Come un cavallo nell’arena: il corpo che parla

Stefano è un omone: alto, muscoloso, statuario.
Quello che fin dal nostro primo incontro mi colpisce è che, sul divano di fronte a me, si siede “di tre quarti”. Come se fosse in posa per un ritratto. Non mi guarda mai frontalmente ma sempre “di sbieco”, perché il suo corpo è parzialmente ruotato sulla sua sinistra. L’immagine che mi arriva è quella di un cavallo spagnolo – che ho realmente conosciuto – abituato a entrare nell’arena, che reagiva all’avvicinamento fisico mettendosi “di traverso”, pronto a scartare di lato in caso di attacco.


Mi interrogo sul significato di questa postura: sarà, anche nel caso di Stefano, un atteggiamento difensivo? Non vuole relazionarsi “apertamente” con me? Sarà diffidenza o timidezza? Lascio queste domande in sospeso finché, un giorno, arriva il momento opportuno per condividere questa informazione. Stefano, infatti, parlandomi delle sue difficoltà relazionali, mi spiega che ha la sensazione di trasmettere agli altri un’immagine sbagliata di sé. Non sa come mai, ma crede di passare qualcosa che di cui non è consapevole e che condiziona l’interazione con gli altri.


Mi sembra il momento opportuno per comunicargli l’impressione che ha fatto a me, il suo “stare di traverso”.
Stefano ne rimane stupito, pare non essersi mai reso conto di quanto gli rimando. Si rende conto che questo modo di porsi, fin dalle prime battute di un’interazione sociale, potrebbe indisporre l’altro, a maggior ragione a fronte della sua stazza, di per sé importante, comunicando più chiusura che disponibilità.


Gli chiedo che cosa succederebbe se provasse, gradualmente, a raddrizzarsi.
Stefano è stupito ma curioso. Comincia a ruotare il suo corpo verso di me, frontalmente, e subito si blocca. Mi riferisce di provare, improvvisamente, una profonda angoscia. L’entità delle sue sensazioni mi suggerisce che ci sia un’esperienza traumatica di mezzo.
Gli chiedo se, per caso, non sia successo qualcosa di importante che abbia coinvolto la parte sinistra del suo corpo.
Stefano dopo qualche istante di riflessione sbianca: gli viene alla mente che – lo scorso anno – ha fatto un incidente quasi mortale in moto: un’auto, non rispettando uno stop, gli è arrivata addosso proprio dal lato sinistro. Le cure e la convalescenza sono state durissime.
Spiego a Stefano che, in quell’occasione, ha vissuto la rottura traumatica di un confine corporeo, proprio dal lato che ora, istintivamente, cerca di proteggere, non esponendolo apertamente al mondo.
Stefano è sconvolto: non credeva che quell’incidente fosse ancora così presente nella sua vita, che lo condizionasse a tal punto…senza che neanche lui ne fosse cosciente!


Il lavoro corporeo su quell’episodio permetterà successivamente a Stefano di reintegrare i suoi confini e il suo – intimo e implicito – senso di sicurezza personale.
Di certo questo aspetto non esaurisce la totalità delle fatiche relazionali di Stefano, ma si sa: la prima impressione conta, e Stefano ora può comunicare più liberamente, anche con la postura, il suo desiderio di entrare in relazione.

Paralizzato dalla paura

Quando il corpo si congela per “sopravvivere” a un pericolo

“Dottoressa, non riesco proprio a capacitarmi, una cosa del genere non mi è mai successa, me ne vergogno moltissimo”.

Michele mi racconta che, mentre lui e la sua collega passeggiavano tranquillamente in un parco durante la pausa pranzo, un cane, senza apparente motivo, li ha aggrediti. Michele ha da sempre paura dei cani, e in quel frangente, terrorizzato, si è paralizzato, non riuscendo a reagire. Non è stato capace di muovere un dito nemmeno per difendere la collega, cosa che lo ha sconvolto ancora di più dell’attacco subito.

“Non riuscivo proprio a fare alcun movimento, era come se fossi diventato di marmo. Avrei voluto gridare, fare qualcosa per proteggerci, allontanare quell’animale, ma era come se il mio corpo fosse impietrito…che figura…non potrò mai perdonarmelo”.

La risposta di Michele è una delle diverse possibilità di reazione che ha il nostro organismo a fronte di una minaccia. La prima strategia che attiviamo è quello del supporto sociale: se siamo in pericolo spesso ci viene istintivo chiedere aiuto agli altri. Ma a volte questo sistema di risposta fallisce: o perché non ci sono altre persone cui chiedere sostegno, o perché le persone presenti, per qualche ragione, non vengono percepite come protettive. È quest’ultimo il caso di Michele, che in compagnia di una ragazza minuta e impaurita, in assenza di altri nelle immediate vicinanze, si è sentito in balìa degli eventi.

La seconda possibilità che ha il nostro organismo a fronte di un pericolo è quella di attaccare (se valutiamo di poter avere la meglio sulla minaccia) o di fuggire (se invece riteniamo che lo scontro non deporrebbe a nostro favore).

Ma quando, per svariati motivi, percepiamo che la minaccia non può essere evitata né affrontata, allora il nostro corpo ha un’estrema strategia di risposta: quella di “fingersi morto”, di congelarsi (in termine tecnico chiama freezing). Proprio come fanno alcuni animali quando vengono predati. La strategia della morte apparente allontana il predatore, non interessato a cibarsi di un animale già privo di vita (e quindi potenzialmente non sano). È ciò che è successo a Michele, che si è trovato nell’impossibilità, pur desiderandolo, di muovere un solo muscolo.

Ma come è possibile che un uomo grande e grosso come lui abbia a tal punto paura di un cane, per giunta di piccola taglia, come quello che li ha aggrediti?

La risposta sta nella memoria traumatica di Michele: la sua fobia per i cani deriva proprio da un episodio accadutogli da bambino, attorno ai 4 anni, quando un pastore tedesco lo rincorse e, forse volendo solo giocare con lui, lo atterrò puntandogli il muso contro la gola. Allora Michele fu sopraffatto dal terrore. Nella sua memoria si impressero le sensazioni di non avere scampo e di non poter in alcun modo fronteggiare quell’animale.

La sua mente e il suo corpo, a fronte dell’attacco del cane al parco, hanno reagito come in quell’occasione, come se Michele avesse ancora 4 anni.

“Ora capisco che non ho avuto una reazione poi così anormale…e onestamente mi sento molto meglio…credevo di essere solo uno smidollato”.

Il lavoro sulla fobia di Michele ha radici molto lontane, ma il suo senso di efficacia personale è recuperabile nel presente. La consapevolezza di aver avuto una risposta giustificata e non “codarda” rappresenta il primo passo verso il recupero di una maggiore resilienza.

L’arte di lasciare andare…ma cosa?

Spesso nel mio lavoro incontro la fatica delle persone nel distogliere lo sguardo – e a volte addirittura la presa – dal passato. Le memorie delle esperienze passate possono incistarsi in modo così profondo, dentro di noi, da impedirci di focalizzare la nostra attenzione al momento presente, che è l’unico realmente esistente.

Se non si lavora su un doppio binario, quello mentale e quello corporeo, il rischio è che uno dei due aspetti possa sabotare l’altro.

Può succedere, infatti, come a Sabrina: dopo decenni di analisi arriva da me sapendo tutto del perché, del per come, del significato simbolico e psicologico dei suoi sintomi, ma non riesce a gestirli lo stesso. Come mai? Il corpo di Sabrina ha appreso delle vie di risposta ormai automatizzate, del tutto inconsapevoli, che lei pur volendo non sa come interrompere. La sua comprensione del suo disagio non è stata sufficiente a risolverlo. Con Sabrina è necessario fare un lavoro di tipo corporeo che le insegni a conoscere e gestire le sue reazioni fisiche (da collegare alla categoria di articoli “ascolto delle emozioni” e alla sezione “Somatic Experiencing”): a volte sapere di dover uscire da un circolo vizioso senza sapere come farlo praticamente, può essere un grosso problema. Sabrina ha dovuto apprendere e rinforzare nel tempo nuovi circuiti di risposta, partendo da un profondo lavoro di ascolto e di conoscenza dei suoi vissuti corporei.

Oppure può accadere come a Massimo: è tutto testa, tutto pensieri, spende la maggior parte del suo tempo in rimuginazioni. Pensa, pensa, ripensa ma non trova mai il bandolo della matassa.
Massimo ha sentito spesso parlare dell’importanza di andare oltre, del lasciar andare…ma lasciare andare cosa?? Non ha mai capito che cosa dovesse lasciar andare, ed ecco che la macchina del suo pensiero ha trovato un altro argomento su cui elucubrare, all’infinito…

Un aneddoto che utilizzo spesso con questo tipo di persone, per cui è prioritario “placare” la fame di razionalità, è il racconto della zattera del Buddha:
“Supponiamo che un uomo sia di fronte ad un grande fiume e debba attraversarlo per raggiungere l’altra riva, ma non c’è una barca per farlo; cosa fa? Taglia alcuni alberi, li lega insieme e costruisce una zattera. Quindi si siede sulla zattera e usando le mani o aiutandosi con un bastone, si sposta per attraversare il fiume. Una volta raggiunta l’altra sponda cosa fa? Abbandona la zattera perché non ne ha più bisogno. Quello che non farebbe mai, pensando a quanto gli sia stata utile, è caricarla sulle spalle e continuare il viaggio con lei sulla schiena.”.
La riva da cui partiamo e quella su cui approdiamo rappresentano un punto di partenza e uno di arrivo. La zattera è il simbolo di tutto ciò che serve per passare da uno stato all’altro. Una volta raggiunta la riva opposta non ha senso tenersi stretti ciò che è servito per arrivarci, potrebbe essere solo un inutile peso. Lasciar andare, quindi, si riferisce alla possibilità di non ancorarsi rigidamente a strumenti, strategie, modalità che abbiamo utilizzato – pur con successo – nel passato ma che ci impediscono di sviluppare appieno il nostro potenziale nel presente. Rimuginare è un modo per tenersi la zattera.

Massimo, così logico e rigoroso, al sentire questo aneddoto ha fatto un sobbalzo.
“Eh già…non fa una piega…ma come fare?”. Ancora una volta rispondo: “Come fare lo vedremo assieme”.

Quando dietro una difficoltà scolastica c’è un’esperienza traumatica

“Samuel, so che a volte è faticoso toccare certi argomenti, ma quello che ti succede mi incuriosisce molto e penso sia importante esplorarlo un po’. Vorrei capire insieme a te in che occasione, per la prima volta, ti è successo di associare una parte del corpo a un grosso spavento. Sono qui con te in questa esplorazione, se dovessi incominciare a provare un forte disagio dimmelo.”


Samuel, un ragazzino biondo di 12 anni, un visino da angelo impaurito, si fa pensieroso. Ogni volta che sente anche solo nominare una parte del corpo, prova una nausea fortissima, fino al vomito, che ultimamente gli rende impossibile frequentare alcune lezioni di scienze a scuola.
Alla mia richiesta sembra sorpreso: non aveva mai pensato che il suo disgusto potesse essere legato alla paura.


“Ora che mi dici questo mi viene in mente che da piccolino, avevo 3/4 anni, mi è successo un incidente: giocando al parco sono caduto e mi sono tagliato il sopracciglio. Ero con mio padre. Ricordo che mi è uscito molto sangue e lui si è spaventato tanto.
Siamo corsi in auto al pronto soccorso e lì mi hanno tenuto fermo per mettermi i punti. Io ero terrorizzato, cercavo di liberarmi, ma mi hanno bloccato. Mi sta tornando alla mente l’odore orribile del disinfettante. Mi sta venendo da rimettere.”


Chiedo a Samuel di stoppare la scena, come se fosse un film, e di “evocare” accanto a sé la sua nonna, per lui così importante, immaginando di ricevere da lei ciò che potrebbe al momento rassicurarlo di più.
Samuel è sollevato dal distogliere il suo pensiero da quella scena. Immagina la nonna al suo fianco, il suo profumo, così familiare per lui, e cambia subito colore: le sue guance tornano rosee, il suo sguardo si ammorbidisce, il corpo di distende e vedo il suo respiro farsi più ampio.
Gli propongo di rimanere accanto a nonna per tutto il tempo che gli serve.
Dopo qualche minuto Samuel riapre gli occhi, che aveva chiusi, e con aria stupefatta mi dice: “è la prima volta che pensando al sangue riesco a non rimettere.”


“Certo Samuel, in quell’episodio, da piccolino, tutto è avvenuto troppo in fretta e troppo intensamente. Il tuo organismo in quella circostanza era molto attivato. In questi casi a volte succede qualcosa di inaspettato: degli elementi si mettono assieme, si aggregano in modo imprevisto. Come quando, se mischi troppo velocemente acqua e farina, si formano dei grumi. Per non farli formare, o per scioglierli, diventa allora importante ridurre la velocità con cui mescoli gli ingredienti, fare attenzione, perché possano trasformarsi in qualcosa di digeribile.
La vista del sangue, la tua paura, l’odore disgustoso dei disinfettanti si sono mischiati nell’esperienza che hai fatto di quel momento. E non sei mai riuscito a digerire quei grumi.
Ora hai imparato che alla giusta velocità e con la giusta attenzione puoi tollerare certe immagini. Ci lavoreremo assieme.”