“Imboccare un’uscita dall’autostrada”

Una metafora per uscire dagli automatismi disfunzionali

Febbraio 2020

Quando affrontiamo delle esperienze difficili mettiamo in atto delle strategie di gestione che abbiamo a disposizione al momento, in funzione di tanti fattori: la nostra maturità, le risorse che possediamo in quel preciso istante, i supporti di cui disponiamo, ecc. La modalità in cui affrontiamo una situazione che ha avuto un importante impatto su di noi – soprattutto se si tratta di situazioni relazionali, che si ripetono nel tempo – è come se venisse “memorizzata” e diventasse lo schema automatico con cui affrontiamo eventi simili. Questo perché il nostro sistema tende a “risparmiare” tempo ed energie e ad individuare vere e proprie “autostrade” comportamentali: percorsi ben conosciuti, preferenziali, di risposta a certi stimoli.

Nel momento in cui un evento simile a quello originario si manifesta, ecco che il nostro “pilota automatico”, per ottimizzare le energie, prende il comando e ci porta a reagire come allora: anche se la strategia non è stata la più efficace, ci ha comunque permesso di sopravvivere, dunque dal punto di vista biologico è stata un successo.

Facciamo un esempio: Paola è in crisi con il fidanzato. Ogni volta che discutono, lei si chiude a riccio, non riesce più a parlare, si sente sopraffatta. Vorrebbe dire tante cose al compagno, ma non le escono le parole, è come se una morsa le chiudesse la gola, si sente incapace di reagire, è come se collassasse su se stessa. Ovviamente questo comporta una serie di incomprensioni, di non detti e di vissuti di frustrazione nella relazione di coppia.

Con Paola abbiamo individuato l’origine di questa sua risposta: quando il fidanzato si infervora in una discussione, alza la voce. È proprio questo l’aspetto che la destabilizza di più. Nella sua famiglia di origine il padre aveva imprevedibili scoppi d’ira, accompagnati da grida e dal lancio degli oggetti che trovava intorno a sé. Paola ne era terrorizzata. Ricorda che accadeva già quando lei era molto piccola, a 4/5 anni. Sua madre reagiva con altrettanta rabbia, innescando un’escalation che, non di rado, portava a degli scontri fisici tra i suoi genitori. Lei era paralizzata dal panico, temeva che potessero uccidersi.

In quel frangente, congelata dal terrore, Paola imparò a farsi invisibile, a non muoversi, a non attirare l’attenzione per non peggiorare la situazione. La risposta di freezing (congelamento) e di impotenza divenne per lei una strategia automatica di gestione di quel tipo di esperienza.

Ancora oggi i toni di voce elevati del fidanzato le attivano una risposta di allarme e di paura che la porta a ripercorrere, inesorabilmente, quell’autostrada. Essere consapevole, razionalmente, di ciò che le accade, tuttavia, non basta a far scomparire il problema. Nel momento in cui sente di stare per entrare nella solita autostrada, Paola deve imparare a imboccare una strada diversa.  E si tratta di un allenamento pratico, continuo, per riuscire a delineare percorsi di risposta alternativi. Come fare, concretamente?

Paola ha individuato il momento preciso in cui comincia a sentirsi sopraffatta: la gola le si chiude, sente una vampata nelle viscere e la forza alle gambe le viene meno.

Con Paola lavoriamo su come ritrovare un maggiore radicamento, un maggiore senso di sicurezza e di presenza in quell’istante. Lei trova efficace riportare l’attenzione da ciò che sta accadendo col fidanzato a se stessa, al suo respiro, alla percezione dei suoi piedi, appoggiati a terra. Questo le consente di non essere “trascinata” altrove (al tempo della sua infanzia) e di rimanere presente e più efficace in quel momento. Per ora Paola ha imparato a chiedere uno stop al fidanzato nel momento in cui, durante una discussione, i toni si scaldano. È qualcosa che le permette di non farsi travolgere dalla discussione e di riprendere, ad animi più sereni, le questioni in sospeso. Paola si è posta come obiettivo, tuttavia, quello di riuscire progressivamente a stare nella discussione senza il bisogno di dare subito degli stop. Sa che alzare la voce non è mai una soluzione, e le dispiace che il compagno arrivi a tanto, ma si rende anche conto che in un confronto animato può accadere, e vuole riuscire a gestire da adulta questa eventualità. Paola è in viaggio e sta facendo tutto il possibile per esplorare percorsi diversi da quelli che, in passato, seppur hanno rappresentato dei tentativi di gestione di situazioni difficili, hanno limitato le sue potenzialità.

Paralizzato dalla paura

Quando il corpo si congela per “sopravvivere” a un pericolo

“Dottoressa, non riesco proprio a capacitarmi, una cosa del genere non mi è mai successa, me ne vergogno moltissimo”.

Michele mi racconta che, mentre lui e la sua collega passeggiavano tranquillamente in un parco durante la pausa pranzo, un cane, senza apparente motivo, li ha aggrediti. Michele ha da sempre paura dei cani, e in quel frangente, terrorizzato, si è paralizzato, non riuscendo a reagire. Non è stato capace di muovere un dito nemmeno per difendere la collega, cosa che lo ha sconvolto ancora di più dell’attacco subito.

“Non riuscivo proprio a fare alcun movimento, era come se fossi diventato di marmo. Avrei voluto gridare, fare qualcosa per proteggerci, allontanare quell’animale, ma era come se il mio corpo fosse impietrito…che figura…non potrò mai perdonarmelo”.

La risposta di Michele è una delle diverse possibilità di reazione che ha il nostro organismo a fronte di una minaccia. La prima strategia che attiviamo è quello del supporto sociale: se siamo in pericolo spesso ci viene istintivo chiedere aiuto agli altri. Ma a volte questo sistema di risposta fallisce: o perché non ci sono altre persone cui chiedere sostegno, o perché le persone presenti, per qualche ragione, non vengono percepite come protettive. È quest’ultimo il caso di Michele, che in compagnia di una ragazza minuta e impaurita, in assenza di altri nelle immediate vicinanze, si è sentito in balìa degli eventi.

La seconda possibilità che ha il nostro organismo a fronte di un pericolo è quella di attaccare (se valutiamo di poter avere la meglio sulla minaccia) o di fuggire (se invece riteniamo che lo scontro non deporrebbe a nostro favore).

Ma quando, per svariati motivi, percepiamo che la minaccia non può essere evitata né affrontata, allora il nostro corpo ha un’estrema strategia di risposta: quella di “fingersi morto”, di congelarsi (in termine tecnico chiama freezing). Proprio come fanno alcuni animali quando vengono predati. La strategia della morte apparente allontana il predatore, non interessato a cibarsi di un animale già privo di vita (e quindi potenzialmente non sano). È ciò che è successo a Michele, che si è trovato nell’impossibilità, pur desiderandolo, di muovere un solo muscolo.

Ma come è possibile che un uomo grande e grosso come lui abbia a tal punto paura di un cane, per giunta di piccola taglia, come quello che li ha aggrediti?

La risposta sta nella memoria traumatica di Michele: la sua fobia per i cani deriva proprio da un episodio accadutogli da bambino, attorno ai 4 anni, quando un pastore tedesco lo rincorse e, forse volendo solo giocare con lui, lo atterrò puntandogli il muso contro la gola. Allora Michele fu sopraffatto dal terrore. Nella sua memoria si impressero le sensazioni di non avere scampo e di non poter in alcun modo fronteggiare quell’animale.

La sua mente e il suo corpo, a fronte dell’attacco del cane al parco, hanno reagito come in quell’occasione, come se Michele avesse ancora 4 anni.

“Ora capisco che non ho avuto una reazione poi così anormale…e onestamente mi sento molto meglio…credevo di essere solo uno smidollato”.

Il lavoro sulla fobia di Michele ha radici molto lontane, ma il suo senso di efficacia personale è recuperabile nel presente. La consapevolezza di aver avuto una risposta giustificata e non “codarda” rappresenta il primo passo verso il recupero di una maggiore resilienza.

L’intelligenza del corpo: memorie traumatiche e presente salvifico

Emma è una donna minuta e apparentemente vulnerabile. Ha vissuto molte esperienze drammatiche, ha sofferto – anche fisicamente – in modo indicibile. Ma dalla prima volta che l’ho incontrata, in studio, capisco di avere a che fare con una guerriera, un’esploratrice delle pieghe dell’essere, una creatura intensa, vibrante, nonostante tutto mossa dall’amore per la vita.


Nel nostro primo incontro Emma comincia a raccontarmi, come un fiume in piena, le dure e innumerevoli vicissitudini che hanno caratterizzato la sua vita. Non è la prima volta che si rivolge ad un psicoterapeuta, e sembra impaziente di raccontarmi i dettagli delle sue fatiche. Mano a mano che parla, però, la vedo irrigidirsi, sgranare gli occhi sempre di più, respirare con crescente affanno.


“Emma – la interrompo – facciamo una pausa. Vorrei che adesso lei smettesse per qualche istante di parlare e si prendesse il tempo per portare l’attenzione a quello che sta accadendo dentro di lei, in questo momento”.


Emma fa un sospiro, porta una mano alla fronte, a sorreggersi il capo, e accasciandosi nella poltrona, con un filo di voce, risponde: “Il mio cuore…non mi dà tregua…batte all’impazzata, mi fa male, e sento come se stessi per morire”.


“So che le chiedo qualcosa di insolito, ma se dovesse descrivermi questa sensazione al cuore, che forma, che colore, che dimensione avrebbe?”
Emma: “è come una palla di metallo con delle punte, pesante e scura, grande come il cuore”.


“Se dovesse immaginare una sensazione opposta a questa, quale sarebbe?”


Emma: “di calore, di leggerezza e morbidezza. Un po’ come la sensazione che ricordo mi prendeva al mare, quando ancora riuscivo ad andarci, e mi stendevo sulla sabbia tiepida.”


“Ecco, Emma, vorrei che adesso lei andasse, con la sua immaginazione, proprio là, in quella spiaggia. Vorrei che si stendesse su quella sabbia, calda al punto giusto, e che potesse sentire il suo corpo, la sua pelle, sprofondarvi un po’ dentro, godere di quel tepore. Non deve fare più nulla, solo ascoltare il suono del mare, ritmico, come quello del suo respiro, sentire la brezza. E godersi questa esperienza, andare un po’ là in vacanza …senza fretta…”


Emma sembra riprendere colore e si adagia con morbidezza sulla sua seduta, chiudendo gli occhi.
Dopo qualche istante un cenno di sorriso le compare sul volto.
Le domando se le riesca di immaginarsi là, e quando lei annuisce le chiedo di fare attenzione a che cosa sia cambiato, ora, nel suo corpo.
Emma apre lentamente gli occhi e mi guarda: “per la prima volta da mesi non sento quel dolore al cuore, mi sembra impossibile…”. Si commuove e ci guardiamo a lungo, in un intenso contatto visivo silenzioso, ma eloquente.
Dopo qualche istante, commento: “Il suo corpo sa come darsi tregua, e come regolarsi, nel qui e ora. Partiremo da questo, per esplorare in un secondo momento anche i ricordi più dolorosi. Ma se non impariamo a usare il freno o a cambiare marcia non possiamo guidare pensando di premere sempre e soltanto sull’acceleratore”.
È cominciata così la nostra avventura insieme, il nostro lavoro con Somatic Experiencing, per aiutare Emma a superare i traumi del passato.