Esistono emozioni “sbagliate”?

Molto spesso mi capita di confrontarmi, con le persone che fanno dei percorsi con me, sul tema delle emozioni “giuste” o “sbagliate”. Ricordo, tra le tante esperienze cliniche, una donna che, pur essendo molto infelice all’interno della relazione con il marito, mi chiedeva di “aggiustarla”, ritenendo che ci fosse qualcosa di sbagliato in lei, per permetterle di cambiare il suo sentire e continuare a vivere, però felicemente, con il marito. La sua convinzione circa la difettosità delle sue emozioni, e il desiderio di “sistemare” quel qualcosa che non andava in lei erano così radicati  che mi ci volle molto tempo per farle capire che la sua era una richiesta impossibile.

Perché? Perché non si possono pretendere le emozioni. O i sentimenti. Né da se stessi, né dagli altri.

L’emozione, o ancora prima una sensazione che ci arriva dal corpo, è un messaggio. Su noi stessi. È la saggezza della nostra Anima che, attraverso il linguaggio involontario e incontrollabile del corpo, vuole inviarci un segnale, un messaggio su ciò che è buono o meno buono per noi. Pretendere che non sia così sarebbe come arrabbiarsi per il fatto di provare caldo, freddo, fame, o non accettare che ci scappi la pipì. Possiamo certamente indispettirci, ma ciò non farà sparire quella sensazione, e con essa il messaggio che porta, il bisogno che esprime.

Ma se qualcosa ci fa stare male, che fare dunque? Ascoltare. E provare ad accogliere il messaggio che ci arriva; non scappare, prenderci la responsabilità di quello che siamo, non forzandoci ad essere qualcosa di diverso, perché prima o poi i nodi arriveranno al pettine…

Nel caso di Lorena, la donna che ho citato in precedenza, la “resa” fu tutt’altro che semplice. E parlo di resa, non di rinuncia. La resa ha a che fare con l’accettazione di quello che c’è. Non significa rassegnazione, ma disponibilità a stare nel flusso che la vita ci offre e, stando in quel flusso, trovare il nostro modo migliore per starci, per lasciarlo scorrere dentro di noi e andare avanti, andare oltre, verso ciò cui la nostra Anima è chiamata per esprimere al meglio se stessa.

Lorena era mortificata per il fatto di non provare più niente per il marito, una persona buona, generosa, amabile. Eppure lei, che lo aveva sposato proprio apprezzando le qualità di integrità e onestà che vedeva in lui, non poteva fare a meno di notare che, nel tempo, in quella relazione si era spenta sempre di più, fino a non provare più niente, né per lui né per nient’altro.

Sposarlo aveva voluto dire trasferirsi con lui dalla sua città natale, in campagna, alla periferia di Milano, tra palazzoni di cemento e rumore. Aveva voluto dire forzarsi a fare un lavoro che detestava, rinunciare ai suoi sogni. Aveva accettato tutto questo per quello che credeva fosse l’amore. Ma nel tempo ha realizzato che il rapporto con il marito non le bastava. Nel tempo ha sperimentato che il legame con quest’uomo, a cui voleva sicuramente bene, si era trasformato da un iniziale entusiasmo a una tiepida convivenza. Ogni elemento vitale si era spento. E la ricerca di Lorena di voler tornare ad amare il marito si trasformò, poco a poco, nel tentativo di tornare ad amare se stessa, di riprendere il contatto con il suo sentire, con i suoi desideri, con la sua essenza.

Questo percorso, partì proprio da un indispensabile cambiamento di atteggiamento: l’abbandono del giudizio rispetto a ciò che provava e il recupero di un’attitudine curiosa e benevola verso ciò che il corpo tentava di esprimere.

Ogni emozione è “giusta”. O meglio, abbandonando il registro morale, sarebbe più utile dire che ogni emozione è significativa, ci parla di noi. Abbiamo imparato a ignorare, reprimere o addirittura distorcere le nostre emozioni, ma il nostro corpo, il nostro migliore alleato, non si arrende, e – se non viene ascoltato – alza la voce, grida…

Una violenza invisibile: il gaslighting, una sottile manipolazione mentale

Giusy arriva da me in profondo stato di prostrazione e depressione. Sta uscendo, a fatica, da una relazione fortemente destabilizzante e patologica. Una relazione durata 4 anni con Matteo, un professionista di poco più grande di lei. Quattro anni di incubo, a suo dire, che l’hanno portata sull’orlo della pazzia.

Giusy è originaria della Romania, fu adottata da piccola e ora i suoi genitori sono morti. È sola al mondo, senza contatti significativi con la rete parentale e senza amici. “Lui mi faceva sentire una stupida, inutile, una persona di cui a nessuno, all’infuori di lui, sarebbe importato”. Così comincia il racconto straziante di Giusy. Una storia fatta di sottili ma continui, costanti attacchi al suo senso di fiducia e valore personali. Una sorta di inesorabile ma velato “terrorismo psicologico”. Matteo non ha mai alzato le mani su di lei, non ce n’era bisogno. Tanto lei era succube e dipendente da lui, dai suoi giudizi, dal suo modo di vedere e interpretare le cose. Giusy, piangendo, mi racconta di quanto si sia annullata, messa in dubbio, accusata, svalutata, per rimanere con lui. E non era neanche consapevole di quanto stesse accadendo.

Dagli episodi, dalle parole, dalle atmosfere che Giusy via via mi racconta di aver vissuto nella relazione con Matteo si delinea sempre più netta un’ipotesi, una parola che racchiude il senso di ciò che è accaduto a Giusy: Gaslighting.

Il termine fa riferimento a un’opera teatrale statunitense e ai successivi adattamenti cinematografici, degli anni ’40, nei quali si descrivono le modalità subdole e manipolatorie con cui un marito cerca di portare la moglie a dubitare di se stessa, delle proprie percezioni e della propria memoria (ad esempio negando fatti realmente accaduti o distorcendo questi ultimi) per disorientarla e averne il totale controllo.

Si tratta di una forma d’abuso che, avvenendo tra le mura domestiche e non lasciando “segni” percettibili, come potrebbero essere quelli di percosse fisiche, è estremamente difficile da riconoscere. Anche perché chi ne è vittima, per prima, non riconosce da subito il lento ma infido processo di manipolazione a cui è sottoposta. Ciò che succede, infatti, è che gli “attacchi” del gaslighter sono graduali, somministrati a piccole dosi, ma inesorabili. È quello che accade nella famosa metafora della “rana in pentola”: il calore dell’acqua si alza lentamente e la rana non si rende conto di ciò che le accade, arrivando a morirne.

Inoltre, spesso, l’atteggiamento generale del gaslighter è a tratti di grande apprezzamento, di dichiarata vicinanza e valorizzazione della vittima. La quale, alla ricerca di un’approvazione e di una sicurezza che non trova dentro di sé, arriva a vacillare, a provare un grande stato di confusione, a dubitare di se stessa e ad accettare la visione e la lettura della realtà dichiarate dal proprio manipolatore, spesso oggetto di forte idealizzazione.

Ecco allora che alcuni fatti vengono distorti, altri negati, vengono rivolte alla vittima accuse per cose irrisorie o inesistenti. Vengono messi in dubbio i suoi ricordi, la sua lettura dei fatti, addirittura le sue percezioni (“non è come dici, sei tu che ti immagini le cose”). Il tutto alternato a dichiarazioni di solidarietà, di vicinanza emotiva e di affetto (“lo dico per te, tesoro, ti vedo un po’ esaurita, lascia che mi occupi io di te”). Il vissuto della vittima passa da stati di confusione, a incredulità, a rabbia, per arrivare, quando la persona infine depone le armi e arriva a dubitare completamente di se stessa, alla depressione. La sua autostima e capacità decisionale sono state definitivamente compromesse e schiacciate.

Giusy è caduta in una trappola pericolosa, che ha trovato terreno nel suo disperato bisogno di affetto, di approvazione, e nella scarsa fiducia in sé, nella mancanza di ascolto e di legittimazione delle sue sensazioni e impressioni personali.

“Giusy, anche io potrei rischiare di rappresentare, per te, un’altra persona che ti dice cosa è giusto e cosa è sbagliato. Per questo lavoreremo molto, all’inizio, sull’ascolto e la decifrazione del tuo sentire. Quello, appartiene solo a te, ti aiuta a capire cosa ti fa stare bene e cosa no, cosa vuoi per te stessa e da cosa preferisci prendere le distanze. Il nostro lavoro di ricostruzione partirà, paradossalmente, da un piano molto diverso da quello che è stato attaccato, ovvero il piano mentale. Partiremo dal tuo corpo e dalle sue risposte…ogni casa solida si costruisce dalle fondamenta.”