“Non posso lasciarlo andare…”

Storia di un lutto difficile

La prima volta che incontro Franca vedo una donna sulla sessantina molto provata, trascurata, visibilmente schiacciata da un dolore sopraffacente.

Mi racconta la sua storia, o meglio quella del figlio Enzo, morto di infarto più di un anno e mezzo fa. Franca mi narra, con dovizia di particolari, la sera di quel drammatico giorno in cui il figlio è stato male, mentre erano a casa del secondogenito, Luca. Ripercorre, istante per istante, quel tragico evento, come se lo stesse rivivendo davanti ai miei occhi. Accolgo le sue parole e il suo dolore e cerco di avere ulteriori informazioni su Enzo, la sua vita, il rapporto tra loro.

Franca mi racconta una storia di sofferenza psichica, di depressione e di abuso di sostanze da parte di Enzo, che viveva ancora con loro. Mi dice del proprio amore sconfinato per il figlio, dei rimpianti per non aver saputo fare di più per lui, del dolore straziante che, da un anno e mezzo a questa parte, le impedisce di dedicarsi ad altro, di riprendere in mano la propria vita, di godersi gli affetti del marito e del secondogenito, da poco sposatosi.

I nostri colloqui, per diversi incontri, si ripetono più o meno allo stesso modo: con Franca che ripercorre, ossessivamente e drammaticamente, quella sera “maledetta”. Non riesce a farsene una ragione: torna e ritorna in modo rigido e angoscioso a “rivedere” quello che è successo, e a rimuginare su che cosa lei e i suoi familiari avrebbero potuto fare di diverso. I suoi sensi di colpa sono opprimenti, e a nulla valgono i miei tentativi di farla defocalizzare dai pensieri giudicanti su di sé e sul resto dei suoi cari, colpevoli quanto lei di non aver potuto prevedere né gestire diversamente il terribile evento.

Decido quindi in parte di assecondare la sua attitudine a voler stare su quel momento e in parte di spostare il focus sulle emozioni. Le domando quale sia stato il momento peggiore per lei, l’immagine più intollerabile. Franca confessa che l’istante più doloroso da ricordare, oltre al momento in cui i soccorritori hanno dichiarato il decesso, è stato un momento precedente in cui Enzo, alzatosi dalla poltrona, ha barcollato. Cogliendo tutta l’emozione che arriva a Franca, decido di approfondire la cosa e le chiedo che cosa stia sentendo Franca in questo momento, mentre mi racconta questo particolare.

Franca scoppia in un pianto disperato e mi confessa di essere sopraffatta dalla vergogna e dai sensi di colpa perché ricorda che, in quell’istante, lei aveva provato rabbia per Enzo. Perché credeva che avesse di nuovo bevuto troppo, perché per l’ennesima volta avrebbe rovinato quella riunione familiare, perché non era in grado di prendersi cura di sé…Parole che non aveva mai confessato a nessuno, non potendo lei per prima accettarle. Invito Franca a dar voce, con tutta se stessa, a questa rabbia, a dire le cose che non ha mai detto, e valido le sue emozioni, riconnotandole come legittimi messaggi del suo sentire, che nulla hanno a che vedere con l’amore – indiscusso – per il figlio.

L’emozione indicibile di rabbia è uno degli elementi che ha impedito a Franca di elaborare il lutto e che l’ha “bloccata” nella sofferenza e nella prostrazione. Un training per sviluppare un’attitudine non giudicante e compassionevole verso di sé e un percorso di elaborazione del lutto hanno permesso a Franca di iniziare a far pace con i propri sensi di colpa e di lasciare andare, finalmente, il figlio, incominciando ad accettare l’accaduto.

“Non lo sopporto!”

Imparare a tollerare le frustrazioni

Marco è un uomo sulla cinquantina, sposato con due figli.

È da un paio d’anni che lavoro con lui, per problemi di alcolismo. La sua tendenza a bere è rientrata, dopo aver esplorato insieme il bisogno più profondo che lo spingeva a stordirsi. Marco ha preso consapevolezza delle sue emozioni, dell’impatto che la sua storia familiare ha avuto su di lui, dell’importanza che ha, oggi, la sua nuova famiglia, a lungo trascurata per stare al bar con gli amici.

Il suo ruolo di marito e di padre sono molto cambiati nel corso di questi due anni, ma non è tutto rose e fiori. Il maggiore dei suoi figli – che oggi si affaccia alla preadolescenza –  ha ricevuto qualche anno fa una diagnosi di ADHD (disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività). La gestione del figlio è sempre stata estremamente problematica per i genitori, che all’inizio erano esasperati. Ora le cose vanno molto meglio, ma ci sono periodi in cui il comportamento difficile del ragazzo li mette ancora a dura prova.

L’ultimo mese è stato davvero stressante per Marco: al lavoro ha dovuto fare turni snervanti, la madre ha avuto grossi problemi di salute, hanno cambiato casa e, se non bastasse, pure il figlio è tornato a dare problemi, mostrandosi molto scontroso e oppositivo tanto a scuola quanto a casa.

Marco mi confessa di avere avuto più volte la tentazione di bere ultimamente. Ma non lo ha fatto per non buttare al vento due anni di duro lavoro su di sé.

“A tratti – mi dice – è come se non riuscissi ad accettare che le cose stiano andando così male. Dopo tutti gli sforzi e il percorso fatti. Soprattutto quando Matteo (il figlio maggiore), fa una delle sue scenate e tira su un putiferio per qualche sciocchezza, magari perché gli vietiamo di giocare per ore ai videogiochi. Sembra che non ci sia nulla in grado di calmarlo. In quei momenti mi assale lo sconforto e la tentazione di bere si riaffaccia nella mia mente.”.

“Marco – gli dico io – ti rispondo ora in un modo che potresti riproporre anche tu con Matteo: come puoi aiutarti a rendere più sopportabile quel preciso momento? Che cosa potrebbe esserti utile per riuscire a tollerare soltanto un po’ di più quell’attimo di frustrazione?”.

Marco ci pensa un po’ su e poi i tratti del suo viso si distendono: “pensare alla mia montagna…”, mi dice “mi dà un immediato sollievo”. Dopo qualche istante di riflessione aggiunge: “Ho capito: si tratta di spostare l’attenzione dall’aspetto esclusivamente negativo di quel momento. E trovare qualcosa DENTRO DI ME che possa aiutarmi a superarlo. La stessa cosa potrei proporla, in effetti, a Matteo; potrebbe anche diventare un gioco: confrontarci su come riusciamo a superare i momenti più difficili da accettare, scambiarci i consigli”.

Marco ha colto perfettamente la mia proposta. Quella di non arrovellarsi tentando di cambiare una realtà che non dipende totalmente da lui, ma cercando dentro di sé le risorse per imparare a tollerare ciò che gli accade. È un’attitudine, questa, che può sollecitare anche nei propri figli, evitando triti ragionamenti “di testa” che tentino di convincerli a farsi una ragione di alcune cose, ma spostando l’attenzione sugli aspetti di risorsa; virando il focus da un piano di pensiero a quello delle sensazioni.

Un detto cita “Quando possiamo cambiare la realtà, facciamo di tutto per cambiarla. Quando non possiamo fare nulla, non ci resta che accettarla”. Ed è in quel momento che il focus diventa il nostro mondo interno, con le potenzialità e le capacità che custodisce.

Marco, la volta dopo, mi riferisce di aver sperimentato questa strategia con Matteo. In un primo momento Matteo non ha voluto ascoltare la proposta di Marco. Che però non si è dato per vinto ed è rimasto accanto al figlio. Dopo qualche istante Matteo ha borbottato che la sola cosa che avrebbe voluto fare sarebbe stata tirare dei pugni. Marco si è prestato al gioco e sono finiti a “fare la lotta”, cosa che non succedeva da tanto, tanto tempo. E tra spintoni e risate hanno ritrovato una complicità che mancava da molto.

“Il persecutore dentro di noi”

Una storia di impotenza appresa

Renata è una bella donna di 36 anni. Da 4 anni ha una relazione estremamente conflittuale con un uomo che la prevarica e la svaluta quotidianamente. È un rapporto non molto diverso, dice lei, da quelli precedenti. Succede ogni volta la stessa cosa: dopo un’iniziale reticenza, Renata finisce per coinvolgersi molto nella relazione di coppia e, proprio quando lei si abbandona ai suoi sentimenti, il partner comincia a maltrattarla psicologicamente, a offenderla, a sminuirla, a farla sentire come un’incapace e una stupida.

Renata sostiene di essere molto sfortunata in amore, e comincia a pensare di meritare questo tipo di uomini, evidentemente perché non è abbastanza interessante.

Mentre Renata mi racconta delle sue pene amorose, le chiedo di individuare un episodio recente in cui è avvenuto uno scambio, col compagno, che l’ha ferita.

Renata non fatica a individuarne uno, accaduto proprio il giorno prima: il suo compagno le ha chiesto di partecipare ad una importante cena di lavoro, proprio nel giorno in cui lei avrebbe dovuto partecipare al compleanno della sorella, con la quale ha un rapporto molto stretto. Lui sapeva di questa ricorrenza ma, al solito, ha messo i propri bisogni davanti a tutto. Quando Renata glielo ha fatto presente, lui ha cominciato ad alzare la voce e ad accusarla di pensare solo a se stessa, di non curarsi di lui, di volerlo umiliare di fronte ai colleghi per invidia rispetto al suo successo lavorativo. Ha dato sfogo ad un monologo durato mezz’ora al termine del quale l’ha fatta sentire talmente in colpa da decidere di rinunciare alla festa della sorella per accompagnarlo alla cena. Renata mi racconta di essersi sentita talmente mortificata per le parole del compagno, di aver provato una confusione tale da non aver saputo ribattere ad una sola parola del fidanzato. Si è sentita piccola, smarrita, una vera idiota che non ne combina una giusta.

Le chiedo di dirmi se questa è una sensazione che le è familiare, che ha incontrato spesso nella sua vita.

Renata mi dice che “sei un’idiota” potrebbe essere il titolo della sua storia.

Le vengono le lacrime agli occhi. Ricorda di quando, da piccola, sua mamma le ripeteva “non sei una principessa, non mi interessa…”. La madre si mostrava affettuosa con lei solo nel momento in cui Renata si comportava esattamente secondo le sue aspettative. Ogni richiesta, ogni movimento che si discostasse dal volere o dal desiderio materno era accompagnato da un commento simile a quello sopra citato.

Faccio notare a Renata come abbia interiorizzato l’immagine svalutante e oppressiva della madre.

Avendo imparato molto presto ad accondiscendere alle richieste altrui per ottenere approvazione, accettazione e amore, ha smesso anche di ascoltare le proprie risposte emotive, i propri bisogni e desideri.

Ecco perché, di fronte alle irragionevoli pretese del compagno, Renata non riesce a contattare le sensazioni che queste ultime scatenano in lei, ma si attiva in automatico un vecchio copione che la vuole “sbagliata”, pretenziosa e inopportuna. Subito compare il senso di impotenza, di inadeguatezza, e di colpa. Renata reagisce come quando, da bambina, la mamma la mortificava. Ma ora è una donna, e può rispondere diversamente al compagno.

Le chiedo di “riavvolgere il nastro” della scena accaduta la sera prima con il fidanzato e di procedere al rallentatore, “mettendo in pausa” subito dopo aver ascoltato la sua richiesta di presenziare alla cena di lavoro, ignorando la sua obiezione legata all’impegno preso con la sorella.

Invito Renata a chiudere gli occhi, a immedesimarsi in quell’istante, e a portare poi l’attenzione dentro di sé, al suo corpo, alle sue sensazioni. Non serve che le chieda cosa provi perché il suo vissuto le si legge letteralmente in faccia: il suo volto viene arrossato da una vampata di calore, le mascelle si serrano e l’espressione che compare in viso è quella della rabbia. Le domando se sia consapevole di quello che le sta accadendo. Renata, presa da un tremito alle braccia, dopo un sussulto, mi confessa: “se fosse qui gli tirerei un pugno in faccia…oddio…sono orribile…come ho potuto dire una cosa simile?”.

Rassicuro Renata rispetto al fatto che non è un mostro: quello che sente, e che probabilmente non è abituata a contattare, è una legittima risposta di rabbia. La rabbia non va giudicata da un punto di vista morale, è soltanto un segnale fisiologico che ci dice che ciò che sta accadendo non ci piace, non va bene per noi. Per questo si manifesta attraverso un flusso di energia che, spesso, “sale”: è il nostro corpo che si prepara a reagire con forza a qualcosa che respingiamo, per evitare che ci ferisca. Renata dovrà imparare, un po’ alla volta, ad ascoltare e a gestire questa emozione, che come un leale messaggero le porta un’informazione su di sé.

Cos’è quello che sento? Alfabetizzazione emotiva

Spesso succede che le persone non abbiano chiaro il proprio vissuto, che viene spesso identificato con un generale senso di malessere o di stress. Eppure, al di là del mero esercizio intellettuale di etichettare le nostre emozioni, capire ciò che ci accade è fondamentale per capire chi siamo, cosa vogliamo, e che cosa è meglio per noi. Ecco un esempio.

Tiziana mi racconta che, rispetto alle modalità educative di sua madre, quello che prova e che ha sempre provato, è rabbia. Ma me lo dice in un modo poco convincente, quasi rassegnato. Una qualità del sentire che ha poco a che fare con l’energia della rabbia. Ecco allora che decido di esplorare, col suo consenso, questa emozione.

“Esattamente, Tiziana, cosa senti nel corpo quando pensi a certi modi di porsi di tua madre?”

“Qualcosa nelle braccia…ma più che altro un peso al petto. È come se mi si stringesse qualcosa, nella zona del cuore, fa male…”

Chiedo a Tiziana di rimanere in ascolto di quella sensazione, tenendo l’attenzione su di essa e notando ciò che accade.

Tiziana, a un certo punto, mi dice che sta salendo qualcosa, e prima che possa finire la frase scoppia in un pianto violento, disperato, dirompente. La accompagno e la sostengo mentre si lascia attraversare da questa onda emotiva che, piano piano, si quieta, e la lascia spossata, incredula.

Mi guarda, con aria interrogativa.

“Direi che questo non ha molto a che fare con la rabbia, che dici?”

Tiziana ride e si rende conto: non si era mai permessa di ascoltare davvero quell’emozione e, men che meno, di esprimerla.

Rimando a Tiziana che, a volte, riconoscere e ascoltare la tristezza è molto penoso. A volte ne abbiamo anche paura. Ecco allora che “raccontarci” che quel malessere che sentiamo è “rabbia” è più tollerabile, perché la rabbia è un’emozione più attiva, anche culturalmente più valorizzata nel nostro contesto.

Il vero vissuto di Tiziana ce lo ha potuto raccontare il corpo più che la testa: un profondo senso di dolore, collegato alle ferite ricevute, che Tiziana non si è mai concessa di ascoltare, di legittimare. Tiziana si diceva, “di testa”, di soffrire per il rapporto conflittuale con la madre, ma non ha mai attraversato quel dolore.

Poterlo sperimentare oggi le ha permesso, finalmente, di riconoscere e reintegrare una parte di sé negata. E questo le ha fatto sperimentare un profondo senso di interezza, di libertà. In secondo luogo, l’aver attraversato la sua sofferenza, le ha restituito un senso di potere personale: non ne è stata sopraffatta, come implicitamente temeva, ma ha potuto contenerla.

La difficoltà di Tiziana di ascoltare e accogliere il suo sentire è qualcosa di molto comune oggi. E rimanda a una carenza di “alfabetizzazione emotiva”: un vero e proprio mancato apprendimento del linguaggio del nostro corpo. Ma come e quando dovremmo apprendere questo linguaggio?

Fin dai nostri primi giorni di vita, e per tutta l’infanzia, quando gli adulti di riferimento hanno il ruolo, fondamentale e delicatissimo, di cogliere, dare significato e rispecchiare al bambino i suoi vissuti, fisici e mentali. Se questa funzione è carente, perché magari a loro volta i genitori non ne hanno fatto adeguata esperienza, viene meno la sintonizzazione emotiva tra genitori e bambini. E i figli non potranno che crescere ignorando e fraintendendo un linguaggio, quello del loro corpo, delle sensazioni, che è in realtà la bussola del nostro benessere.

Dolorosamente insieme…

Quando le storie familiari influiscono sulle relazioni di coppia

Riccardo e Martina arrivano da me perché, dopo anni di relazione, sentono di essere arrivati ad un nodo cruciale: Martina, sulla quarantina, vorrebbe tanto un figlio. Le sembra che il tempo a sua disposizione ormai sia poco e si sente pronta ad affrontare questo passo.

Riccardo invece è molto frenato: è impaurito, non si sente in grado di far fronte ad un’eventualità del genere. Durante delle sessioni individuali approfondiamo le rispettive storie familiari.

Martina è rimasta orfana di madre molto presto, da bambina, e ha un rapporto strettissimo col padre. Il suo sogno è sempre stato quello di metter su famiglia e ora la reticenza di Riccardo, che ama molto e che, a suo dire, ha scelto proprio perché “tutto d’un pezzo” e poiché le dà sicurezza, la ferisce terribilmente: si sente non realmente voluta, tradita. Il rifiuto di Riccardo riattiva in lei un profondo dolore e un senso di vuoto, che assomigliano molto a quelli che lei ha vissuto in seguito alla prematura scomparsa della mamma. Martina teme che lui non la ami davvero e che possa perderlo da un giorno all’altro, cosa che le risulterebbe intollerabile: non potrebbe sopportare un altro abbandono…Questo timore la rende insicura e, nei confronti del partner, continuamente richiedente e controllante. A volte perde le staffe e la cosa che la manda più in bestia, quando discutono, è che lui sembra impassibile, impenetrabile…questo apparentemente conferma i suoi timori rispetto al fatto che lui non sia veramente interessato alla loro relazione.

Riccardo, da parte sua, ha una storia di bambino maltrattato. Il padre, alcolizzato, spesso lo picchiava selvaggiamente e in modo imprevedibile, sfogando su di lui le proprie frustrazioni personali, e nella convinzione che lui non fosse realmente suo figlio. Riccardo è sopravvissuto a un’infanzia durissima, ma ne porta ancora i segni. È estremamente ansioso, rigido, sembra che faccia uno sforzo immane per mantenere tutto sotto controllo, emozioni comprese. Durante gli incontri individuali emerge che il suo timore rispetto ad un’eventuale paternità è legato al terrore di poter perdere il senno e di diventare come suo padre.

È anche per questo che, nella sua vita, Riccardo si è chiuso dietro un’armatura impassibile e, almeno all’apparenza, inespugnabile. La sua reazione alla rabbia, propria e altrui, è una sorta di congelamento, che lo immobilizza. Il suo più grande incubo  è poter diventare, a propria volta, maltrattante e violento.

Martina non conosce la sua storia, che Riccardo ha sempre taciuto e cercato di dimenticare.

Riccardo e Martina sono due chiari esempi di come le rispettive storie di vita, e familiari, abbiano creato delle “vulnerabilità” che si sono giocate, successivamente, nella loro relazione di coppia.

Martina, in cerca di un partner rassicurante e affettuoso per colmare il vuoto mai elaborato lasciatole dalla morte della madre, fraintende la rigidità di Riccardo, vivendola come solidità. Ma non tarda ad accorgersi che, proprio questo aspetto, è quello che più la sollecita, facendola sentire insicura e incerta rispetto a quanto lui la ami e desideri un futuro con lei.

Riccardo, barricato dietro le sue difese, risponde alle richieste emotive e alle esplosioni di Martina come ha imparato a fare: congelandosi, ma nel terrore di perdere il controllo.

Quanto più lei diventa richiedente e intrusiva, tanto più lui si ritira. E il comportamento di ognuno dei due sollecita sempre di più i temi affettivi cruciali dell’altro.

Il lavoro con Martina e Riccardo è proseguito con incontri congiunti, di coppia. Le riflessioni sulle rispettive storie sono state condivise, anche attraverso l’uso di strumenti specifici, come il genogramma (rappresentazione grafica della famiglia di origine e delle relazioni tra i membri). Ognuno dei due ha potuto conoscere e comprendere meglio la storia e il vissuto profondo dell’altro. Entrambi hanno inoltre potuto differenziare ciò che ciascuno portava – dal proprio passato – nella coppia e ciò che invece emergeva nel presente, nell’incontro più consapevole e autentico con l’altro. Per Martina e Riccardo si è aperta la possibilità di una diversa narrazione, che li vede protagonisti di una nuova storia: la loro storia come coppia di adulti e non più – soltanto – come figli feriti.