorrente

Renata è una donna sulla cinquantina, con un passato estremamente duro ma una capacità di ascolto e di elaborazione notevoli.
Viene da me con la richiesta esplicita di lavorare sui suoi traumi passati attraverso Somatic Experiencing®, un approccio corporeo e neurofisiologico per il superamento dei blocchi emotivi.
Dopo numerose sessioni in cui abbiamo affrontato diversi aspetti del suo vissuto pregresso di abusi, decidiamo di fare qualcosa di insolito: provare a lavorare su un sogno ricorrente, un incubo, che ancora oggi turba il suo riposo notturno. Pur trattandosi di materiale onirico, infatti, si tratta pur sempre di un’esperienza che lascia in lei un profondo vissuto di impotenza e terrore.


La scena dell’incubo la vede chiusa in una stanza buia, incapace di muoversi o di proferire parola. Il vissuto penoso aumenta via via con la sua immobilità. Anche nel raccontare il sogno Renata prova una sensazione di crescente angoscia. Si sente bloccata, in tutto il corpo, e non riesce ad immaginare (né a concretizzare, in seduta) l’idea di poter muovere alcun muscolo. È sopraffatta dalla paura.
Non essendo immediatamente accessibile per lei il movimento le chiedo che cosa, di quello scenario, vorrebbe cambiare se potesse farlo.
Renata immediatamente risponde: “accenderei la luce”.
Le chiedo di agire in tal senso nella sua immaginazione: visualizzare quella scena che si trasforma, illuminandosi.
Renata sembra trasalire: non ci aveva mai pensato e poterlo fare, ora, cambia tutto. Le compare la stanza di quando era piccola. La conosce bene, anche se non ha bei ricordi di quel luogo. Ma nella stanza c’è una porta. Invito Renata, ora più in contatto con le sue potenzialità, ad assecondare ciò che il corpo vorrebbe.
Renata non ha esitazioni: immagina di alzarsi e di uscire da quella porta, per ritrovarsi magicamente in uno scenario naturale con prati, fiori, farfalle e cielo azzurro.
Il cambiamento del suo volto e del suo tono sono evidenti mentre mi racconta questo “finale” modificato.
Sento che la sua energia aumenta e Renata mi conferma, con un certo stupore, che si sente euforica, piena di vita. Vorrebbe correre, saltare, gridare. La invito a farlo, se desidera. Comincia poi a tremare.


Cosa è accaduto a Renata nel giro di pochi minuti?
Ha sperimentato quello che in termini tecnici si chiama “pronking”, ovvero la percezione di avercela fatta. Il rilascio di un potente quantitativo di energia prima bloccata. È un fenomeno che si può anche osservare in natura, quando certe prede sfuggono ai predatori. Si tratta di un vissuto di pura gioia e vitalità.
Arriva quando superiamo un’esperienza traumatica, quando riusciamo ad uscire da una situazione vissuta come estremamente minacciosa per la nostra incolumità, quando facciamo fisicamente l’esperienza di essere fuori da una situazione di pericolo.
L’energia fisiologica attivata dall’organismo per far fronte alla minaccia viene liberata e quello che si percepisce è una vera e propria “scarica” adrenalinica, di euforia.


Cosa ha permesso a Renata di “farcela”?
Renata ha sempre percepito il suo incubo ricorrente come immutabile, incombente, inevitabile. Non lo ha mai “trattato” come uno scenario che potesse trasformare, avendo sempre subito il vissuto profondamente angosciante e paralizzante che esso le trasmetteva. Accedere a una soluzione percepita come concretizzabile (“accendere” – con l’immaginazione – la luce nella stanza) ha rappresentato per lei una via d’uscita risolutiva, a cui non aveva mai pensato. Una soluzione banale ma “mai vista” e considerata, essendo Renata completamente sopraffatta dalle sensazioni – anche fisiche – di impotenza e paralisi.
La semplicità della soluzione e il fatto che l’avesse trovata Renata stessa, dopo essersi defocalizzata dal suo senso di impotenza, le hanno restituito il suo potere personale e un senso di vitalità incontenibile.
Renata mi ha poi raccontato di non aver più fatto quell’incubo notturno. Ciò a dimostrazione del fatto che, siano più o meno “reali” le esperienze che facciamo, ciò che conta è come noi le viviamo, e anche l’esperienza di attraversamento e superamento che ne facciamo. Sia essa “vera” o immaginata. Si tratta pur sempre di esperienza vissuta nel corpo, e quindi di un passo verso una maggiore resilienza.

Un approccio integrato: dalla teoria alla pratica

Nel corso del mio percorso professionale ho sempre avuto la curiosità di esplorare nuovi approcci, di integrare nella mia pratica strumenti, modalità e letture che potessero rispecchiare e supportare un orientamento complesso e integrato all’essere umano, inteso come unità di mente, corpo e spirito. La cornice teorica può sembrare chiara e definita. Ma cosa significa esattamente, nella pratica, lavorare con un approccio integrato? Credo che nulla possa essere più chiarificatore di un piccolo esempio clinico.

Marta arriva da me con una storia di abusi infantili. Traumi così profondi richiedono inevitabilmente uno sguardo complesso, attento, integrale alla persona. Nessun dettaglio può essere lasciato al caso o trascurato.

Il lavoro con Marta è stato molto intenso e proficuo fin da subito, avvantaggiato da una sua attitudine alla meditazione, derivata da anni di pratica yoga.

Nel corso di una delle nostre sedute Marta mi racconta del suo disagio quando deve dormire in un hotel o in una casa diversa dalla sua. Esplorando le sensazioni fisiche legate a questo disagio emerge sempre più chiaramente che si tratta di uno stato di allerta, di paura. Ascoltando questo timore Marta riesce a individuare che è legato all’idea che qualcuno possa entrare mentre dorme dalle finestre o dalla porta, cosa che ha sperimentato da bambina. Con Marta quindi siamo partire  da un lavoro di ascolto corporeo per recuperare una cognizione (pensiero), a sua volta legato a un ricordo. Entrambi gli emisferi cerebrali sono coinvolti, così come le aree preposte all’elaborazione delle emozioni (allerta, paura), quelle connesse al processamento più razionale delle informazioni  (il pensiero di un’intrusione) e alla memoria (il rimando all’esperienza infantile). L’attivazione di più circuiti neuronali è un’ottima premessa per la possibilità di riprocessamento dell’esperienza e la creazione di nuovi significati. Marta già realizzando la connessione tra passato e presente riesce a trovare un po’ di sollievo. Ma non basta. Bisogna porre le basi per una nuova risposta, per una nuova gestione della situazione critica. Così chiedo a Marta di connettersi alla sua emozione di paura e di darle una forma, di immaginarla. Marta visualizza una sorta di guscio attorno a sé: un guscio che – dice Marta – rappresenta come lei si sentiva da bambina. Bloccata, impotente, sconnessa dal mondo esterno.

La invito a tenere presente che ora è adulta e che ha molte più risorse, quindi le chiedo di immaginare se c’è qualcosa di diverso che vorrebbe cambiare in quella sua visualizzazione. Marta via via mi descrive un processo che fa accadere nella sua mente: di rompere, con sforzo ma con determinazione, quel guscio. La sua emozione è visibile mentre lei, a occhi chiusi, procede nello scenario immaginario in questa impresa. Riesce finalmente a liberarsi dal guscio, può sentire la luce e il calore sulla sua pelle, può alzarsi, muoversi liberamente. Ma non è ancora terminato il suo processo. Un po’ alla volta vede il guscio sgretolarsi, diventare polvere. Lo scenario improvvisamente e spontaneamente si trasforma: da questo mucchio di polvere, che è il guscio sgretolato, divampa un fuoco, che via via diventa sempre più vigoroso, imponente. Le fiamme ora sono alte e lei, adulta, danza in modo selvaggio e primordiale attorno a questo rogo.

La visualizzazione di una scena così potente e arcaica, quella di una danza ancestrale attorno a un fuoco, il fuoco della vita, mi fa capire che si è attivato un contenuto archetipico, che il suo Sé, o in altre parole la sua Anima, sta parlando, è riemersa, si sta consolidando. Ne avrò conferma da Marta stessa quando, terminata l’esperienza, mi dirà di non aver mai provato nulla di simile, di aver contattato un senso di potenza e di pienezza straordinari, di essersi sentita tutt’uno con la madre terra, col fuoco, con la vita. La sua coscienza ha avuto accesso a un livello diverso, si è aperta ad uno stato di trascendenza che andava al di là di passato e del tempo, in una condizione senza tempo e senza paura.

Questo esempio di lavoro con Marta a mio avviso ben rappresenta cosa significhi lavorare con corpo, mente e anche spirito, in un tutt’uno che apre le porte a uno stato dell’essere nuovo, potente e creativo.

Viaggiare nel tempo per portare risorse nel presente

Matteo: “Dottoressa glielo dico subito…non voglio perdere tempo con l’analisi della mia infanzia! Quel che è stato è stato, non si possono cambiare le cose, e tutto sommato non mi è andata poi così male. Voglio focalizzarmi sul presente, perché ci sono situazioni in cui mi sento bloccato, e non riesco a uscirne”


Io: “Ho capito Matteo, allora partiamo da quello che c’è oggi, nel presente. Mi può fare un esempio di cosa la mette in difficoltà?”


Matteo: “Ecco, ad esempio, ieri è successo al lavoro: un mio collega davanti al capo ha fatto in modo di scaricare la colpa di un problema lavorativo su di me. Si trattava di qualcosa di cui, in realtà, era responsabile lui, ma ha rigirato la frittata in modo che lo sbaglio sembrasse il mio. Io non ho saputo ribattere niente, zitto, muto come un pesce. Ma dentro di me bollivo dalla rabbia. Ero talmente arrabbiato che quasi quasi mi veniva da piangere. Ci mancava solo quello! Mi capita spesso che, di fronte a un’ingiustizia, a un torto che mi fanno, non riesco a spiccicare una parola, vado in confusione, mi ammutolisco. E poi mi porto dietro la cosa per giorni, ci rimugino, ci ripenso. Mi sento uno smidollato, mi avvilisco per la mia mancanza di reazione, di coraggio. Non so come mai, ma in quei momenti mi sento proprio bloccato, come paralizzato”


Io: “Matteo le chiedo di re-immedesimarsi in quel momento, quando si è sentito sopraffatto dalla rabbia ma quasi congelato, immobilizzato. Vorrei che portasse tutta la sua attenzione alle sensazioni che nota ricordando quel preciso istante. Non mi interessano al momento pensieri o ragionamenti, ma solo le sensazioni che prova nel corpo”


Matteo: “Uhm…difficile…allora se ci penso mi viene subito un nodo alla gola, mi si chiude lo stomaco, è come se una voragine mi inghiottisse, mi va in confusione anche la testa, quasi vedessi tutto nero…” – Matteo si irrigidisce


Io: “Le chiedo lo sforzo di rimanere per qualche istante con quello che prova, senza cercare spiegazioni, ma solo ascoltando cosa accade”


Matteo: “Mi si infuoca la faccia, sento che sto sudando, mi fa anche male la parte destra della faccia…”


Io: “Le fa male la parte destra del viso…ha qualche senso per lei?”


Matteo: “è strano, non so cosa c’entri, ma mi è venuto in mente che è come quando mio fratello, dopo avermi atterrato nel fare la lotta, mi metteva il piede sulla testa e mi teneva giù, dicendomi che ero un pappamolla, così mi chiamava, un pappamolla”


Io: “Bene, se immagina di tornare per un attimo a quel momento, quando lei e suo fratello facevate la lotta, e finiva come mi ha descritto, cosa prova?”


Matteo: “Mi viene un nervoso anche oggi a ripensarci che lo riempirei di botte se fosse qui”


Io: “Provi a immaginare di assistere a quella scena del passato, a visualizzare lei sopraffatto da suo fratello. Quindi nella sua mente risponda a suo fratello coerentemente con quello che sente. Cosa le viene da fare? Può anche immaginarsi di avere dei superpoteri per fronteggiare suo fratello come desidera. E si immedesimi talmente tanto in quello che fa da sentire quasi i muscoli del suo corpo che si attivano e si organizzano nei movimenti che immagina. Se se la sente, le chiedo di agire proprio adesso, a occhi chiusi, i movimenti che immagina, al rallentatore, percependo distintamente ogni gesto e ogni parte del suo corpo coinvolta nel movimento”


Matteo si concede, prima cautamente, poi con sempre più sicurezza, di muovere il corpo in quelli che sembrano spintoni, pugni, calci. Il suo coinvolgimento cresce e gli esce una vocalizzazione che lo invito a ripetere, se ne sente il bisogno. Matteo procede con crescente intensità fino a che, quasi esausto, non si quieta. Gli chiedo come si senta adesso.
Matteo: “è incredibile ma mi sento liberato, forte. Anche se sento le mie gambe tremare. Ma ho un senso di leggerezza e di soddisfazione pazzeschi”


Io: “Bene, Matteo, pare che lei finalmente si sia concesso di mettere in scena e portare a compimento quella risposta che non ha mai potuto mettere in atto nel passato”


Matteo, perplesso: “E meno male che non volevo parlare della mia infanzia!”. Scoppia in una risata.


Gli spiego che, se per diverse ragioni non abbiamo “digerito” qualcosa del passato, quel boccone indigesto rimane dentro di noi, condizionando il nostro libero fluire nel presente. Oggi abbiamo molte più risorse rispetto a quando eravamo bambini e questo ci consente di rispondere agli eventi con maggiori possibilità. Quel ragazzino sopraffatto dalla forza del fratello è rimasto soggiogato dall’idea di non poter reagire. Ma contattando, da adulto, la rabbia di allora, e con le risorse attuali, ha potuto finalmente ribellarsi. Invito Matteo a restare collegato con il senso di potere personale e di leggerezza che sta sperimentando e di tornare al confronto con il collega.


“Cosa prova adesso?”


Matteo: “Sento che potrei dire la mia. Almeno dare la mia versione. Sì, questo lo potrei fare. In questo momento mi pare la cosa più banale del mondo”.


Rifletto e non posso che essere d’accordo con Matteo: parlare tanto del passato non serve un granché, ma riparare, attraverso l’esperienza, a dei vissuti rimasti bloccati, può fare davvero la differenza.

Un’esperienza da registi: ri-creare la propria realtà

Sandra lavora con me da qualche mese su alcune esperienze traumatiche vissute nella sua infanzia. Un giorno mi porta un sogno ricorrente, che fa da quando era ragazza, e che per diverso tempo l’ha perseguitata, ogni notte. Anche oggi, di tanto in tanto, la sveglia nel cuore del sonno e ci vuole parecchio prima che, con l’aiuto di suo marito, lei possa calmarsi. La narrazione è semplice e chiara: Sandra è in casa, sente dei rumori ma, improvvisamente, tutto diventa buio e lei non riesce a capire cosa stia accadendo, se ci sia qualcuno, si sente paralizzata e terrorizzata.

A livello conscio stiamo lavorando sulle sue risorse per ripristinare il suo senso di sicurezza e di potere personali. Ma poiché in questo caso si tratta di un sogno, decido di accedere a un livello di lavoro più implicito e simbolico. Le chiedo quindi di chiudere gli occhi, immergersi nel sogno, che conosce così bene, e descrivermi che cosa sente.

Sandra impiega qualche minuto per “rientrare” in quella scena e mi accorgo subito quando è “dentro”: si irrigidisce, la respirazione diventa più superficiale, appare un’espressione di angoscia sul suo viso.

Le chiedo di raccontarmi qual è la sensazione più disturbante che sta provando in questo momento, a livello corporeo. Mi dice che è la sensazione di immobilità, per via della paura e del fatto che tutto, attorno a lei, è buio.

“Ascolta bene, Sandra: in questo momento, all’interno della scena che stai vivendo, che cosa cambieresti? Proprio come se tu fossi la regista di un cortometraggio e potessi decidere come far procedere le inquadrature…”.

Sandra: “Sicuramente accenderei la luce, mi guarderei attorno, e mi muoverei..”.

Io: “Puoi farlo? Intendo puoi farlo accadere nella tua mente, viverlo nella tua immaginazione, ora? Fai tutto ciò che ti farebbe sentire meglio in quella scena”.

Sandra annuisce. Posso osservare il suo cambiamento: il corpo di ammorbidisce, il volto si rilassa, appare perfino un sorriso sulle sue labbra.

“Sì! – esclama – accenderei la luce e andrei verso la porta di casa…e potrei vedere il mondo, là fuori, e respirare…”. Il suo torace si gonfia d’aria, sembra euforica, l’euforia che arriva dopo il terrore, quando sentiamo che ce l’abbiamo fatta.

Io: “Ottimo Sandra, ora ti chiedo di individuare una parola che possa descrivere tutto questo, che racchiuda il senso di ciò che hai provato, del processo che hai vissuto, con gli occhi della mente”.

“Libertà! Direi che la parola più adatta è proprio libertà”.

Io: “Vorrei che tu raccontassi a tuo marito l’esperienza che hai fatto oggi, con me, e che gli chiedessi, se ti dovesse capitare ancora di fare quest’incubo, di aiutarti, ricordandoti in quel frangente la parola libertà”.

Sandra sembra sbalordita e meravigliata dalla semplicità e allo stesso tempo dall’intensità dell’esperienza che ha fatto in seduta. Ha potuto modificare l’esito del suo incubo e ne è rimasta incredibilmente sorpresa: l’ha invasa un senso di forza, di speranza e di euforia che non credeva possibili.

Le spiego che, quando riusciamo a immaginare intensamente qualcosa, immedesimandoci profondamente in essa, nel nostro cervello si attivano le aree pressoché identiche a quelle che si attiverebbero se facessimo davvero l’esperienza. È il principio che ha reso tanto di successo i film o le animazioni in 3D.

La sua mente, quindi, ha potuto per la prima volta individuare e vivere un esito diverso di quella scena angosciante.

Ciò ha accresciuto il suo senso di potere personale e di successo, arrivando a farle sperimentare il “pronking”, ovvero la percezione di avercela fatta. Il rilascio di un potente quantitativo di energia prima bloccata. È un fenomeno che si può anche osservare in natura, quando certe prede sfuggono ai predatori. Si tratta di un vissuto di pura gioia e vitalità.

Arriva quando superiamo un’esperienza traumatica, quando riusciamo ad uscire da una situazione vissuta come estremamente minacciosa per la nostra incolumità, quando facciamo fisicamente l’esperienza di essere fuori da una situazione di pericolo.

L’energia fisiologica attivata dall’organismo per far fronte alla minaccia viene liberata e quello che si percepisce è una vera e propria “scarica” adrenalinica, di euforia.

Cosa ha permesso a Renata di “farcela”?

Renata ha sempre percepito il suo incubo ricorrente come immutabile, incombente, inevitabile. Non lo ha mai “trattato” come uno scenario che potesse trasformare, avendo sempre subito il vissuto profondamente angosciante e paralizzante che esso le trasmetteva. Accedere a una soluzione percepita come concretizzabile (“accendere” – con l’immaginazione – la luce nella stanza) ha rappresentato per lei una via d’uscita risolutiva, a cui non aveva mai pensato. Una soluzione banale ma “mai vista” e considerata, essendo Renata completamente sopraffatta dalle sensazioni – anche fisiche – di impotenza e paralisi.

La semplicità della soluzione e il fatto che l’avesse trovata Renata stessa, dopo essersi defocalizzata dal suo senso di impotenza, le hanno restituito il suo potere personale e un senso di vitalità incontenibile.

Renata mi ha poi raccontato di non aver più fatto quell’incubo notturno. Ciò a dimostrazione del fatto che, siano più o meno “reali” le esperienze che facciamo, ciò che conta è come noi le viviamo, e anche l’esperienza di attraversamento e superamento che ne facciamo. Sia essa “vera” o immaginata. Si tratta pur sempre di esperienza vissuta nel corpo, e quindi di un passo verso una maggiore resilienza.

Divorzio: quando la separazione danneggia i figli

Arianna è una donna combattiva, passionale, e lo sa bene il marito, o meglio l’ex marito, Daniele, dal quale si è separata dopo 8 anni di matrimonio. La fine del loro rapporto è stata burrascosa e molto sofferta: Arianna ha scoperto che il marito la tradiva, da 2 anni, con una collega di lavoro. Il dolore è stato tanto ma non ha avuto dubbi: una cosa del genere non l’avrebbe mai perdonata e non le sarebbe stato possibile continuare la storia con lui, come se niente fosse accaduto. Dopo liti furibonde, alle quali, mi racconta, purtroppo a volte ha anche assistito la figlia di 8 anni, Martina, ora lei e Daniele si sentono solo per “informazioni di servizio”, come le chiama lei, ovvero per questioni legate alla gestione e all’educazione della figlia. Ma qui sorge un problema: Martina da qualche tempo non vuole più vedere il padre, è arrabbiata con lui, e Arianna – che da una parte sembra compiaciuta di avere la figlia “dalla sua parte” – dall’altra si dice contrariata dalla cosa, anche perché il rifiuto di Martina di relazionarsi con l’altro genitore le crea non poche discussioni con l’ex marito. Arianna mi chiede come poter gestire questo comportamento, a suo dire “capriccioso”, della bambina, che oltretutto è diventata scontrosa e chiusa anche con lei.

“Immagini di essere su un aereo” ribatto io . “Ad un certo punto sente provenire dalla cabina di pilotaggio delle urla e degli improperi: ne deduce che pilota e copilota stiano avendo una discussione accesa. Immagino che comincerebbe a preoccuparsi, a dir poco”.

“Beh…certo…” risponde Arianna.

 “Come si sentirebbe se, di lì a poco, uno dei due uscisse furibondo dalla cabina di pilotaggio e cominciasse a inveire contro l’altro cercando la solidarietà dei passeggeri?”

Arianna: “Credo che sarei sgomenta, impaurita, e farei di tutto per non alimentare ulteriormente la rabbia del personaggio infuriato, ne andrebbe della mia vita e di quella di tutti gli altri…”. Arianna ha un improvviso insight, un’illuminazione: “Ho capito cosa vuole dirmi, dottoressa…sto mettendo Martina in una condizione analoga a quella della metafora…”

“Proprio così: consideri poi che Martina ha 8 anni, e non ha gli strumenti che può avere un adulto per spiegarsi ciò che succede e gestire il turbinio di emozioni che prova. Percependo una situazione di estremo pericolo – pericolo emotivo, s’intende – non ha trovato altra soluzione che schierarsi con il copilota a cui è affidata. Al costo di una profonda angoscia, di sensi di colpa, di rabbia. E deve tenersi tutto dentro: dare espressione alle sue emozioni sa che non farebbe che alimentare i conflitti già esistenti. Ma non può fare a meno di provare sentimenti contrastanti sia verso suo padre sia verso di lei.”

Esporre i figli ai conflitti coniugali, cercare l’alleanza o la complicità del bambino contro l’altro genitore, o addirittura istigarlo contro l’altro, usarlo come arbitro o spia (o anche messaggero) contro l’ex coniuge sono comportamenti estremamente deleteri per il figlio. Ciò che è più doloroso e potenzialmente patologico per il bambino di genitori che stanno divorziando, infatti, non è tanto la loro separazione, ma l’essere coinvolto e “usato” nei loro conflitti.

“Mi rendo conto solo ora di aver messo Martina in grosse difficoltà, forse le ho chiesto troppo…”.

“Proprio così: la sua rabbia e le sue sofferenze verso Daniele possiamo elaborarle qui, nel lavoro insieme, ma deve fare di tutto per non trasmetterle a Martina: sarebbe come inveire contro il pilota rimasto in cabina. Genererebbe solo angoscia e terrore, e non è questo che lei realmente vuole. Può cominciare a recuperare una posizione più neutra verso Daniele quando parla di lui e con lui, e cercare di preservare la figura del padre agli occhi di sua figlia, invece che demolirla. Martina avrà tempo per farsi una sua idea su come siano andate le cose, ma adesso, che ha 8 anni, non può fare a meno della figura del suo papà, con i suoi pregi e difetti”.

Senza rinunciare allo splendore: stare, come una ginestra…

Un lavoro sulle nostre risorse interiori

Mila piange, di fronte a me, quasi sopraffatta. Non le rimangono che le sue lacrime e non riesce a vedere una luce, una possibile fine alla sua sofferenza. La conosce bene, è da tanto che la sente, dentro di sé. Così tanto che quasi non ricorda come sia sentirsi in pace.
Ha sempre lottato molto nella vita e ora, le pare, se ne stanno andando le forze.

“Qual è la sensazione, che riesci a immaginare, opposta a quella che stai provando ora?” Le chiedo.

“Di leggerezza, di sollievo…vorrei tanto non sentire più niente…spegnermi. Mi sembra che non ci sia soluzione…”.

Prima che riparta a verbalizzare quanto sta male e le ragioni della sua disperazione, la interrompo dolcemente: “Mila, capisco che vorresti solo far finire tutto questo. Ma non possiamo cancellare nulla. Possiamo solo cercare di trasformare le cose. E quando non possiamo cambiare quello che la vita ci porta, possiamo cercare di cambiare noi stessi. Partiamo da qui: mi descrivi meglio la leggerezza di cui mi parlavi? Vorrei che immaginassi una situazione che rappresenti questa leggerezza”.

Dopo un lungo sospiro: “beh…come quando da bambina andavo sull’altalena, spensierata, gioiosa…una volta con un’amica abbiamo passato quasi tutto un pomeriggio a spingerci, a turno, sull’altalena nel giardino di nonna…un giardino pieno di fiori”. Le compare un sorriso sulle labbra, le spalle si decontraggono, il respiro di regolarizza.

“Bene, Mila, vorrei che ora tu mi descrivessi nei dettagli quell’esperienza: i colori, i suoni, le sensazioni sulla pelle che hai provato, il movimento…”.

Mila comincia la descrizione e man mano che si immedesima in quella scena vedo il viso e il suo fisico cambiare, rilassarsi. Al termine della sua esplorazione le chiedo di notare come stia ora il suo corpo.
Mila si commuove: si rende conto che sta sorridendo e che sente un’espansione nel suo petto, all’altezza del cuore. Erano anni che non si sentiva così. Pensava di non riuscire più a provare certe cose.

Le spiego che questa è una importantissima risorsa che ha il nostro sistema: potersi autoregolare e riacquistare uno stato di maggiore quiete e benessere, a seguito di una forte attivazione nervosa.
Si chiama, con un termine tecnico (derivato dall’approccio di Somatic Experiencing) “pendolazione”: oscillare da momenti di forte sollecitazione a momenti di recupero.
Imparare a farlo intenzionalmente ci rende più forti, aumenta la nostra “resilienza”, ovvero la capacità di far fronte e superare le difficoltà, le perturbazioni, gli ostacoli a cui siamo sottoposti.

In natura possiamo osservare meravigliosi esempi di resilienza, le dico: uno di essi, a noi familiare, è la macchia mediterranea. Forte, resistente, ricompare sempre anche dopo eventi avversi. Una delle piante della macchia mediterranea è la ginestra: ha radici profonde, è flessibile ma robusta, cresce anche su terreni difficili, e per di più fa fiori gialli profumatissimi, intensi come la sua forza vitale. “Ecco, Mila, dobbiamo imparare insieme a stare come le ginestre: vigorose ma adattabili, in pieno sole, senza rinunciare al nostro splendore…”.

Dare corpo a un aspetto di sé: il gioco delle parti

Domenico (D): “Dottoressa non riesco ad ascoltare quello che sta accadendo nel mio corpo in questo momento: nella mia testa si sono affollate decine di pensieri contemporaneamente. Sono andato in confusione…”

Io: “Che genere di pensieri?”

D: “Ci sono come due voci dentro di me: una mi dice che ce la posso fare, che non succederà nulla di brutto. L’altra è come se volesse intralciare la prima: mi dice che non è vero niente, che non ce la farò mai, che sta per succedere qualcosa di brutto. Ora che ne parlo mi rendo conto che è quello che succede ogni volta, prima di un attacco d’ansia. Dentro di me ci sono due forze che lavorano in modo opposto, continuamente”.

Io: “Bene Domenico, se ti focalizzi sulla voce disturbante cosa provi nel corpo?”

D: “Un movimento nel petto, qualcosa che si agita”

Io: “Prova a dare una forma, un’immagine a questa sensazione e a collocarla fuori di te. Che aspetto avrebbe?”

D: “Un drago infuriato, mi pare di vederlo. Vuole solo ferirmi. È crudele, non gli importa niente di farmi soffrire”

Io: “Cosa vorresti dirgli?”

D: “Di lasciarmi in pace, di andare via. Non può continuare a farmi stare così male”

Io: “Ora prova a metterti nei panni del drago: che effetto ti farebbe sentire queste tue parole?”

D: “E’ difficile…penso che se mi mettessi nei panni del drago mi arrabbierei ancora di più, farei di tutto per impormi…vorrei solo farmi valere, essere rispettato…sì ecco, vorrei essere rispettato: nessuno mi considera, nessuno mi capisce!”

Io: “Cosa sente di fare il drago per te?”

D: “Il drago in fondo mi protegge. Se non ci fosse potrei fare delle sciocchezze…ne ho fatte tante nella mia vita, e le ho pagate care…”

Io: “Quindi sembra che il drago non ti voglia distruggere ma che voglia aiutarti. Se considerassi questo aspetto cosa proveresti verso il drago?”

D: “Sì, è vero…se considerassi questo mi farebbe un po’ pena, perché si agita tanto e sbraita a fin di bene ma nessuno lo vuole, nessuno lo capisce…”. Domenico scoppia a piangere. Realizza che è proprio come si sentiva lui da bambino, un bambino iperattivo e oppositivo…ma che in realtà aveva tanta paura di sbagliare e desiderava solo essere ascoltato e rassicurato.

Ora Domenico può cominciare a fare pace con quel drago e imparare ad ascoltarlo e contenerlo.

L’intelligenza del corpo: memorie traumatiche e presente salvifico

Emma è una donna minuta e apparentemente vulnerabile. Ha vissuto molte esperienze drammatiche, ha sofferto – anche fisicamente – in modo indicibile. Ma dalla prima volta che l’ho incontrata, in studio, capisco di avere a che fare con una guerriera, un’esploratrice delle pieghe dell’essere, una creatura intensa, vibrante, nonostante tutto mossa dall’amore per la vita.


Nel nostro primo incontro Emma comincia a raccontarmi, come un fiume in piena, le dure e innumerevoli vicissitudini che hanno caratterizzato la sua vita. Non è la prima volta che si rivolge ad un psicoterapeuta, e sembra impaziente di raccontarmi i dettagli delle sue fatiche. Mano a mano che parla, però, la vedo irrigidirsi, sgranare gli occhi sempre di più, respirare con crescente affanno.


“Emma – la interrompo – facciamo una pausa. Vorrei che adesso lei smettesse per qualche istante di parlare e si prendesse il tempo per portare l’attenzione a quello che sta accadendo dentro di lei, in questo momento”.


Emma fa un sospiro, porta una mano alla fronte, a sorreggersi il capo, e accasciandosi nella poltrona, con un filo di voce, risponde: “Il mio cuore…non mi dà tregua…batte all’impazzata, mi fa male, e sento come se stessi per morire”.


“So che le chiedo qualcosa di insolito, ma se dovesse descrivermi questa sensazione al cuore, che forma, che colore, che dimensione avrebbe?”
Emma: “è come una palla di metallo con delle punte, pesante e scura, grande come il cuore”.


“Se dovesse immaginare una sensazione opposta a questa, quale sarebbe?”


Emma: “di calore, di leggerezza e morbidezza. Un po’ come la sensazione che ricordo mi prendeva al mare, quando ancora riuscivo ad andarci, e mi stendevo sulla sabbia tiepida.”


“Ecco, Emma, vorrei che adesso lei andasse, con la sua immaginazione, proprio là, in quella spiaggia. Vorrei che si stendesse su quella sabbia, calda al punto giusto, e che potesse sentire il suo corpo, la sua pelle, sprofondarvi un po’ dentro, godere di quel tepore. Non deve fare più nulla, solo ascoltare il suono del mare, ritmico, come quello del suo respiro, sentire la brezza. E godersi questa esperienza, andare un po’ là in vacanza …senza fretta…”


Emma sembra riprendere colore e si adagia con morbidezza sulla sua seduta, chiudendo gli occhi.
Dopo qualche istante un cenno di sorriso le compare sul volto.
Le domando se le riesca di immaginarsi là, e quando lei annuisce le chiedo di fare attenzione a che cosa sia cambiato, ora, nel suo corpo.
Emma apre lentamente gli occhi e mi guarda: “per la prima volta da mesi non sento quel dolore al cuore, mi sembra impossibile…”. Si commuove e ci guardiamo a lungo, in un intenso contatto visivo silenzioso, ma eloquente.
Dopo qualche istante, commento: “Il suo corpo sa come darsi tregua, e come regolarsi, nel qui e ora. Partiremo da questo, per esplorare in un secondo momento anche i ricordi più dolorosi. Ma se non impariamo a usare il freno o a cambiare marcia non possiamo guidare pensando di premere sempre e soltanto sull’acceleratore”.
È cominciata così la nostra avventura insieme, il nostro lavoro con Somatic Experiencing, per aiutare Emma a superare i traumi del passato.