“Non lo sopporto!”

Imparare a tollerare le frustrazioni

Marco è un uomo sulla cinquantina, sposato con due figli.

È da un paio d’anni che lavoro con lui, per problemi di alcolismo. La sua tendenza a bere è rientrata, dopo aver esplorato insieme il bisogno più profondo che lo spingeva a stordirsi. Marco ha preso consapevolezza delle sue emozioni, dell’impatto che la sua storia familiare ha avuto su di lui, dell’importanza che ha, oggi, la sua nuova famiglia, a lungo trascurata per stare al bar con gli amici.

Il suo ruolo di marito e di padre sono molto cambiati nel corso di questi due anni, ma non è tutto rose e fiori. Il maggiore dei suoi figli – che oggi si affaccia alla preadolescenza –  ha ricevuto qualche anno fa una diagnosi di ADHD (disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività). La gestione del figlio è sempre stata estremamente problematica per i genitori, che all’inizio erano esasperati. Ora le cose vanno molto meglio, ma ci sono periodi in cui il comportamento difficile del ragazzo li mette ancora a dura prova.

L’ultimo mese è stato davvero stressante per Marco: al lavoro ha dovuto fare turni snervanti, la madre ha avuto grossi problemi di salute, hanno cambiato casa e, se non bastasse, pure il figlio è tornato a dare problemi, mostrandosi molto scontroso e oppositivo tanto a scuola quanto a casa.

Marco mi confessa di avere avuto più volte la tentazione di bere ultimamente. Ma non lo ha fatto per non buttare al vento due anni di duro lavoro su di sé.

“A tratti – mi dice – è come se non riuscissi ad accettare che le cose stiano andando così male. Dopo tutti gli sforzi e il percorso fatti. Soprattutto quando Matteo (il figlio maggiore), fa una delle sue scenate e tira su un putiferio per qualche sciocchezza, magari perché gli vietiamo di giocare per ore ai videogiochi. Sembra che non ci sia nulla in grado di calmarlo. In quei momenti mi assale lo sconforto e la tentazione di bere si riaffaccia nella mia mente.”.

“Marco – gli dico io – ti rispondo ora in un modo che potresti riproporre anche tu con Matteo: come puoi aiutarti a rendere più sopportabile quel preciso momento? Che cosa potrebbe esserti utile per riuscire a tollerare soltanto un po’ di più quell’attimo di frustrazione?”.

Marco ci pensa un po’ su e poi i tratti del suo viso si distendono: “pensare alla mia montagna…”, mi dice “mi dà un immediato sollievo”. Dopo qualche istante di riflessione aggiunge: “Ho capito: si tratta di spostare l’attenzione dall’aspetto esclusivamente negativo di quel momento. E trovare qualcosa DENTRO DI ME che possa aiutarmi a superarlo. La stessa cosa potrei proporla, in effetti, a Matteo; potrebbe anche diventare un gioco: confrontarci su come riusciamo a superare i momenti più difficili da accettare, scambiarci i consigli”.

Marco ha colto perfettamente la mia proposta. Quella di non arrovellarsi tentando di cambiare una realtà che non dipende totalmente da lui, ma cercando dentro di sé le risorse per imparare a tollerare ciò che gli accade. È un’attitudine, questa, che può sollecitare anche nei propri figli, evitando triti ragionamenti “di testa” che tentino di convincerli a farsi una ragione di alcune cose, ma spostando l’attenzione sugli aspetti di risorsa; virando il focus da un piano di pensiero a quello delle sensazioni.

Un detto cita “Quando possiamo cambiare la realtà, facciamo di tutto per cambiarla. Quando non possiamo fare nulla, non ci resta che accettarla”. Ed è in quel momento che il focus diventa il nostro mondo interno, con le potenzialità e le capacità che custodisce.

Marco, la volta dopo, mi riferisce di aver sperimentato questa strategia con Matteo. In un primo momento Matteo non ha voluto ascoltare la proposta di Marco. Che però non si è dato per vinto ed è rimasto accanto al figlio. Dopo qualche istante Matteo ha borbottato che la sola cosa che avrebbe voluto fare sarebbe stata tirare dei pugni. Marco si è prestato al gioco e sono finiti a “fare la lotta”, cosa che non succedeva da tanto, tanto tempo. E tra spintoni e risate hanno ritrovato una complicità che mancava da molto.

Senza rinunciare allo splendore: stare, come una ginestra…

Un lavoro sulle nostre risorse interiori

Mila piange, di fronte a me, quasi sopraffatta. Non le rimangono che le sue lacrime e non riesce a vedere una luce, una possibile fine alla sua sofferenza. La conosce bene, è da tanto che la sente, dentro di sé. Così tanto che quasi non ricorda come sia sentirsi in pace.
Ha sempre lottato molto nella vita e ora, le pare, se ne stanno andando le forze.

“Qual è la sensazione, che riesci a immaginare, opposta a quella che stai provando ora?” Le chiedo.

“Di leggerezza, di sollievo…vorrei tanto non sentire più niente…spegnermi. Mi sembra che non ci sia soluzione…”.

Prima che riparta a verbalizzare quanto sta male e le ragioni della sua disperazione, la interrompo dolcemente: “Mila, capisco che vorresti solo far finire tutto questo. Ma non possiamo cancellare nulla. Possiamo solo cercare di trasformare le cose. E quando non possiamo cambiare quello che la vita ci porta, possiamo cercare di cambiare noi stessi. Partiamo da qui: mi descrivi meglio la leggerezza di cui mi parlavi? Vorrei che immaginassi una situazione che rappresenti questa leggerezza”.

Dopo un lungo sospiro: “beh…come quando da bambina andavo sull’altalena, spensierata, gioiosa…una volta con un’amica abbiamo passato quasi tutto un pomeriggio a spingerci, a turno, sull’altalena nel giardino di nonna…un giardino pieno di fiori”. Le compare un sorriso sulle labbra, le spalle si decontraggono, il respiro di regolarizza.

“Bene, Mila, vorrei che ora tu mi descrivessi nei dettagli quell’esperienza: i colori, i suoni, le sensazioni sulla pelle che hai provato, il movimento…”.

Mila comincia la descrizione e man mano che si immedesima in quella scena vedo il viso e il suo fisico cambiare, rilassarsi. Al termine della sua esplorazione le chiedo di notare come stia ora il suo corpo.
Mila si commuove: si rende conto che sta sorridendo e che sente un’espansione nel suo petto, all’altezza del cuore. Erano anni che non si sentiva così. Pensava di non riuscire più a provare certe cose.

Le spiego che questa è una importantissima risorsa che ha il nostro sistema: potersi autoregolare e riacquistare uno stato di maggiore quiete e benessere, a seguito di una forte attivazione nervosa.
Si chiama, con un termine tecnico (derivato dall’approccio di Somatic Experiencing) “pendolazione”: oscillare da momenti di forte sollecitazione a momenti di recupero.
Imparare a farlo intenzionalmente ci rende più forti, aumenta la nostra “resilienza”, ovvero la capacità di far fronte e superare le difficoltà, le perturbazioni, gli ostacoli a cui siamo sottoposti.

In natura possiamo osservare meravigliosi esempi di resilienza, le dico: uno di essi, a noi familiare, è la macchia mediterranea. Forte, resistente, ricompare sempre anche dopo eventi avversi. Una delle piante della macchia mediterranea è la ginestra: ha radici profonde, è flessibile ma robusta, cresce anche su terreni difficili, e per di più fa fiori gialli profumatissimi, intensi come la sua forza vitale. “Ecco, Mila, dobbiamo imparare insieme a stare come le ginestre: vigorose ma adattabili, in pieno sole, senza rinunciare al nostro splendore…”.

Quando dietro una difficoltà scolastica c’è un’esperienza traumatica

“Samuel, so che a volte è faticoso toccare certi argomenti, ma quello che ti succede mi incuriosisce molto e penso sia importante esplorarlo un po’. Vorrei capire insieme a te in che occasione, per la prima volta, ti è successo di associare una parte del corpo a un grosso spavento. Sono qui con te in questa esplorazione, se dovessi incominciare a provare un forte disagio dimmelo.”


Samuel, un ragazzino biondo di 12 anni, un visino da angelo impaurito, si fa pensieroso. Ogni volta che sente anche solo nominare una parte del corpo, prova una nausea fortissima, fino al vomito, che ultimamente gli rende impossibile frequentare alcune lezioni di scienze a scuola.
Alla mia richiesta sembra sorpreso: non aveva mai pensato che il suo disgusto potesse essere legato alla paura.


“Ora che mi dici questo mi viene in mente che da piccolino, avevo 3/4 anni, mi è successo un incidente: giocando al parco sono caduto e mi sono tagliato il sopracciglio. Ero con mio padre. Ricordo che mi è uscito molto sangue e lui si è spaventato tanto.
Siamo corsi in auto al pronto soccorso e lì mi hanno tenuto fermo per mettermi i punti. Io ero terrorizzato, cercavo di liberarmi, ma mi hanno bloccato. Mi sta tornando alla mente l’odore orribile del disinfettante. Mi sta venendo da rimettere.”


Chiedo a Samuel di stoppare la scena, come se fosse un film, e di “evocare” accanto a sé la sua nonna, per lui così importante, immaginando di ricevere da lei ciò che potrebbe al momento rassicurarlo di più.
Samuel è sollevato dal distogliere il suo pensiero da quella scena. Immagina la nonna al suo fianco, il suo profumo, così familiare per lui, e cambia subito colore: le sue guance tornano rosee, il suo sguardo si ammorbidisce, il corpo di distende e vedo il suo respiro farsi più ampio.
Gli propongo di rimanere accanto a nonna per tutto il tempo che gli serve.
Dopo qualche minuto Samuel riapre gli occhi, che aveva chiusi, e con aria stupefatta mi dice: “è la prima volta che pensando al sangue riesco a non rimettere.”


“Certo Samuel, in quell’episodio, da piccolino, tutto è avvenuto troppo in fretta e troppo intensamente. Il tuo organismo in quella circostanza era molto attivato. In questi casi a volte succede qualcosa di inaspettato: degli elementi si mettono assieme, si aggregano in modo imprevisto. Come quando, se mischi troppo velocemente acqua e farina, si formano dei grumi. Per non farli formare, o per scioglierli, diventa allora importante ridurre la velocità con cui mescoli gli ingredienti, fare attenzione, perché possano trasformarsi in qualcosa di digeribile.
La vista del sangue, la tua paura, l’odore disgustoso dei disinfettanti si sono mischiati nell’esperienza che hai fatto di quel momento. E non sei mai riuscito a digerire quei grumi.
Ora hai imparato che alla giusta velocità e con la giusta attenzione puoi tollerare certe immagini. Ci lavoreremo assieme.”

L’intelligenza del corpo: memorie traumatiche e presente salvifico

Emma è una donna minuta e apparentemente vulnerabile. Ha vissuto molte esperienze drammatiche, ha sofferto – anche fisicamente – in modo indicibile. Ma dalla prima volta che l’ho incontrata, in studio, capisco di avere a che fare con una guerriera, un’esploratrice delle pieghe dell’essere, una creatura intensa, vibrante, nonostante tutto mossa dall’amore per la vita.


Nel nostro primo incontro Emma comincia a raccontarmi, come un fiume in piena, le dure e innumerevoli vicissitudini che hanno caratterizzato la sua vita. Non è la prima volta che si rivolge ad un psicoterapeuta, e sembra impaziente di raccontarmi i dettagli delle sue fatiche. Mano a mano che parla, però, la vedo irrigidirsi, sgranare gli occhi sempre di più, respirare con crescente affanno.


“Emma – la interrompo – facciamo una pausa. Vorrei che adesso lei smettesse per qualche istante di parlare e si prendesse il tempo per portare l’attenzione a quello che sta accadendo dentro di lei, in questo momento”.


Emma fa un sospiro, porta una mano alla fronte, a sorreggersi il capo, e accasciandosi nella poltrona, con un filo di voce, risponde: “Il mio cuore…non mi dà tregua…batte all’impazzata, mi fa male, e sento come se stessi per morire”.


“So che le chiedo qualcosa di insolito, ma se dovesse descrivermi questa sensazione al cuore, che forma, che colore, che dimensione avrebbe?”
Emma: “è come una palla di metallo con delle punte, pesante e scura, grande come il cuore”.


“Se dovesse immaginare una sensazione opposta a questa, quale sarebbe?”


Emma: “di calore, di leggerezza e morbidezza. Un po’ come la sensazione che ricordo mi prendeva al mare, quando ancora riuscivo ad andarci, e mi stendevo sulla sabbia tiepida.”


“Ecco, Emma, vorrei che adesso lei andasse, con la sua immaginazione, proprio là, in quella spiaggia. Vorrei che si stendesse su quella sabbia, calda al punto giusto, e che potesse sentire il suo corpo, la sua pelle, sprofondarvi un po’ dentro, godere di quel tepore. Non deve fare più nulla, solo ascoltare il suono del mare, ritmico, come quello del suo respiro, sentire la brezza. E godersi questa esperienza, andare un po’ là in vacanza …senza fretta…”


Emma sembra riprendere colore e si adagia con morbidezza sulla sua seduta, chiudendo gli occhi.
Dopo qualche istante un cenno di sorriso le compare sul volto.
Le domando se le riesca di immaginarsi là, e quando lei annuisce le chiedo di fare attenzione a che cosa sia cambiato, ora, nel suo corpo.
Emma apre lentamente gli occhi e mi guarda: “per la prima volta da mesi non sento quel dolore al cuore, mi sembra impossibile…”. Si commuove e ci guardiamo a lungo, in un intenso contatto visivo silenzioso, ma eloquente.
Dopo qualche istante, commento: “Il suo corpo sa come darsi tregua, e come regolarsi, nel qui e ora. Partiremo da questo, per esplorare in un secondo momento anche i ricordi più dolorosi. Ma se non impariamo a usare il freno o a cambiare marcia non possiamo guidare pensando di premere sempre e soltanto sull’acceleratore”.
È cominciata così la nostra avventura insieme, il nostro lavoro con Somatic Experiencing, per aiutare Emma a superare i traumi del passato.