Il contatto con il bambino interiore

Mario è un giovane uomo di 23 anni.
Da subito mi è chiaro che il suo malessere (forti ansie, angoscia, attacchi di panico) è legato ad un iper-investimento della mente, dei pensieri, come probabile fuga da vissuti difficili da affrontare.
Durante un colloquio mi confida che uno dei “temi caldi” delle sue rimuginazioni è dirsi “Sono un incapace e gli altri se ne potrebbero accorgere”. Approfondendo meglio questo pensiero emerge come il vero timore di Mario sia quello di far trapelare la sua vulnerabilità. Mario comprende razionalmente quanto sia inutile e inappropriato giudicare negativamente le sue fragilità, ma non può fare a meno di odiarle. Quando si pensa come debole gli si chiude immediatamente lo stomaco, sente un nodo alla gola, una vampata di calore alla testa e le mani fredde.


Non potendo risolvere un problema di pensiero allo stesso livello in cui si è prodotto (quello mentale), decido di fargli fare un’esperienza emotiva. Gli chiedo di dare una forma a quella che percepisce come la sua parte vulnerabile.
A Mario viene spontaneo immaginarla come un bambino piagnucoloso che non è in grado di fare altro se non rimanere lì dov’è, immobile, incapace di fare qualsiasi cosa. Chiedo a Mario che cosa prova nel “vedere” quel bambino di fronte a sé.
Mario mi dice che guardandolo, dopo un primo momento di irritazione, gli fa pena. Gli verrebbe voglia di avvicinarsi e abbracciarlo. Gli propongo di farlo, sempre in quel campo magico dove tutto può accadere: la nostra immaginazione.
Mario si lascia andare ad una profonda tenerezza mentre, con l’occhio della mente, si concede questa esperienza.
Proiettando fuori di sé l’incarnazione delle sue vulnerabilità, Mario ha potuto avvicinarle. E contattarle in un modo che fosse diverso dal giudizio. Gli propongo di considerare – e cautamente di trasformare – quel bambino della visualizzazione in sé stesso, a quella medesima età.
Mario tentenna. Inizialmente, l’immagine di sé da bambino fatica a formarsi. Ma finalmente arriva. Insieme ad una grande commozione. Non si era mai “rivisto” in questi termini. Prova una stretta al cuore e un sentimento di compassione che non era mai riuscito a provare nei propri confronti, men che meno verso il bambino che è stato.
Invito Mario, anche stavolta, a comportarsi verso quel bambino nel modo che sente più spontaneo. Mario mi dice che anche con lui avverte il bisogno di avvicinarsi e di avere un contatto fisico. Mentre immagina tutto questo, porto la sua attenzione a focalizzarsi sulle sensazioni che gli derivano da questo abbraccio, identificandosi ora con il Mario adulto, ora con il Mario bambino. È un momento molto intenso, che lo tocca parecchio. Lo aiuto a farsi attraversare dalle sensazioni e dalle emozioni del momento. Non potrà dimenticare facilmente quest’esperienza e lo invito, ora che fa parte del suo bagaglio, a ricordarsene nel momento in cui il pensiero giudicante visto sopra si riaffacciasse alla sua mente. Gli suggerisco di tenere presente che quelle parti vulnerabili di sé chiedono solo un riconoscimento, un’accettazione, amore. E quanto più lo ricevono, tanto più si rinforzano. Invece che respingerle, addirittura odiarle, ora sa che hanno solo bisogno d’amore. Quel bambino è dentro di lui, e la parte adulta di sé, oggi, può prendersene cura.


La mente di Mario – come quella di tutti noi – può rappresentare un limite o una risorsa. Diventa vincolante nel momento in cui prende il sopravvento il bisogno di controllo, che porta a valutare, giudicare, ad analizzare. È la parte più razionale che, se non gestita, può portare a una deriva.
C’è poi una parte della psiche, quella legata all’immaginazione, ai simboli, alla creatività, che è un vero e proprio scrigno di tesori. Imparare ad aprirlo e a fruire dei suoi doni è quanto di più bello possiamo fare per noi stessi e per il mondo.

L’arte di lasciare andare…ma cosa?

Spesso nel mio lavoro incontro la fatica delle persone nel distogliere lo sguardo – e a volte addirittura la presa – dal passato. Le memorie delle esperienze passate possono incistarsi in modo così profondo, dentro di noi, da impedirci di focalizzare la nostra attenzione al momento presente, che è l’unico realmente esistente.

Se non si lavora su un doppio binario, quello mentale e quello corporeo, il rischio è che uno dei due aspetti possa sabotare l’altro.

Può succedere, infatti, come a Sabrina: dopo decenni di analisi arriva da me sapendo tutto del perché, del per come, del significato simbolico e psicologico dei suoi sintomi, ma non riesce a gestirli lo stesso. Come mai? Il corpo di Sabrina ha appreso delle vie di risposta ormai automatizzate, del tutto inconsapevoli, che lei pur volendo non sa come interrompere. La sua comprensione del suo disagio non è stata sufficiente a risolverlo. Con Sabrina è necessario fare un lavoro di tipo corporeo che le insegni a conoscere e gestire le sue reazioni fisiche (da collegare alla categoria di articoli “ascolto delle emozioni” e alla sezione “Somatic Experiencing”): a volte sapere di dover uscire da un circolo vizioso senza sapere come farlo praticamente, può essere un grosso problema. Sabrina ha dovuto apprendere e rinforzare nel tempo nuovi circuiti di risposta, partendo da un profondo lavoro di ascolto e di conoscenza dei suoi vissuti corporei.

Oppure può accadere come a Massimo: è tutto testa, tutto pensieri, spende la maggior parte del suo tempo in rimuginazioni. Pensa, pensa, ripensa ma non trova mai il bandolo della matassa.
Massimo ha sentito spesso parlare dell’importanza di andare oltre, del lasciar andare…ma lasciare andare cosa?? Non ha mai capito che cosa dovesse lasciar andare, ed ecco che la macchina del suo pensiero ha trovato un altro argomento su cui elucubrare, all’infinito…

Un aneddoto che utilizzo spesso con questo tipo di persone, per cui è prioritario “placare” la fame di razionalità, è il racconto della zattera del Buddha:
“Supponiamo che un uomo sia di fronte ad un grande fiume e debba attraversarlo per raggiungere l’altra riva, ma non c’è una barca per farlo; cosa fa? Taglia alcuni alberi, li lega insieme e costruisce una zattera. Quindi si siede sulla zattera e usando le mani o aiutandosi con un bastone, si sposta per attraversare il fiume. Una volta raggiunta l’altra sponda cosa fa? Abbandona la zattera perché non ne ha più bisogno. Quello che non farebbe mai, pensando a quanto gli sia stata utile, è caricarla sulle spalle e continuare il viaggio con lei sulla schiena.”.
La riva da cui partiamo e quella su cui approdiamo rappresentano un punto di partenza e uno di arrivo. La zattera è il simbolo di tutto ciò che serve per passare da uno stato all’altro. Una volta raggiunta la riva opposta non ha senso tenersi stretti ciò che è servito per arrivarci, potrebbe essere solo un inutile peso. Lasciar andare, quindi, si riferisce alla possibilità di non ancorarsi rigidamente a strumenti, strategie, modalità che abbiamo utilizzato – pur con successo – nel passato ma che ci impediscono di sviluppare appieno il nostro potenziale nel presente. Rimuginare è un modo per tenersi la zattera.

Massimo, così logico e rigoroso, al sentire questo aneddoto ha fatto un sobbalzo.
“Eh già…non fa una piega…ma come fare?”. Ancora una volta rispondo: “Come fare lo vedremo assieme”.