Il tradimento: un atto che richiede ascolto

Eleonora e Stefano mi contattano in un momento di grande conflittualità coniugale. Sono sposati da più di 15 anni, hanno una bella bambina e sono andati tutto sommato d’accordo fino a che, qualche anno fa, lei lo ha tradito. Con un collega di lavoro. Da allora il loro rapporto si è incrinato e sono arrivati a un punto di grande sofferenza e confusione, tanto da chiedere il mio aiuto.

Quando li incontro, Eleonora mi appare subito come “l’anima trainante” della coppia, così come del colloquio. Estroversa, emotiva, passionale, mi racconta di come lei sia arrivata a cercare in un’altra persona qualcosa che da tempo non sentiva più con suo marito: l’essere desiderata, cercata, il sentirsi al centro dell’attenzione e dell’interesse di un uomo. “In effetti è sempre stato così, lui”, mi confessa Eleonora: “poco affettuoso, poco espansivo. Ma prima ero io a prendermi quello di cui avevo bisogno: una coccola, un bacio…poi a un certo punto ho smesso, forse mi sono stancata, e ogni tenerezza tra noi è svanita”.

Stefano ammette che sia andata proprio così. Lui non è tipo da “troppe smancerie”, dice. È pratico e dimostra il suo amore più con i fatti che con le parole. Non sa perdonare davvero la moglie, da cui oggi si sente molto distante, ma non sa nemmeno se la separazione sia la soluzione giusta. Di certo, rispetto a questo, è fortemente condizionato dai sensi di colpa che avrebbe verso sua figlia e da un senso del dovere che lo tiene inchiodato in quella casa.

Mi chiedono aiuto rispetto al cosa fare, a che decisione prendere.

Da subito rimando loro che non potrò certo sostituirmi a loro in questa decisione o condizionarli in un senso o nell’altro. Ma potrò aiutarli a comprendere meglio quanto è successo, a capire il significato che per ciascuno di loro ciò ha rappresentato e, di conseguenza, a metterli maggiormente in contatto con se stessi e con ciò che desiderano profondamente.

Definisco il tradimento un “atto della coppia” più che un’azione individuale e, in quanto manifestazione finale di una “rappresentazione” messa in scena da entrambi i partner, come tale coinvolgerà, nel tentativo di comprensione profonda e di eventuale superamento dell’accaduto, sia lui che lei.

Il tema del tradimento è antico come il mondo. Le narrazioni mitologiche e bibliche, infatti, sono intrise di tradimenti, inganni, atti sleali e infedeltà. Come superare il dolore, la ferita che un adulterio, o un più generico voltafaccia o imbroglio può generare in quella che viene definita vittima? Forse proprio dall’immaginario archetipico possiamo trarre qualche suggerimento.

I personaggi mitologici che ci possono arrivare in aiuto sono, da una parte, Apate (figlia di Notte), personificazione dell’inganno, uno degli spiriti contenuti nel vaso di Pandora, che racchiudeva tutti i mali; dall’altra Mercurio, nella tradizione romana – o Hermes, in quella greca – dio dell’inganno oltre che messaggero degli dei e accompagnatore delle anime negli inferi.

Entrambi hanno a che fare con le forze oscure, hanno una connessione con aspetti celati, misteriosi e per certi versi inquietanti della vita. Ci ricordano che, per superare – o forse sarebbe meglio dire integrare – il tradimento, è necessario entrare in contatto con il mondo ctonio, degli inferi.

Cosa significa tutto questo? Vuol dire contemplare nella nostra visione delle cose, della vita, delle relazioni, che c’è una parte – di noi stessi e dell’altro – mossa da impulsi irrazionali, dirompenti, che si possono manifestare al di là del nostro controllo razionale.

Per Stefano questo vorrà dire reintegrare in se stesso le parti emotive che, da sempre, ha demandato a Eleonora, portatrice dell’affettività e della vitalità della coppia. Veicolo di istanze di tenerezza e di accudimento. Quelle istanze che, con la nascita della figlia, ella ha comprensibilmente reindirizzato a quest’ultima, contattando però, da quel momento, un silenzio affettivo, una mancanza di presenza da parte del marito.

Eleonora, a propria volta, sarà chiamata a comprendere meglio il suo bisogno simbiotico di amore. Che l’ha portata a scegliere un uomo non tanto per la sua capacità di essere un adulto alla pari con lei, ma per la sua predisposizione ad offrirsi come “la metà” che lei da sempre cercava per sentirsi intera, e senza il quale intera non si sente.

Sarà un lavoro che farà scendere negli inferi entrambi, ma del resto non è possibile ricucire i lembi di una ferita tanto grande senza fare prima un lavoro, seppur doloroso, di pulizia. Non c’è una vittima e non c’è un carnefice; ci sono due anime che hanno perso il contatto con se stesse. E la pulizia, nella sua accezione di far tornare a risplendere, è ciò che è necessario perseguire con ciascuno dei due.

Abbiamo tutti (anche) un lato oscuro

Spesso ci indigniamo quando qualcuno ci fa un torto o nel vedere i comportamenti di certe persone. A tutti sarà capitato di commentare, rispetto a qualche individuo: “Quello lì non lo posso proprio sopportare!”.

In questi casi agisce la nostra mente, che da una parte ci porta ad identificarci con alcune caratteristiche di personalità; dall’altra giudica gli altri e il mondo in base a certi criteri, acquisiti magari dalla nostra cultura, educazione o morale. È inevitabile, è il lavoro del nostro cervello, nella sua parte razionale, che serve ad analizzare, distinguere, discernere e possibilmente controllare la realtà esterna e interna. Ma l’attività mentale non è finalizzata primariamente al benessere della persona, o almeno non ha questo fine tale tipo di attività mentale. Essa ha lo scopo di mantenere il controllo, possibilmente con il minimo sforzo (da cui la facilità con cui si rischia di cadere in stereotipi, generalizzazioni o errori cognitivi).

Pertanto, quando la mente, il giudizio si impone alla nostra coscienza, abbiamo due possibilità: credergli – vale a dire ritenere che ciò che si esprime nel pensiero sia vero, sia la VERITA’ – o semplicemente osservarlo come un prodotto della nostra mente. Se riusciamo a disidentificarci dal contenuto dei nostri pensieri, essi cominciano ad assumere un valore relativo. Allora, forse, possiamo via via renderci conto che, con gli strumenti della mente, possiamo credere – e argomentare! – tutto e il contrario di tutto. Che l’oggettività è una chimera, più di quanto siamo disposti a riconoscere.

Proseguendo in questo viaggio ai confini della realtà (la nostra realtà mentale), potremmo anche arrivare a mettere in discussione la nostra identificazione con certe qualità che noi riteniamo ci appartengano inequivocabilmente. Potremmo anche chiederci se, a questo punto, persino le caratteristiche che noi detestiamo di più al mondo siano davvero così lontane da noi. In breve, il cammino virtuale partito con il relativizzare il ruolo dei nostri pensieri potrebbe inaspettatamente portarci a considerare che anche ciò con cui più strenuamente ci identifichiamo (e che chiamiamo personalità – da persona, la cui etimologia, guarda un po’, fa riferimento alle MASCHERE con cui gli attori teatrali un tempo calcavano le scene), possa essere più mutevole o complesso di quanto crediamo.

Potremmo scoprire che, forse, le riflessioni degli antichi in merito alla copresenza degli opposti, all’illusorietà della separazione, e alla manifestazione dell’unicità nel molteplice e del molteplice nell’uno forse non sono solo voli pindarici di qualche filosofo farneticante ma hanno un fondamento più che legittimo e di valore.

E quindi? Non è forse anche tutto questo discorso un prodotto mentale?

Potrebbe esserlo, se non avesse un risvolto pratico estremamente importante. E quale sarebbe la ricaduta pratica nelle nostre esistenze? Quella di non considerare come realtà vera e inconfutabile ciò che dicono i nostri pensieri, né in merito al mondo esterno, né in merito al nostro mondo interno.

Cioè?

Per dirla fuori dai denti: siamo proprio sicuri che quando ci identifichiamo con delle qualità che riteniamo ci appartengano, sia proprio così? E se invece quelle fossero solo delle possibilità del nostro modo di essere? Non è invece che in noi ci siano anche delle qualità che rifiutiamo categoricamente di vedere, di accettare, di riconoscerci?

Si dice che gli altri siano il nostro specchio. Ebbene, e se le caratteristiche che non possiamo sopportare nell’altro ci stessero solo rimandando qualcosa di noi? Se la rabbia, l’insofferenza per i tratti di qualcuno fossero così poco tollerabili proprio perché vanno a mettere il dito nella piaga (ovvero nel fatto che quegli stessi tratti facciano parte anche di noi, sebbene non vogliamo ammetterlo)?

Ecco allora un’indicazione pratica che deriva da questa riflessione: ogni volta che ci sentiamo irritati da un comportamento o da una persona, domandiamoci quanto quell’aspetto che critichiamo o che francamente biasimiamo ci possa in realtà appartenere, anche se in forma potenziale. In forma potenziale vuol dire che, a certe condizioni e in certe circostanze, forse anche noi potremmo esprimerlo. Anche se finora magari non è (ancora) successo. E a che scopo fare queste considerazioni?

Per uno scopo importantissimo: relativizzare le nostre credenze e cominciare a renderci conto che davvero le categorie mentali, seppur in tanti casi utili, possono diventare delle gabbie in cui chiudiamo noi stessi. E per iniziare a familiarizzare, sempre di più,  con la consapevolezza che il mondo, la vita, le creature, sono meno separate di quanto pensiamo e avere maggiore compassione per noi stessi e per gli altri, poiché in ognuno di noi è racchiusa la complessità dell’esistenza, nei suoi aspetti più piacevoli e più dolorosi.